28.3.19

Balli nella storia. L’espressione del corpo nel mondo contadino e altrove (Massimo Firpo)



La danza ha sempre accompagnato la storia umana come un ineludibile linguaggio del corpo, come uno strumento di espressione – quasi sempre collettivo – fondato su una gestualità variamente codificata e in grado di manifestare sentimenti, tramandare miti, tenere lontani nemici, esorcizzare pericoli, ritualizzare eventi e consuetudini sociali, definire codici di comportamento e via dicendo. E in quanto fenomeno sociale e culturale largamente presente nel tempo e nello spazio se ne può fare la storia, anche se con la consapevolezza di muoversi su un campo minato, dove le fonti sono poche e non di rado ambigue, di difficile lettura, cariche di insidie.
Fonti iconografiche, anzitutto, scene di balli campestri e feste di paese (si pensi per esempio alle incisioni di Albrecht Dürer e di Sebald Beham o ai dipinti dei Brueghel o di Rubens) in cui è tuttavia difficile capire il significato di quelle tumultuose feste contadine. Su di esse, infatti, sembra posarsi uno sguardo talora paternalistico, ma alla fin fine condiscendente e simpatetico nei confronti di un mondo semplice, naturale, incorrotto, e talaltra sprezzante e ostile invece, nel solco della satira del villano, dei suoi tratti grotteschi e caricaturali che ne denunciano in termini moraleggianti la rustica rozzezza, gli eccessi nel mangiare, nel bere e nel sesso. Ma «a ballare danze campestri non sono sempre pastori o contadini veri – scrive Arcangeli (L’altro che danza. Il villano, il selvaggio, la strega nell’immaginario della prima età moderna, Unicopli, Milano, 2018) –; la complessità dei rapporti città-campagna in un’epoca di trasformazioni economiche e crisi demografiche, e la serie delle mode culturali con variazioni sul motivo arcadico, condizionano la dinamica di queste vicende».
Da maneggiare con analoga cura sono anche le fonti letterarie, non solo e non tanto i manuali di ballo della civiltà delle buone maniere, ma soprattutto le descrizioni di danze delle popolazioni amerindie o dei neri africani fatte da viaggiatori, esploratori, missionari. Un’immensa letteratura etnografica e antropologica, per così dire, non di rado fantastica e inattendibile, talora di seconda mano, condizionata dal suo stesso voler presentare mondi lontani all’insegna del meraviglioso, del mostruoso, del primitivo, rinchiudendo nel contempo il nuovo, l’inatteso, il diverso nei canoni del noto, imponendo ad essi il proprio sistema di valori e ingabbiandoli nei codici etici e religiosi dell’Europa classica e cristiana, a partire dalla sentenza di Cicerone secondo cui solo i matti ballano e dalla condanna della danza da parte dei Padri della Chiesa per le sue potenziali valenze trasgressive, erotiche e lascive, le sue contaminazioni pagane, le sue implicazioni demoniache o idolatriche attestate anche dalla tradizione ebraica (l’adorazione del vitello d’oro).
Lungi dall’essere descrizioni obiettive, in realtà, tali immagini altro non sono che costruzioni culturali dell’osservatore, che impongono allo storico il non facile compito di decostruirle. Ed è questo lo scopo che si prefiggono le raffinate indagini di cultural history confluite in questo libro, volto a chiarire come attraverso la danza, in particolare tra Cinque e Seicento, si sia guardato all’altro e al diverso, ai mondi lontani disvelati dalla grande espansione europea, o ai mondi vicini e temuti dei contadini, dei marginali, dei diseredati, dei folli, o ancora al mondo demoniaco del sabba stregonesco, contribuendo così a crearne i connotati artificiali, a dar vita a una realtà immaginaria, a trasformare un’ermeneutica in un fatto. In questa prospettiva, limitandosi a tratteggiare le ritualità coreutiche delle corti d’antico regime o della civiltà borghese, la percezione del sé, dello spazio e della disciplina del corpo che sembrano affacciarsi nel Rinascimento, il libro indaga sul significato della danza – o meglio, sui significati ad essa attribuiti dalla cultura dominante – nel mondo contadino, tra i selvaggi portati alla luce dalle grandi scoperte geografiche, dalle esplorazioni, dall’impegno missionario, e infine in quelle temibili presenze stregonesche che trovavano i loro momenti culminanti nei balli sfrenati e diabolici del sabba, che tra Cinque e Seicento Stati e Chiese cercarono di estirpare con violenza.
Del tutto evidente, infatti, è rapporto tra danza e religione, a volte sotto la guida di stregoni e sciamani, con accompagnamento di canti, musica, rullare di tamburi, e con effetti non di rado dionisiaci o visionari (si pensi ai tarantati pugliesi per non andare troppo lontano). Danze talora destinate a protrarsi per giorni e notti intere, a volte sotto l’effetto di droghe, a testimonianza del grande piacere che ne traevano i partecipanti, e quasi sempre motivo di scandalo per gli osservatori europei, capaci di scorgervi solo superstizione, paganesimo, idolatria. Ai loro occhi il ballo era solo uno dei modi in cui quegli esseri primitivi dalla pelle scura sprecavano il loro tempo «in prendere da mattina a sera tabacco in fumo; [...] in darsi alle crapole, a’ bagordi, all’ubbriachezze, alle lascivie et alle dishonestà; e finalmente in gire alla guerra et esercitar la militia, per rubare, saccheggiare, distruggere, ammazzare e satiarsi di carne humana». Un giudizio feroce, ben diverso da quello espresso nel Trecento dal grande viaggiatore arabo Ibn Khaldūn, secondo il quale «i negri sono generalmente caratterizzati dalla leggerezza di carattere, dalla incostanza e dalla emotività. Essi hanno desiderio di danzare appena sentono una musica. Potrebbero sembrare perciò poco intelligenti, ma invece secondo gli studiosi la gioia e il sentirsi felici dipendono dalla dilatazione e dalla diffusione in tutto il corpo degli spiriti animali».
Al ballo delle corti rinascimentali, all’insegna «di eleganza, sobrietà e decoro», caratteri tipici del gentiluomo (nel 1581 Fabrizio Caroso pubblica Il ballarino), si contrappone dunque quello ben diverso dei villici e degli indigeni, all’insegna di «gioia, libertà e sregolatezza», la cui trasgressività esercita tuttavia un’evidente attrazione sulle élites. Una trasgressività che giunge al culmine, fino a caratterizzarsi come consapevole apostasia, nel sabba demoniaco (peraltro non privo di analogie con le forme della festa popolare) in cui la dominante presenza femminile accresce la dimensione dell’alterità. Sarà in una dimensione del tutto rovesciata, invece, che in futuro – e compiutamente nell’Ottocento – la danza si connoterà sempre di più in senso femminile, come arte di creature angeliche capace di sublimare seduzione e corteggiamento, mentre diventa per converso segno di effemminatezza per i maschi. Percorsi complessi, qui appena accennati, che questo libro aiuta a comprendere.

“Il Sole 24 Ore” 15 luglio 2018

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