21.6.17

Cristianesimo delle origini. La favolosa eresia di Mani (Luigi Chirizzi, Romano Madera)

Dal 2 al 7 settembre 1984 si svolse nella sede universitaria di Rende (Cosenza), con il titolo Il manicheismo: un incrocio innovatore tra giudaismo, cristianesimo e gnosi, un convegno internazionale sul «Codex Manicaicus Coloniensis» (Cmc), presenti i più importanti filologi e storici che lavoravano in Europa e negli Usa sui primi secoli del cristianesimo e sulle sue origini. Il codice era stato pubblicato a cura dei professori Henrichs (Harvard) e Koenen (Michigan), entrambi presenti al convegno, nel 1970, costituiva (e continua costituire) un testo fondamentale per gli studi sul manicheismo. Quello che segue è un servizio dal convegno per “il manifesto” da due giovani studiosi che vi parteciparono. (S.L.L.)

In una sala dell’antico convento di Rende parliamo con il professore Luigi Cirillo, organizzatore del convegno e autore di studi (Evangìl de Barnabé, Parigi, 1977; Elchasai e gli Elchasaiti, Cosenza) il cui fascino è grande tanto quanto è minuscolo il numero dei lettori al di là del cerchio stretto degli specialisti. Cirillo è un uomo strano e singolare, la prima impressione è quella faticosa del filologo educato all’antica che non lascia varchi a suggestioni che possano animare l’interesse dell’inesperto e del moderno. E però l’altalena sonora delle parole e il guizzo dello sguardo lasciano intuire un’attitudine paradossale ma sempre necessaria allo storico: il baratro temporale che ci divide da Mani e dal cristianesimo delle origini sembra sfarinarsi e l’oggetto di studio sembra interloquire al presente con il suo indagatore.
Le dimensioni del Codice sono, a dispetto della sua importanza, estremamente ridotte (2 centimetri per 3). Il testo ritrovato in una tomba era infatti un medaglione portato al collo da uno degli addetti manichei. Le condizioni del codice, cattive ma non disastrose, hanno permesso la quasi intera ricostruzione del testo, ma in questo campo ormai, si sa la paleografia e la filologia fanno miracoli. La data e il luogo del ritrovamento rimangono tuttora imprecisati: per il luogo si pensa alla zona del Saium in Egitto. Il testo ritrovato è in greco, databile intorno alla fine del IV - inizio del V secolo dopo Cristo, ma è la traduzione di una precedente stesura in aramaico siriaco del IV secolo.
Ma di che cosa parla questo preziosissimo codice? Non è, innanzitutto uno scritto dottrinario, né tantomeno un elenco di precetti manichei. Il codice narra della formazione del giovane Mani e più precisamente della formazione del corpo di Mani, come recita il titolo. È questo già il primo grande problema: se cioè si debba intendere il corpo nel suo senso letterale, la formazione della persona di Mani e della sua dottrina; o se invece bisogna intendere «corpo» sulla scorta della tradizione paolina, e quindi in riferimento al corpo ecclesiale e dunque alla crescita della comunità manichea.
Il problema è ancora ben lontano da soluzioni definitive, tanto più che all’interno del testo le due accezioni compaiono entrambe in contesti diversi. Una prima parte del codice racconta l’infanzia e la fanciullezza di Mani, il suo progressivo distaccarsi dai Battisti. Il piccolo Mani si ribella e si rifiuta di lavorare nel giardino dal quale la comunità giudeo-cristiana fondata, dice il codice, da Elchasai, prende il suo sostentamento vegetariano. Piante ed erbe conservano un’anima vivente, una porzione di luce del Dio vivente: recidendo il vivente, il Cristo piange.
È questa concezione che porterà il manicheismo a praticare l’astensione dal lavoro degli eletti, ai quali il cibo doveva essere offerto come «pio dono» dai semplici fedeli, dagli uditori, il cui «peccato» lavorativo veniva così in un certo senso superato proprio per l’offerta del frutto del lavoro al sostentamento degli eletti. Dietro al racconto, e alla ricca aneddotica di rivelazioni e manifestazioni sovrannaturali di cui il Cmc è pieno, il problema che si agita è se la frattura e la scissione tra i manichei e gli elchaseiti sia avvenuta in seguito alla teorizzazione di una nuova impostazione religiosa, o se questa non sia stata la conseguenza di un precedente attrito manicheo contro la rigida precettistica giudeo-cristiana degli elchaseiti.
