4.2.17

Darwin e la razza. Né natura né cultura (Giovanni I. Giannoli)

Poche icone continuano a brillare nella galleria degli eroi progressisti: Giordano Bruno, Galileo Galilei, Charles Darwin… Su altri – soprattutto quelli politici – è caduta poco a poco la polvere del revisionismo. Tra i moderni, insieme alla chioma scomposta di Einstein, ci è rimasto il barbone del padre dell’evoluzionismo. Eppure, Darwin non è stato soltanto uno scienziato rivoluzionario, che ha fornito un contributo decisivo alla comprensione del mondo biologico e all’idea che tutti gli esseri umani condividano la stessa origine. E nemmeno è stato, soltanto, un gentiluomo illuminato, convinto assertore dell’estensione del suffragio e dell’abolizione dello schiavismo. Se la lotta contro il traffico degli schiavi ispirò l’impegno scientifico di Darwin (come un «fuoco sacro», come un imperativo indomabile, di ordine etico), Darwin fu anche un figlio tipico del suo tempo, che assumeva l’esistenza di «razze» come un fatto scontato. Pensava che la lotta tra le «razze» fosse un corollario implicito nella lotta per la sopravvivenza e accoglieva l’idea che le «razze» occupino posti diversi, in una scala gerarchica della specie viventi. Considerava inevitabile la scomparsa di intere popolazioni indigene, di fronte all’avanzata degli europei e delle loro stirpi. Del resto, accanto a chi ne ha fatto un eroe del pensiero moderno, c’è chi lo ha dipinto come un apologeta dell’egoismo, della sopraffazione sociale, della guerra e del colonialismo.

I vantaggi della bellezza
Ai tempi di Darwin, la letteratura scientifica e l’evidenza portavano a considerare come un fatto la differenza nell’aspetto esteriore degli esseri umani. «Le razze degli uomini differiscono principalmente nel colore, nella forma della testa e dei lineamenti (quindi nell’intelligenza? E che tipi di intelligenze?); nella quantità e nel tipo di capelli e nella forma delle gambe», scriveva Darwin nel 1838. Le differenze fenotipiche tra i nativi dell’Africa, dell’Asia o delle «Indie Occidentali» sembravano però contrastare con la tesi dei monogenetisti, teorici di un’origine comune per tutti gli esseri umani; bisognava spiegare quelle differenze. Darwin propose una spiegazione di carattere estetico, tirando in ballo l’eros: nella specie umana si sarebbero andati affermando certi standard locali di bellezza; gli individui considerati più belli avrebbero acquisito un vantaggio riproduttivo e – poco alla volta – trasmesso agli eredi i loro tratti.

Schiavi per natura?
Ogni «razza» si sarebbe formata intorno a un certo prototipo di bellezza. Nessun dubbio, però, circa il fatto che le «razze» manifestassero differenti gradi di sviluppo e che: «in un futuro non lontano, se misurato in secoli, le razze civili dell’uomo certamente avranno sterminato e sostituito in tutto il mondo le razze selvagge». Di più: negli appunti di Darwin aleggia l’ipotesi che lo schiavismo possa essere qualcosa di assolutamente esecrabile ma di naturale, perché potrebbe configurarsi come un vantaggio, come il risultato di una specializzazione adattativa. Con l’occhio disincantato del naturalista, Darwin era anche convinto che la difesa dei deboli, l’assistenza sanitaria, il sostegno degli «incapaci» costituissero un rischio per le comunità. Appellandosi all’esperienza degli allevatori di bestiame, ricordava che ogni tentativo di contrastare la selezione naturale si traduceva in un deterioramento della qualità della prole.
Ma l’idea che i tratti apparenti degli esseri umani possano servire per tracciare differenze nella specie era destituita di fondamento. Le caratteristiche fenotipiche si distribuiscono infatti secondo assi di continuità, lungo i quali è vano cercare cesure. Di certo, tra individui che sono nati in continenti diversi (così come i loro ascendenti) i tratti del viso e di altre parti del corpo possono essere riconosciuti; ma c’è sempre una relazione di continuità, o di stretta contiguità, nella genesi e nella distribuzione di queste differenze.
Da quando si è capito che i tratti fenotipici sono espressione di caratteristiche genetiche, sia nell’agricoltura che nell’allevamento si sono moltiplicate le ricerche, per classificare e (possibilmente) governare questi caratteri. Nell’ambito dell’antropologia, si è osservato che la distribuzione di particolari alleli (cioè la frequenza statistica di particolari varianti, nella struttura del genoma) è correlata con la localizzazione geografica degli individui che li possiedono.
Però, anche in questo caso, succede questo: piuttosto che presentarsi come raggruppamenti discreti, omogenei al loro interno, le distribuzioni di questi alleli variano con continuità; la relazione tra genotipo e fenotipo è inoltra molto complessa (e, in grandissima parte, ancora ignota); anche nei casi in cui la distribuzione di queste caratteristiche risulta più netta, la differenza tra i tratti genetici all’interno di una stessa popolazione può essere addirittura più ampia di quella rilevata tra individui appartenenti a due popolazioni diverse. In breve: il tentativo di argomentare a favore dell’esistenza di sotto-specie umane differenti, invocando la genetica delle popolazioni, non coglie nel segno.
Certamente, la nostra evoluzione ci ha dotato di specifiche abilità nel riconoscere i volti e nell’organizzare secondo prototipi gli enti dei quali è popolato il nostro ambiente. Ma riusciamo a classificare come sedie, bottiglie e martelli, se serve, anche oggetti che non corrispondono al migliore modello. La nostra abilità nel classificare, e nell’adeguarci al contesto, ci porta a tracciare differenze convenzionali, che non hanno necessariamente una consistenza ontologica. Qualcosa del genere, probabilmente, ci accade nei confronti dei nostri simili, quando tendiamo a costruire prototipi di popolazioni diverse: si tratta di una disposizione cognitiva, di un aspetto della nostra inclinazione naturale, tesa a segmentare il mondo secondo categorie di appartenenza.
Però, nel classificare gli individui che appartengono alla nostra specie, incontriamo oggi una nuova difficoltà: «razzista» è diventato un termine dispregiativo, che connota negativamente. Per questo, nel classificare gli esseri umani, facciamo ora ricorso a predicati che non hanno a che fare con la natura biologica, ma piuttosto con la lingua, le consuetudini, le credenze, le religioni, le tradizioni artistiche. Non parliamo di «razza», ma di «comunità», di «civilità», di «gruppo etnico», di «popolazione».

