Per quel che riguarda i tagli alla cultura è circolata nei giorni scorsi una curiosissima lista preparata dal ministro Tremonti, 232 enti definiti inutili da far morire di asfissia. Dentro ci si trovava di tutto: dal festival dei Due mondi di Spoleto all’associazione dei veterani e reduci garibaldini, dall’Istituto della Resistenza al Comitato nazionale per le celebrazioni del bicentenario della nascita di Guglielmo Massaja, dalla Pro civitate christiana di Assisi al Centro ricerche aerospaziali. Tra le “fondazioni” sacrificate si ritrovano poi tanti nomi illustri della storia politica italiana: Alcide De Gasperi e Bettino Craxi, Filippo Turati e Pietro Nenni, Lelio Basso e i Rosselli; con l’Istituto Gramsci è colpito anche quello dedicato al “federalista” Carlo Cattaneo. Quando Bondi, per la prima volta nella vita, si è lamentato, a sinistra qualcuno è stato contento e c’è stato perfino chi lo ha incoraggiato. Non lo avesse mai fatto! Bondi ha ottenuto le forbici: i tagli sono confermati, ma sarai lui adesso a scegliere, con il metodo del “tu sì, tu no”. Ne vedremo delle belle. (S. L.L.)
Sull’argomento ho già postato un ironico pezzo di Sandro Portelli (http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/05/enti-inutili-il-museo-della-liberazione.html). Dal sito Eddyburg, fondato dall’economista Edoardo Salzano, rilancio ora un intervento assai pertinente di Maria Pia Guermandi e dal “manifesto” un articolo serio e puntuto Arianna Di Genova.
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Il colore della cultura
Maria Pia Guermandi
Nel balletto di ipocrisie che nasconde ferocissimi scontri di potere all’interno del governo sulla manovra finanziaria in discussione in queste ore, spicca quest’oggi la “protesta” di Bondi sui tagli indiscriminati alla cultura. E già, perché a tutti – in maniera bipartisan - una presa di posizione critica da parte di un ministro da sempre appiattito fino al masochismo sulle decisioni del governo è apparsa novità da sottolineare a riprova delle storture della manovra stessa.
Eppure, quando due anni fa la scure di Tremonti si abbatté, pesantissima, sul bilancio del suo Ministero, Bondi difese l’operato del governo sostenendo l’inefficienza ministeriale nella gestione delle risorse e sbandierandone come prova lampante l’elevato ammontare dei residui passivi. In quella occasione ad economisti anche non di parte fu facile smontare la versione del ministro: la realtà a tutti nota è che nessun governo di alcun colore politico ha mai investito seriamente sul nostro patrimonio culturale e il Ministero è da sempre mantenuto in una sorta di bagnomaria che gli permette solo di sopravvivere.
Ma è altrettanto vero che in questi ultimi due anni è stata messa in atto, consenziente il Ministro, una vera e propria strategia di asfissia progressiva e sempre più accelerata.
Pensionamenti anticipati, girandola di trasferimenti, sostituzione, nei ruoli di maggiore ruolo decisionale sul territorio come le Direzioni regionali, di personale amministrativo al posto di tecnici del settore, e, soprattutto, quella politica dei commissariamenti sotto l’egida della Protezione Civile che ha interessato via via le Soprintendenze e poli museali principali e i cui meccanismi distorti solo le inchieste giudiziarie sono riuscite a bloccare.
Mentre per quanto riguarda il paesaggio gli organi politici del ministero hanno posto in atto, da un anno a questa parte, una sistematica operazione di depotenziamento dell’intero sistema delle tutele sul quale torneremo a breve, sul piano politico, è giunta pressoché a compimento l’espulsione progressiva di tutte le voci di dissenso, avviata in grande stile con le clamorose dimissioni di Salvatore Settis da Presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali, trasformato poi, in pochi mesi, in un organismo tanto consenziente sul piano politico quanto ininfluente su quello culturale.
