4.6.17

Il medio della Giamaica (Alessandro Robecchi)

Giamaica, Negrili
Perché prendo una multa sulla strada per Port Antonio è complicato da spiegare, ma ci provo. Di certo so perché sto su quella strada lì: perché è bellissimo quando i bananeti diventano piantagioni di caffè e perché all'hotel Bonneview Plantation Inn c'è la più bella vista sul più bel porto del caribe ecc. ecc. E anche perché mi pagano, e questa mi pare la cosa più straordinaria. Andiamo con ordine, però. E poi a pagare la multa.
Accade questo: vado a visitare alcuni dei posti più esclusivi del mondo per conto di un'ottima rivista di settore (sogni) che si occupa di viaggi. Vado dove normalmente non potrei entrare nemmeno col mutuo, tipo l'Half Moon Golf, Tennis & Beach Club di Montego Bay, che una volta che dici il nome hai già speso 100 dollari. Mi danno una villa di due piani, con giardino e piscina (privati), baia (privata), tre bagni coi rubinetti probabilmente d'oro, sala tivù, soggiorno, terrazza, una cucina grande come casa mia, un frigo con lo champagne ghiacciato preciso, l'impianto stereo, tivù satellitare e la suite, con un letto a baldacchino rivestito in broccato rosso grande come un campo da tennis. Sul quale mi accascio pensando a tre cose: a) la Giamaica è uno dei paesi più poveri del mondo e una notte qui costa 1.740 dollari, 8-10 mesi di lavoro di un giamaicano medio. b) non c'è alcun motivo che mi affanni a procurarmi un telo da bagno visto che ogni mio desiderio è decodificato telepaticamente e un domestico sorridente me ne porta una dozzina. c) mi trovo tra due fuochi. Come medissimo ceto medio italiano sono povero e buzzurro per il covo di miliardari in cui mi trovo e ricchissimo per il restante territorio della Giamaica.
Sono un ibrido assurdo. Più che un viaggio è una resa dei conti tra troppo poveri e troppo ricchi, con un cretino nel mezzo che - tutto si fa chiarissimo - sono io.
All'Half Moon il tono generale è inglese con punte di molto inglese e alcune sfumature di troppo inglese. Faccio snorkelin' poco dopo l'alba nuotando in mezzo a pesci colorati, perché l'albergo ha il suo pezzo di barriera corallina (privato) e io ci sguazzo attraverso con una mia (privata) barca appoggio piena di marinai (privati) sorridentissimi. Poi decido di andare fuori da lì, in Giamaica. Quella vera intendo.
Mi dico: sarà facile: c'è una strada che gira intorno all'isola, basta prendere la prima che vira verso i monti e nessuno si perderà. Due ore dopo vago come un cieco nella minuscola contea di Labirynth (giuro!), con la Toyota a noleggio in riserva sparata e tutti che mi guardano come fossi un marziano. Un poliziotto mi consiglia di guidare in discesa, in folle, a motore spento, finché vedo la costa. Costa uguale alberghi, distributori di benzina, cretini come, turisti. Nel frattempo do passaggi a metà della popolazione studentesca dell'isola (fino a 9 nella macchina), in condizioni di sicurezza e igiene con cui non farei nemmeno pagato la Milano-Bergamo. Ricordo Renate, 12 anni, che mi dice lei sa dov'è l'Italia, vicino alla Spagna, “molto money". Un altro dice “Taliano, figa, coccheina!". Suo fratello ha 17 anni e vive a Mo Bay, la sa lunga.
Dunque è una contraddizione che non risolvo: non sono pronto per iscrivermi ai miliardari e mi viene difficile essere accettato dagli indigeni: la mia macchina da 100 us dollars al giorno e la mia fotocamera mi rendono automaticamente un conto in banca che cammina. È molto semplice: devo tornare nel mio limbo cetomedio, sulla Statale Uno, costa nord, non posso fare altro.