Il modello Huntington
Mutuandola dalle analisi di Fernand Braudel – uno dei massimi storici del Novecento – una ventina di anni fa lo studioso di geopolitica Samuel Huntington ha proposto una nuova classificazione dell’umanità, utilizzando il concetto di civilità. Malgrado Huntington sia incline a pensare che tra il concetto di «civilità» e quello di «razza» esista una «notevole corrispondenza», ha lasciato cadere ogni riferimento alle caratteristiche fisiche delle popolazioni: «una civiltà rappresenta il più vasto raggruppamento culturale di uomini ed il più ampio livello di identità culturale che l’uomo possa raggiungere dopo quello che distingue gli esseri umani dalle altre specie. Essa viene definita sia da elementi oggettivi comuni, quali la lingua, la storia, la religione, i costumi e le istituzioni, sia dal processo soggettivo di autoidentificazione dei popoli».
Le ultime sei parole sono particolarmenti importanti: la spinta alla radicalizzazione delle diverse «civilità», foriera di inevitabili scontri, sarebbe legata alla ricerca di identità e di appartenenza, che ogni essere umano naturalmente persegue. Questo processo sarebbe esaltato dalla natura stessa della condizione contemporanea, così secolarizzata, impersonale, frammentatrice di ideologie, così scettica rispetto ai valori e alla condivisione degli scopi. La distribuzione ineguale delle ricchezze fungerebbe da stimolo materiale per una reazione identitaria, per una affannosa ricerca di nuove appartenenze.
Così come ai tempi di Darwin le apparenti differenze razziali sembravano fornire uno schema adeguato per dar conto della fenomenologia, così (a una prima lettura) può sembrare che l’idea di uno «scontro tra civiltà» sia un modello efficace, per le tendenze geopolitiche in atto. In particolare, sembra corrispondere al vero che nuove credenze di massa, nuove ideologie, traggano molto alimento dai conflitti tra le popolazioni, che hanno come oggetto la ripartizione delle risorse e che assumono come aspetto identitario la differenza etnica, religiosa o ideologica.

La controproposta di Sen
La critica militante di questo modello (la critica delle ideologie, e il disvelamento del nocciolo materiale, e razionale, dei conflitti) è all’ordine del giorno; ma in termini diversi – si deve sperare – rispetto al fatalismo molto freddo con il quale il giovane Darwin commentava il genocidio degli indios, nelle pampas argentine del XIX secolo: «se questa guerra sarà coronata da successo, e cioè se tutti gli indiani saranno massacrati, una grandissima estensione di terra verrà acquisita per l’allevamento del bestiame; e le valli produrranno molto mais».
Amartya Sen, impegnato a confutare la tesi di un immanente (e ineluttabile) «scontro di civilità», ha utilizzato una strategia molto simile a quella messa in campo dai genetisti, per demolire il concetto di «razza». Così come i tratti del genotipo non identificano classi di appartenenza chiuse e omogenee al loro interno, così Sen argomenta che i predicati utilizzati da Huntington non sono quelli più dirimenti e specifici, per classificare le popolazioni del mondo contemporaneo e per raccogliere gli individui sotto particolari gruppi. Per Sen, ogni individuo fa parte di una pluralità di gruppi (di genere, o legati alla classe sociale, alla professione, ai gusti, all’educazione, al tipo psicologico), che rendono vacua, grossolana e molto arcaica la suddivisione per «civilità». Né vale il fatto che i predicati presi in considerazione da Huntington (per esempio: l’appartenenza religiosa) debbano implicare necessariamente conflitti: l’India, con i suoi 145 milioni di musulmani, rende molto opinabile la classificazione di Huntington, che riconduce tutta la comunità indiana alla «civilità induista».

La posta in gioco
Al militante politico resta però qualche dubbio. Così come fu necessario un secolo almeno di blocchi navali e di guerre, per ottenere l’abolizione formale dello schiavismo (e ancora di più, per confutare i pregiudizi «scientifici» e culturali, intorno al razzismo), è possibile che il tema della contrapposizione etnica, dello «scontro tra civilità» richieda qualcosa di più di una confutazione teorica, centrata sull’idea aristotelica che «l’essere si può dire in molti modi» e sull’assunto (relativistico) secondo il quale ogni tassonomia è rivedibile.
Non si tratta di rivendicare il fatto che, per ogni insieme di individui e di oggetti, le classificazioni in astratto possibili non conoscono limiti. Si tratta di capire quali criteri di identità e di appartenenza possano prevalere nell’umanità negli anni che vengono, per quali motivi, e quali criteri sarebbe opportuno invece proporre.


“il manifesto”, 12 febbraio 2012

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