Anche in questa occasione, del resto, le dichiarazioni del Ministro sono in realtà molto più coerenti di quel che non possa apparire ad una prima lettura: nulla Bondi ha detto sull’ulteriore taglio del 10% al bilancio del Mibac previsto dalla manovra. Briciole in termini assoluti, ma ad un organismo sottoposto, come detto, ad una dieta draconiana, se gli si sottrae anche il tozzo di pane secco, se ne decreta di fatto la soppressione.
E nel comunicato di precisazione diramato in giornata, Bondi ribadisce anche, sulla stessa linea, la necessità di quella “riforma” degli enti lirici che ha scatenato proteste a livello internazionale.
Il dissenso del Ministro riguarda invece la soppressione dei finanziamenti statali ad una lunga serie di istituzioni culturali del più vario tipo che, inaspettatamente, egli si trova a difendere, almeno in parte, rivendicando – unico caso nel suo mandato – la competenza del proprio Ministero a decidere sui tagli.
Su “eddyburg” abbiamo pubblicato da subito le molte ragioni che si oppongono, in linea di principio, ad ulteriori tagli su enti di ricerca, ma adesso leggetevi la lista delle istituzioni cui verrebbero (condizionale d’obbligo) sottratti i fondi statali. Sfido chiunque a non riconoscere fra quelle che, a seconda delle proprie competenze, ci sono maggiormente note, alcuni (molti) carrozzoni polverosi e da anni sonnecchianti in iniziative di basso profilo: uno o due convegni l’anno in amene località, una pubblicazione patinata e poco altro.
Si tratta, in molti casi, di istituzioni dalla storia gloriosa, a volte pluricentenaria, ma che da alcuni decenni ormai vegetano in un’assoluta irrilevanza culturale (sul tema, sempre su eddyburg).
Eppure sono sopravissute sempre alle minacce che periodicamente i governi, preferibilmente di centro destra, scagliano contro i famosi “enti inutili”: spauracchio demagogicamente agitato ad ogni manovra finanziaria. La ragione, tutta italica, della loro sopravvivenza risiede nel fatto che molte di queste istituzioni si sono di fatto trasformate in comode sinecure per amici, sodali e congiunti.
Anche la sinistra, e qui vengo al punto centrale della questione, ha favorito questo andazzo, sicura di mantenere, garantendo elemosine di Stato a questi rifugi per intellettuali a riposo e per il loro corteggio, sacche di consenso spendibili alla bisogna. In molti casi questo calcolo di bassa cucina si è rivelato pure sbagliato, poiché, come noto, al cambio della guardia, i vari responsabili, direttori, presidenti, ecc. si sono in larga parte allineati al padrone di turno, al grido di “la cultura (archeologia, geografia o storia che fosse) non è di destra, né di sinistra”.
Appunto. Ciò che un governo realmente consapevole dell’importanza della ricerca e della cultura quale strumento strategico di progresso sociale e anche economico di un paese avrebbe dovuto fare, sarebbe stato quello, internazionalmente affermato, di costituire un sistema di controlli e verifiche periodiche e realmente autonome sull’attività di tali enti, in modo da premiarne quelli (non molti, ma pure presenti nella black list tremontiana) di reale eccellenza, facendo anzi confluire su questi le poche risorse disponibili.
Perché un’altra delle ipocrisie che si celano dietro questa operazione è quella di sottolineare l’esiguità delle elargizioni statali a riprova della loro ininfluenza in termini di risparmio complessivo delle risorse. Va detto, piuttosto, che la ricerca di alto livello ha dei costi non comprimibili al di sotto di una certa soglia e che, per converso, la scarsità di risorse cui sono costrette tante di queste istituzioni diviene prova evidente della miserevole incidenza culturale raggiungibile dalle loro attività.
Così, invece di contribuire a consolidare, con una politica di finanziamenti culturali trasparente e fondata sul merito, le istituzioni di ricerca di eccellenza che, nonostante tutto, sopravvivono nel nostro paese, la sinistra può annoverare anche questa colpa: nella bagarre che già si è scatenata sulla lista nera, vi sarà un arrembaggio giocato esclusivamente su prove di forza di bassa politica e dal calderone nel quale tutti sono appiattiti, saranno salvati non i migliori, ma quelli legati ad interessi o anche solo conoscenze di maggior potere.
