Agostino Spataro è mio amico e compagno da data antichissima. Di pochissimo più vecchio di me (dovrebbe essere come del 48, lui di gennaio, io d’agosto), lavorava per la Fgci già a 18 anni e spesso accompagnava Federico Martorana, che un po’ gli era maestro e modello. Ne imitava la chioma, il capello riccio e lungo, rotondeggiante. Poi, se non ricordo male, Agostino passò ad occuparsi di contadini, dell’Alleanza.
Appassionato, coraggioso, mai stanco, lui, di Joppolo, arrivava al mio paese alle 11, a mezzanotte, dopo qualche riunione in un paese vicino, quasi sempre con Federico. Amavano parlare di politica e a Campobello trovavano persone altrettanto appassionate: Lillo Gueli in primo luogo. Ma Gueli, sposato, a quell’ora molte volte era già tornato a casa.
Acchiappavano quasi sempre me e Lillo Guarnieri; non ci lasciavano scappare. Lillo Guarnieri, detto “lu filippinu”, di Federico diceva icastico: “Caca molle e appiccica duro”. Parlavamo di tutto, della politica locale, del congresso Dc, di Ingrao e Amendola, del Vietnam. Le discussioni più accanite erano però di pura teoria: ne ricordo una interminabile sulla natura del partito e sui suoi rapporti con la “classe”. Organo, strumento o parte della classe? E in cosa il “partito nuovo” di Togliatti differiva dal modello leninista?
Agostino a queste discussioni assisteva attento, ma partecipava poco. Lui fin da allora era appassionato di politica internazionale. Sapeva tante cose sui “partiti fratelli” del “campo socialista”, sul Vietnam, sulla Cina, perfino sull’America.
L’ho visto poco e non saprei dire da quando non lo vedo: venticinque anni? trenta? Ma lo sento tuttora amico e compagno. So che ha fatto la carriera ed è stato, giovane, tre volte deputato, al tempo della prima Repubblica, quando le legislature non duravano mai cinque anni. Si occupava di politica estera e si appassionò di Medio Oriente, diventando amico personale di Yasser Arafat. Sciolto il Pci non fece più tessere di partito e si trovò un lavoro di giornalista. Scrive per “Repubblica” e dirige una bella rivista on line sulla politica nel Mediterraneo. Dal sito della rivista (http://www.infomedi.it/) ho tratto questa testimonianza su un evento lontano, un’altra nave per la pace in Palestina che allora gli israeliani si limitarono ad affondare, senza ammazzare nessuno. Quella volta. (S.L.L.)
Limassol 1988
Credo che il tragico, inammissibile assalto di questa notte, in acque internazionali, delle forze speciali israeliane contro la nave della solidarietà che portava viveri e medicine alla popolazione assediata di Gaza, sia un altro punto all’attivo dell’attuale governo di Netanyahu per giungere al completo isolamento d’Israele in M.O. e nel mondo.
Tuttavia, non è un commento che qui vorrei fare, piuttosto ricordare una precedente, analoga iniziativa organizzata, ai primi di febbraio del 1988, dall’Olp di Yasser Arafat e sostenuta da un vastissimo schieramento internazionale di forze politiche, culturali, sindacali e associazioni pacifiste: “la nave del ritorno” dei palestinesi esiliati che doveva partire dal Pireo con destinazione il porto israeliano di Haifa.
Per una serie di oscure e drammatiche circostanze, quella nave, alla fine, non partì né dal Pireo né dal porto di Limassol (Cipro) e così fu evitata una tragedia forse più grave di quella attuale.
Ma andiamo con ordine, sulla base degli appunti presi in quelle concitate giornate.
Ad Atene erano convenute circa 1500 persone, la gran parte vecchi rifugiati palestinesi e famiglie cacciati dalle loro case dopo la prima guerra arabo-israeliana del 1948 e dispersi nei campi profughi di Giordania, Siria, Libano ed Egitto.
Ad accompagnarli in questa pericolosa missione, che il governo di Shamir considerava “una compagnia di assassini” da bloccare con ogni mezzo, c’erano centinaia di rappresentanti di partiti, sindacati, giornalisti, di associazioni umanitarie e pacifiste di molti paesi in gran parte europei e occidentali.
Sapevamo che oltre alla solidarietà la nostra funzione su quella nave sarebbe stata anche quella di scudo umano per scoraggiare la reazione violenta degli israeliani.
La delegazione italiana era composta: dal sottoscritto (per il PCI), da Raniero La Valle (per Sin. Indipendente), La Chiara (per PSI), Nordio (Acli), Ferrucci (Ass. giuristi democratici).
V’ erano anche diversi giornalisti fra i quali ricordo: F. Isman, (Messaggero) L. Tersini (Tg3), I. Gagliano (Tg2), G. Berenson (Repubblica) e un giornalista dell’Ansa.
Con noi viaggiò anche mons. Hilarion Cappucci, da lungo tempo esiliato a Roma per imposizione del governo d’Israele al Vaticano, che- come altri profughi palestinesi- desiderava ritornare nella sua terra.
