21.6.17

1990. È morta Ava Gardner, “la più bella del mondo” (Mariuccia Ciotta, Roberto Silvestri)

Dopo il suo viaggio negli Stati Uniti dell’86 per rivedere la sua famiglia, Ava Gardner non era più stata bene di salute. Il suo corpo, ha precisato Paul Mills, verrà ora traslato nella cittadina americana di cui era originaria, Smithfield, nella Carolina del nord, per essere sepolto nella tomba di famiglia.
Una delle star più note degli anni '50 (tra le sue principali interpretazioni I gangsters, Il bacio di Venere, Le nevi dei Kilimangiaro, Mogambo, La Maia desnuda e La contessa scalza), Ava Gardner aveva lasciato Hollywood dopo il fallimento del suo matrimonio con Frank Sinatra. Viveva a Londra dal 1968. Nel 1986 aveva avuto un infarto.
Nata Lucy Johnson il 24 dicembre del 1922, prima che con Sinatra la Gardner era stata sposata con l’attore Mickey Rooney e con il musicista jazz e direttore d’orchestra swing Artie Shaw.
«Le piaceva vivere a Londra - ha detto Mills - non amava la fretta del nord America. La gente era abituata a vederla a passeggio con il suo cane nel parco. Nessuno la disturbava». La Gardner viveva in una tranquilla piazza alberata vicina a Hyde Park.

Era diventata «la donna più bella del mondo» quando nel film di Joseph Mankiewicz, La contessa scalza (The Barefoot Contessa, 1954) cantò l’ultimo canto della diva. Simulacro della donna irragiungibile del grande schermo, mentre la tv marciava contro Hollywood, Ava Gardner fu immortalata nel marmo di una pietra tombale, gelida statua della bellezza, a cui piedi piangeva, sotto una lugubre pioggia, Humphrey Bogart.
Era morta uccisa dal marito impotente (Rossano Brazzi), incapace di sfiorarla, paralizzato di fronte alla sua regalità di star, alla sua essenza di pellicola. Lui non poteva che adorarla, che tenerla segregata nello splendido palazzo italiano a picco sul mare. E quando lei, fatta di carne e sangue, aveva cercato la passione e la maternità in un rapporto con un uomo senza fantasia (il suo autista) lui l’aveva uccisa e fissata per sempre nella perfezione immortale della pietra (del film). Humphrey Bogart, ultimo testimone della Hollywood d’oro, come lei, era stato il suo unico amico e confidente. L’unico che poteva capire il dramma della morte a cui il divo era destinato inesorabilmente con l’avvento della civiltà elettronica.

Ed è proprio Hollywood la causa della tragedia: lei all’inizio del film è solo una piccola e ardente ballerina spagnola, che a malavoglia accetta di diventare star, dopo le pressanti richieste di un produttore nordamericano (e di un regista: Bogart). È l’inizio della sua fine. Hollywood la trascinerà nella sua caduta. E forse il film di Mankiewicz contribuì alla decisione dell’attrice di lasciare «l’industria dei sogni» per l’Europa.
Già tre anni prima del magico parco di Ravello dov’è ambientata La contessa scalza, un altro film, Pandora di Albert Lewin (Pandora and the flyng dutchman, 1951) giocava sulla straziante lotta della «più bella del mondo» contro se stessa, contro una donna a cui la vita è negata. Bellissima ancora nei colori pastello del film, Ava Gardner si innamora dell’Olandese Volante, un uorpo venuto dal passato, che con lei divide la consistenza dell’ectoplasma. Gli occhi fissi sulle nuvole che sovrastano l’oceano, Pandora aspetta l’apparizione del vascello fantasma (quello di Peter Pan, del ragazzo che non voleva crescere) e della sua unica possibilità di esistere: morire per il mondo e raggiungere l’infinita felicità delle stelle.
Ma la carriera di Ava Gardner, un’immagine-pulsione fortissima della storia di Hollywood (non a caso circondata dai più fantasiosi, barocchi, alternativi e piccanti aneddoti extra-set tra i quali la love-story con Lana Turner che turbò molto Frank Sinatra) per noi europei, è concentrata soprattutto in un «triangolo delle Bermude» di film dall’eros incandescente e dalla plastica inusuale che si completa con Il sole sorgerà ancora di Henry King (’57, 20th Century Fox). Lo ha scritto Gilles Deleuze nell'Immagine-movimento: «Un tipo originario di donna imperiale e atletica è rappresentato da Ava Gardner: per tre volte la pulsione la trascina irresistibilmente a unirsi all’uomo morto o impotente (Pandora, La contessa scalza e Il sole sorgerà ancora).

Tutta la carriera dell’attrice è segnata da questa mortale seduzione del cinema. E non a caso in L’uomo dai sette capestri il suo ruolo è quello della mitica celebrità, che si crede morta, e che alla fine del film, come in un sogno, appare per un attimo, e che squarcia lo schermo con il fascino del passato. Fu il suo amico John Huston (che l’aveva diretta nella Bibbia e nella Notte dell’iguana), nel ’72, a sbalzarla dal bassorilievo nel quale, non senza ironia, s’era adagiata e trasformarla, per gioco, in statua vera e propria, ma «da arredamento saloon», divinità per un solo adoratore, il tremendo giudice Roy Bean.
Ava Gardner si era presa, fino ad allora, sempre troppo sul serio, da quando nel ’46 aveva più o meno esordito come perversa e vorace Kitty Collins in I gangsters di Robert Siodmak (con Lancaster), ma con fossetta indifesa sul mento, fino a quando, in Urss, diretta da George Cukor, aveva indossato i panni addirittura della «Lussuria», nel Giardino della felicità (’75, da Meaterlinck).

In mezzo, amori spagnoli, tauromachici, il flirt con Walter Chiari, una sfilza di catastrofici finali «all old stars», e la bellezza bianca, bruna, distante, radiante e altera che Hollywood aveva preferito mandare in giro in tutto il mondo, meglio se incastonata in ambienti esotici afro-latini, tra iguane e Kilimangiari, il più lontana possibile dalla asessuata civiltà puritana e ariana che proprio non si addice a Hollywood.

“il manifesto”, 26 gennaio 1990

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