Amaramente pertinenti appaiono le considerazioni di Barbara Spinelli nell’odierno editoriale: “Quello che urge da noi non sono sacrifici, ma un’autentica disintossicazione […] Si tratta di uscire dallo show, di entrare nella realtà, di vederla. Si tratta di rompere con gli usi e costumi vigenti dietro le comunità transennate”.
Si accettano scommesse sul finale di partita.
(da “eddyburg” – 30 maggio 2010)
La lista nera di un banditore
Arianna Di Genova
Dopo aver finto di essere caduto dalle nuvole e aver recitato la parte dell'offeso con il suo stesso governo («mi hanno esautorato», si lamentava di fronte alla imponente lista di tagli che di fatto censurava ogni manifestazione culturale in Italia) ora il ministro Bondi gongola e ha ritrovato il sorriso. Di più, si lancia in sperticati elogi: «Ringrazio il presidente del consiglio Silvio Berlusconi, il ministro Tremonti e il dottor Gianni Letta per la sensibilità che hanno dimostrato», stralciando la black list di fondazioni e istituti.
Ha anche assicurato i suoi di non sentirsi per nulla arrabbiato e di essere pronto a mettersi «al lavoro come sempre, con l'assoluta convinzione della necessità e giustezza della manovra, coinvolgendo tutti i colleghi ministri, presidenti dei gruppi parlamentari e l'intero mondo della cultura su come e in che modo ridurre le spese inutili, salvaguardando le eccellenze...».
Questo il suo editto pauroso. Perché non è poi così vero che i tagli agli istituti di cultura e al pensiero libero tout court siano stati scongiurati o ridotti di importanza: la discrezionalità politica e ideologica non è preferibile al calderone caotico della lista. Il ministro, infatti, deciderà quali rami recidere, in base a motivazioni imperscrutabili e certamente non tarate su ragioni economiche. Bondi potrebbe disporre che i fondi non debbano più andare alla Casa Buonarroti perché magari ama più Raffaello che Michelangelo; oppure, che Galileo sia ormai desueto con quell'ossessione della terra rotonda che gira intorno al sole o ancora che la Magna Grecia sia da cancellare perché le generazioni future si «istruiranno» con l'iPad e non spolverando antichi reperti di civiltà sepolte.
In un teatrino politico alla ricerca del consenso acritico (le parole di Mariastella Gelmini sulla manovra sono illuminanti al riguardo: «le promesse di Berlusconi sono state tutte confermate. Tutela dei ceti deboli, senza tagli alle pensioni, alla sanità, alla scuola, ai centri di ricerca e al fondo per l'università...»), un paese colto, costituito di individui consapevoli e formati non è augurabile, è anzi fattore urticante. Assoggettare è una ricetta migliore. Così come l'editoria costretta a rimettere i suoi diritti nelle mani del governo di turno. E va ribadito che non è un'umiliazione per la cultura ricevere contributi e sostegni pubblici perché il suo campo magnetico non è esattamente il mercato, ma la ricerca, la libertà degli studi, la passione intellettuale. E un welfare serio non si sognerebbe mai di abbrutire un paese lasciandolo al palo, deprivato del futuro e a corto di cervelli (dopo averli istigati alla fuga). Per non toccare poi il tasto dell'occupazione in questo settore e dei livelli agghiaccianti di depauperamento e depressione raggiunti già oggi, con il progressivo dimagrimento (fino in alcuni casi alla sparizione) dei finanziamenti.
Non siamo di fronte a una manovra economica, ma a una farsa politica in cui l'arma di Tremonti è un silenziatore delle coscienze. Basta mettere in fila i termini del «confronto con la crisi»: editoria, scuola, ricerca, università, cultura. E come mai nelle voci «contabili» sono sparite le spese militari?
(da “il manifesto” 1 giugno 2010)
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