Per questo decido di andare a Port Antonio. Perché è una via di mezzo nella via di mezzo: rimani turista - taliano, figa, coccheina! - ma non proprio nell'edonismo spiaggiato di Negril, e nemmeno nei circoli esclusivi Old England di MoBay o Ocho Rios. Port Antonio ha il suo Blue Hole, la pesca d'altura, le Blue Mountains alle spalle, ville da sogno for rent, ma non ha ancora fatto il salto. Non è più porto bananiero e non è ancora porto iperturistico: decido di essere medio anche in questo. E prendo ‘sta multa. Alt, stop, documents. Andavo a 36 (miglia) all'ora in un posto dove si può andare a 30. Scendo dalla macchina e allargo le braccia il poliziotto mi spiega ridendo: ho appena fermato un giamaicano, se non fermavo anche il turista bianco, sai che casino. Mi dà un foglietto rosa con scritto che devo pagare la multa. Dove? A St. Anne, all'ufficio postale, dove si pagano le multe. A più di cento miglia da lì. Sghignazza, come a dire... solo un pazzo, se turista straniero, pagherebbe questa multa. Sembra strano, ma è per questo che decido di andare a pagarla.
Per andare a St. Ann devi passare da Ocho Rios, da Oracabessa e fermarti appena prima di dove arrivò Colombo (Discovery Bay) e di dove scappò a gambe levate (Runaway Bay, dite che non sanno scegliere i nomi!). L'ufficio postale ha un'aria condizionata polare, due schermi tivù con una partita di cricket in diretta e un impiegato che vuole sapere tutto su mia madre. La Giamaica è una società bizzarramente matriarcale in cui per pagare una multa devi dire nome, cognome da nubile e data di nascita di tua madre, anche se abiti dall'altra parte del mondo. Poi spariscono con il tuo passaporto. A suo modo è inquietante, ma tutti guardano il cricket in tivù. Dopo due ore mi chiedono di pagare 20 dollari giamaicani di multa per eccesso di velocità e guida pericolosa (dettaglio aggiunto lì per lì, in modo decisamente arbitrario), cioè il prezzo di una Red Stripe, la (buonissima) birra locale. Per inciso, si chiama così perché ha una striscia rossa che ricorda l'uniforme dei poliziotti. Pagata la multa, gli indigeni presenti si complimentano e si dicono ammirati: in anni e anni sono il primo turista che hanno visto pagare una multa, il che mi rende oltremodo orgoglioso e, ai loro occhi, oltremodo fesso. Con venti jamaican dollars in meno e un papiro interminabile in mano, che certifica il mio essere ligio alle leggi, non mi resta che camminare fino alla biblioteca pubblica di St. Ann, dove sta una bella statua in bronzo di Marcus Garvey. Filosofo, professore e agitatore politico, aveva un sogno (è una mania!): riportare i neri in Africa. Fu lui che disse: “Guardate al primo re incoronato in Africa e lui sarà il vostro Dio". Poco dopo Heilé Selassié diventava Ras Tafari, Negus Neghesti, re dei re, e l'Etiopia partoriva il “dio in terra". Per questo nell'iconografia reggae c'è sempre il Negus (accanto a Marley), per questo ci sono copertine di dischi di mento, di ska, persino di reggae, in cui il Leone di Zion schiaccia un piccolo, mascelluto, ridicolo Mussolini.
Non ho fiori da lasciare. Lascio lì, sotto la statua di Garvey, come un ex-voto, la ricevuta azzurrina della multa e me ne vado canticchiando Redemption song nel mio malaugurato inglese. Taliano, figa, ganjia, coccheina!. Riguadagno il ceck-in del Donald Sangster International Airport e torno a casa. Triste come i tristi tropici, non mi sono nemmeno fatto una canna. Chissà perché, poi.


“il manifesto”, supplemento viaggi, luglio 2004

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