21.6.17

Caste indiane. Un libro, un problema (Alfonso M. Di Nola)

Brahmani a tavola
Il libro di Dumont sulle caste indiane, pubblicato in Francia nel 1966, poi in edizione revisionata e arricchita nel 1979, è divenuto ormai un classico delle analisi francesi vagamente oscillanti fra la sociologia, l’antropologia e la storia. Diciamo subito che è un’opera di notevole spessore dottrinario, che avanza ipotesi interpretative nuove, e che tuttavia è principalmente destinato a lettori specialistici che presumibilmente già conoscano tutta la storia del sistema castale e siano disposti a rileggerla sulla base delle teorie di Dumont: teorie nelle quali si fondono istanze fondamentali della vecchia scuola sociologica francese (la memoria di Hertz e di Mauss è apertamente dichiarata), suggerimenti dell’antropologia sociale inglese e qualche influenza dello strutturalismo lévistraussiano in una sintesi che dà vigore a particolari prospettive interpretative e che, tuttavia, pesa talvolta negativamente sulla chiarezza del quadro ricostruito.

Nuove ipotesi tra vecchie dispute
In questo quadro, va subito detto, la grande assente è una limpida dimensione storica che viene respinta in secondo piano e sacrificata ai comandi del sociologismo. Del tutto inutile per il lettore italiano (ma credo che tale sia anche per il lettore francese) la lunga e noiosa introduzione nella quale Dumont puntigliosamente anatomizza gli interventi dei critici sulla prima edizione dell’opera, e costruisce una sorta di lamentosa diatriba, di gusto seicentesco, circa le opinioni che hanno accompagnato l’edizione del suo libro.
Si ha l’impressione, inseguendo Dumont in una lettura non agevole, né suggestiva, che il vigore dell’opera sia ben al di là di questa giostra polemica di diverse opinioni. Sostanzialmente Dumont sembra respingere le più antiche e diffuse teorie che tentavano di spiegare, già nel secolo scorso, la formazione delle caste in India: l’ipotesi secondo la quale nelle caste si consoliderebbero raggruppamenti parentali di origine indoeuropea (forme, cioè, di strutture chiuse, fra di loro separate e spesso opposte, simile al concetto germanico di Sippe e a quello latino di Gens); e l’altra ipotesi che riconduce l’origine delle formazioni castali al dominio che i gruppi indoeuropei esercitarono sugli autoctoni dell’India prima delle ondate di invasione (la casta segnerebbe, nelle sue molteplici variazioni, il limite fra conquistati e conquistatori. Si insinua fra queste consolidate ipotesi, genetiche, una terza proposta mediante, che farebbe risalire la genesi del sistema castale al peso del rapporto fra puro e impuro come stimolo ideologico-religioso della diversità e dei divieti di contatto (prospettiva sulla quale pesa notevolmente, in Dumont, la teoria su puro/impuro della signora Douglas, oggi in crisi).
Dalla confluenza di queste e di altre suggestioni teoriche, nasce l’estrema difficoltà della stessa definizione terminologica e concettuale della nozione di casta, quando, uscendo dalla concretezza dei dati storici, si voglia erigere sopra i dati il castello della speculazione teorica. Dumont si diletta di codeste escursioni nell’immaginario della teorizzazione sociologica o forse sociologistica, con conseguente calo della puntualizzazione del concreto storico. E così, anche per diretta ispirazione weberiana, il punto focale dell’individuazione del concetto di casta si sposta altrove; la casta sembrerebbe una modalità della gerarchia (di qui il titolo dell’opera), ma subito va detto che questa struttura gerarchica, fondata su modelli religiosi e mitici, non si associa al potere, la quale compete, nell’antica società indiana, al re.
Il brahmano rappresenta il culmine dell’incorporazione ereditaria e fisica di un livello supremo gerarchico che, tuttavia, non esercita un potere. Nello sviluppo imponente della rete castale, nelle sue infinite frammentazioni e varianti da area ad area, da villaggio a villaggio, viene a costituirsi una struttura per noi difficilmente comprensibile, nella quale i destini e le attività individuali vengono ad essere predeterminati per nascita e assegnazione genetica, in un’inesorabile negatività del quadro storico che Dumont, intenzionalmente, non intende percepire. Gli interessa, invece - ed è forse uno dei motivi portanti dell'intera opera - individuare il presuntivo significato del sistema castale per la società moderna e per il mondo occidentale. La casta, in una semplificazione ultima di un problema intricato, gli sembra una categoria storica di società olistiche: quelle nelle quali l’individuo, cancellato, è immesso nella routine della totalità, laddove il superamento della casta è l’affermazione dell’individualismo (anche qui c’è tutto il peso delle suggestioni weberiane). Così, in questo tipo di organizzazione, la totalità inglobante e dominante (il leviathan hobbesiano) inserisce l’individuo in un sistema nel quale la casta «è la nicchia di una vasta colombaia».
Dumont, al di fuori della sua analisi delle caste, ha dovuto sciogliere il nodo problematico emergente fra l’organizzazione castale e l’antica tesi postvedica dei quattro stati o condizioni dell’uomo, che appaiono già nel Codice di Manu. Le caste sono pressoché innumerabili, ma il Codice di Manu, fissando in uno schema mitologico la vetusta violenza del rapporto fra classi, proclamava che i diversi stati sociali umani dipendono da una dignità ordinaria correlata alla parte del corpo mitico dal quale gli uomini erano originati nella metastoria. Sono, questi, i varna, gli «stati» simili a quelli che conobbe la teoria feudale della società e sui quali si è formata la speculazione irrazionalistica di Dumézil: i preti o Brahmani dominano per diritto divino ed ereditario e a loro sono assoggettati, in un progressivo decadimento gerarchico, i guerrieri (kshatriya), i mercanti (vayshya), fino all’infima stratificazione dei servi (shudra), al di là della quale pullula la verminosa massa degli intoccabili (paria).

Un'opera distante da ogni tragedia
La difficile relazione fra le «categorie» o varna e le caste o jati viene risolta da Dumont con alcune osservazioni di fondo: che ambedue i sistemi, per quanto diversi, pongono al culmine della gerarchia i preti (brahmani); che quello dei varna o categorie è un sistema semplice e universale, mentre quello delle caste è un sistema composito; e che, infine, sussiste una costante interrelazione fra i due modelli.
Per giungere ad una conclusione. dovremmo dire che la pubblicazione dell’opera di Dumont da parte di Adelphi è impresa veramente coraggiosa e meritevole poiché fornisce agli specialisti un ulteriore apporto teorico, e che, tuttavia, si tratta di lavoro di ardua lettura, tutto attraversato da preoccupazioni sociologiche, distante dalla considerazione delle umane tragedie che la struttura castale tuttora alimenta nel continente subindiano.

Recensione di Homo hierarchicus. Il sistema delle caste e le sue implicazioni di Louis Dumont trad. di Delia Frigessi Adelphi, 1991

“il manifesto la talpa libri”, 8 febbraio 1991

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