La sezione seguente del codice è certo la più interessante. A 24 anni Mani riceve la rivelazione del Syzygos, del suo gemello di luce: l’immagine di sé come riflesso in uno specchio infinito è di splendida bellezza (Cmc 17.1). Il gemello mostra a Mani l’identità della sua anima nello specchio di luce come «l’anima di tutti i mondi», di altezza sconfinata e di profondità non figurabile.
Così: «io fui certo che egli mi apparteneva come me stesso / e allora lo riconobbi / e seppi che egli è colui che io sono / da cui fui separato /E ho portato testimonianza / che io sono quello stesso / che è l’incrollabile».
In poche righe del codice la vertigine mistica di Mani afferra a un tratto l’identità dell’anima con l’anima di tutti i mondi e la fusione dell’io con il grande sé. Il Dio Nous è da sempre lo stesso e io sono lui, solo l’ignoranza mi faceva velo portandomi a credere di esserne separato.
Questa affermazione che attesta la consustanzialità del Dio e del risveglio è certo uno dei temi centrali che differenziano Mani e la sua via di conoscenza, via gnostica, dal cristianesimo della grande Chiesa per la quale la grazia che unisce il Dio e il testimone è un accidente estraneo alla substanzia dell’uomo. Dio è in te e tu sei in Dio, Dio è perduto nella materia il cui riscatto sta solo nella gnosi rilevata dal gemello celeste, dal grande specchio di luce. Si può intuire qui lo straordinario impasto manicheo — tributario, certo dell’ambiente iranico e delle influenze zoroastria-ne, ma rielaboratore di motivi giudaici e cristiani fino a giungere, nella sua interpretazione della gnosi, al nucleo dell’esperienza liberatrice e redentrice delle vie induiste e buddiste. Illuminazione che rivela che «io sono quello», il Samhadi — impressiona, per altro, nel codice l’annuncio che Mani dà della sua missione come rinnovamento del cristianesimo: abbiamo un brano del Vangelo di Mani che inizia con «io Mani, apostolo di Gesù Cristo...», il calco, la sigla di Paolo ripetuta. Mani appare qui con Paolo, l’altro apostolo e «testimone dello spirito», al di là degli apostoli, «testimoni degli occhi», che hanno seguito Gesù durante la sua vita.
Mani rielabora la tradizione del «verus propheta» — una linea che va da Enoch allo stesso Mani passando per Gesù Cristo — una sorta di incarnazione progressiva di figure dello Spirito che portano a successive perfezioni di rivelazione la verità eterna. Mani è la rivelazione ultima, la presenza, la parousia dello spirito, il consolatore promesso da Gesù come colui che «insegnerà la verità tutta intera» alla fine dei tempi. Suggestivo è il parallelo con Paolo: Mani e Paolo sembrano entrambi lottare per liberare l’annuncio cristiano dalla dipendenza della legge: non è l’osservanza dei precetti che libera e che salva. Ciò che redime è la grazia di Dio o la gnosi dello spirito.
Appare però subito una decisiva differenza, la cristologia di Paolo è incentrata sul valore salvifico della morte e della resurrezione di Cristo; la cristologia di Mani è compresa nella linea della rivelazione spirituale della «catena aurea» dei «veri profeti»: ciò che redime è solo la «gnosi», l’esperienza della illuminazione.
Anche se superfluo, è d’obbligo ripetere come ci si trovi qui a confrontarsi con un groviglio di problemi storici, ma anche teologici e morali, che hanno segnato in modo deciso il nostro modo di pensare e di sentire — i riferimenti d’obbligo, oltre alla vicenda del cristianesimo dei primi secoli, la cui immagine sempre più si allontana da ogni possibilità di semplificazione e di riduzione alle tradizioni della chiesa giunte fino a noi, sono quelli di un reticolo di spaventevole complessità che lega il debito iranico, il giudaismo, il cristianesimo e le vie gnostiche alle eresie medievali catare, al mondo letterario cortese — e ai sommovimenti religiosi e sociali che percorrono l’Europa fino alla riforma e dentro la riforma.
Dopo di che lo spirito santo tradotto in filosofia e politica si è premurato di raggiungerci con il carico immutato dei suoi più inquietanti quesiti. L’attualizzazione forzosa è sempre poco linda e accademica — ma è anche vero che assai di rado l’intelligenza profusa dagli accademici si rende conto di cosa sta rigirando fra le mani. Difficilmente si potrebbe negare al profeta di Babilonia un ruolo importante fra gli interlocutori del tempo presente: l’insicurezza circa la «giustificazione del male» è tornata a appartenerci per intero, tanto quanto il richiamo della conoscenza come esperienza ed esperimento di vita...

"il manifesto", 13 settembre 1984

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