Ci era stato assicurato che la nave (noleggiata dall’armatore Vassiliké) era pronta a salpare l’indomani (il 10 febbraio). Giunti in hotel, non disfacemmo le valigie per tenerci pronti per l’imbarco. Invece, nessuno ci convocò per la partenza. L’attesa cresceva e si propagava, tramite i media, nell’opinione pubblica internazionale.
L’Olp si stava giocando una carta, certo, rischiosa, ma che poteva avere un impatto favorevole davvero eclatante. Nessuno, nel mondo, avrebbe potuto negare a questa gente il diritto al ritorno.
Tranne, gli israeliani che forse non volevano cedere il copyright acquisito con la loro “nave del ritorno”.
Alla prima conferenza-stampa (affollatissima di giornalisti e operatori tv), Bitar, rappresentante Olp ad Atene, si diffuse sul significato dell’iniziativa, ma nulla disse sulla mancata partenza della nave. S’intuisce che c’erano difficoltà. Ma quali? Andammo alla ricerca d’informazioni, di dettagli.
I capi palestinesi apparivano imbarazzati e nervosi e soprattutto muti. Dopo alcun giorni d’inutile attesa, riuscimmo a capire qualcosa: le pressioni congiunte israeliane e Usa avevano fatto breccia sul governo greco del socialista Papandreu (papà dell’attuale premier) per bloccare l’iniziativa.
Con gli armatori gli israeliani furono chiari: se avessero noleggiato la nave, rischiavano di vederla affondare.
Fra le delegazioni straniere si diffuse una certa sfiducia. La pressione israeliana si fece sentire anche all’interno del nostro hotel. Soprattutto, nei confronti dei giornalisti stranieri ai quali fu imbucato, sotto la porta della camera, un ciclostilato anonimo ma fortemente dissuasivo.
Le agenzie fecero sapere che i Lloyd di Londra non intendevano assicurare la nave eventualmente noleggiata.
Il pomeriggio del 13, lo sceicco Sayed, presidente del Consiglio nazionale dell’Olp, annunciò alle delegazioni e alla stampa che “lunedì la nave partirà...da Cipro”
La notizia fu accolta con un fragoroso applauso. A me vennero alla mente le note della celebre canzone di Endrigo.
I capi palestinesi altro non dissero “per evidenti motivi di sicurezza”. Assicurarono che la nave sarebbe partita da Cipro e che avrebbe impiegato 4 – 5 giorni per la traversata. Insomma, la missione era salva.
Ricominciarono le discussioni sui rischi. Si soppesarono attentamente le parole contenute nella dichiarazione della “colomba” Peres, ministro degli esteri, il quale aveva avvertito che la nave del ritorno dei palestinesi era “un atto di ostilità contro lo Stato d’Israele” ossia un atto di guerra che li autorizzava a difendersi. Per il “falco” Shamir (primo ministro) la nave non avrebbe avuto scampo.
L’indomani (14/2), i dirigenti dell’Olp ci informano che a Larnaka era stata fatta saltare col plastico un’auto con dentro cinque uomini dei servizi palestinesi di “Forza 17”.
Era il biglietto da visita degli israeliani.
Ci dissero che, nonostante tutto ciò, presto saremmo partiti per Cipro a bordo di due aerei presi a nolo. Insomma, la minaccia israeliana cominciava a prendere corpo, tragicamente.
Sale la tensione anche nella delegazione italiana che decide d’inviare, tramite il nostro ambasciatore ad Atene, Marco Pisa, un telegramma al Presidente della Repubblica, al presidente del Consiglio Goria e al ministro degli esteri Andreotti per chiedere passi adeguati nei confronti di Shultz, segretario di stato Usa, che l’indomani avrebbero incontrato a Roma.
Nella notte telefono a Giorgio Napolitano, responsabile esteri del Pci, per informarlo della situazione e chiedere consiglio. Si mostra preoccupato e vuol sapere delle presenze dei rappresentanti d'altri partiti progressisti europei. Rispondo che non erano tante e che qualcuno era già rientrato. Sul che fare non sa dirmi, avrebbe voluto consultare altri dirigenti del partito.
Ci saremmo risentiti domani, ma- come vedremo - non sarà necessario poiché la situazione sarebbe precipitata da lì a poco.
L’indomani, infatti, intorno alle 11,00, scendemmo con le valigie nella hall pronti a partire, in aereo, alla volta di Larnaka. Già un nutrito gruppo di rifugiati palestinesi ci aveva preceduto.
L’attesa si faceva snervante, i bus non arrivavano. Tememmo nuovi rinvii. I dirigenti dell’Olp c’invitarono a partecipare a un’improvvisata conferenza stampa.
Abu Sharif, il portavoce dell’Olp, annunciò che la “nave del ritorno”, ancorata nel porto di Limassol, era stata fatta saltare in aria dagli israeliani qualche ora prima.
La nave non era stata noleggiata, ma addirittura acquistata dall’Olp con l’aiuto dei sauditi.
Fu a questo punto che ci convincemmo che la missione era decorosamente fallita e decidemmo di prendere il primo aereo per Roma.
31 maggio 2010
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