La danza ha sempre
accompagnato la storia umana come un ineludibile linguaggio del
corpo, come uno strumento di espressione – quasi sempre collettivo
– fondato su una gestualità variamente codificata e in grado di
manifestare sentimenti, tramandare miti, tenere lontani nemici,
esorcizzare pericoli, ritualizzare eventi e consuetudini sociali,
definire codici di comportamento e via dicendo. E in quanto fenomeno
sociale e culturale largamente presente nel tempo e nello spazio se
ne può fare la storia, anche se con la consapevolezza di muoversi su
un campo minato, dove le fonti sono poche e non di rado ambigue, di
difficile lettura, cariche di insidie.
Fonti iconografiche,
anzitutto, scene di balli campestri e feste di paese (si pensi per
esempio alle incisioni di Albrecht Dürer e di Sebald Beham o ai
dipinti dei Brueghel o di Rubens) in cui è tuttavia difficile capire
il significato di quelle tumultuose feste contadine. Su di esse,
infatti, sembra posarsi uno sguardo talora paternalistico, ma alla
fin fine condiscendente e simpatetico nei confronti di un mondo
semplice, naturale, incorrotto, e talaltra sprezzante e ostile
invece, nel solco della satira del villano, dei suoi tratti
grotteschi e caricaturali che ne denunciano in termini moraleggianti
la rustica rozzezza, gli eccessi nel mangiare, nel bere e nel sesso.
Ma «a ballare danze campestri non sono sempre pastori o contadini
veri – scrive Arcangeli (L’altro che danza. Il villano, il
selvaggio, la strega nell’immaginario della prima età moderna,
Unicopli, Milano, 2018) –; la complessità dei rapporti
città-campagna in un’epoca di trasformazioni economiche e crisi
demografiche, e la serie delle mode culturali con variazioni sul
motivo arcadico, condizionano la dinamica di queste vicende».
Da maneggiare con analoga
cura sono anche le fonti letterarie, non solo e non tanto i manuali
di ballo della civiltà delle buone maniere, ma soprattutto le
descrizioni di danze delle popolazioni amerindie o dei neri africani
fatte da viaggiatori, esploratori, missionari. Un’immensa
letteratura etnografica e antropologica, per così dire, non di rado
fantastica e inattendibile, talora di seconda mano, condizionata dal
suo stesso voler presentare mondi lontani all’insegna del
meraviglioso, del mostruoso, del primitivo, rinchiudendo nel contempo
il nuovo, l’inatteso, il diverso nei canoni del noto, imponendo ad
essi il proprio sistema di valori e ingabbiandoli nei codici etici e
religiosi dell’Europa classica e cristiana, a partire dalla
sentenza di Cicerone secondo cui solo i matti ballano e dalla
condanna della danza da parte dei Padri della Chiesa per le sue
potenziali valenze trasgressive, erotiche e lascive, le sue
contaminazioni pagane, le sue implicazioni demoniache o idolatriche
attestate anche dalla tradizione ebraica (l’adorazione del vitello
d’oro).
Lungi dall’essere
descrizioni obiettive, in realtà, tali immagini altro non sono che
costruzioni culturali dell’osservatore, che impongono allo storico
il non facile compito di decostruirle. Ed è questo lo scopo che si
prefiggono le raffinate indagini di cultural history confluite
in questo libro, volto a chiarire come attraverso la danza, in
particolare tra Cinque e Seicento, si sia guardato all’altro e al
diverso, ai mondi lontani disvelati dalla grande espansione europea,
o ai mondi vicini e temuti dei contadini, dei marginali, dei
diseredati, dei folli, o ancora al mondo demoniaco del sabba
stregonesco, contribuendo così a crearne i connotati artificiali, a
dar vita a una realtà immaginaria, a trasformare un’ermeneutica in
un fatto. In questa prospettiva, limitandosi a tratteggiare le
ritualità coreutiche delle corti d’antico regime o della civiltà
borghese, la percezione del sé, dello spazio e della disciplina del
corpo che sembrano affacciarsi nel Rinascimento, il libro indaga sul
significato della danza – o meglio, sui significati ad essa
attribuiti dalla cultura dominante – nel mondo contadino, tra i
selvaggi portati alla luce dalle grandi scoperte geografiche, dalle
esplorazioni, dall’impegno missionario, e infine in quelle temibili
presenze stregonesche che trovavano i loro momenti culminanti nei
balli sfrenati e diabolici del sabba, che tra Cinque e Seicento Stati
e Chiese cercarono di estirpare con violenza.
Del tutto evidente,
infatti, è rapporto tra danza e religione, a volte sotto la guida di
stregoni e sciamani, con accompagnamento di canti, musica, rullare di
tamburi, e con effetti non di rado dionisiaci o visionari (si pensi
ai tarantati pugliesi per non andare troppo lontano). Danze talora
destinate a protrarsi per giorni e notti intere, a volte sotto
l’effetto di droghe, a testimonianza del grande piacere che ne
traevano i partecipanti, e quasi sempre motivo di scandalo per gli
osservatori europei, capaci di scorgervi solo superstizione,
paganesimo, idolatria. Ai loro occhi il ballo era solo uno dei modi
in cui quegli esseri primitivi dalla pelle scura sprecavano il loro
tempo «in prendere da mattina a sera tabacco in fumo; [...] in darsi
alle crapole, a’ bagordi, all’ubbriachezze, alle lascivie et alle
dishonestà; e finalmente in gire alla guerra et esercitar la
militia, per rubare, saccheggiare, distruggere, ammazzare e satiarsi
di carne humana». Un giudizio feroce, ben diverso da quello espresso
nel Trecento dal grande viaggiatore arabo Ibn Khaldūn, secondo il
quale «i negri sono generalmente caratterizzati dalla leggerezza di
carattere, dalla incostanza e dalla emotività. Essi hanno desiderio
di danzare appena sentono una musica. Potrebbero sembrare perciò
poco intelligenti, ma invece secondo gli studiosi la gioia e il
sentirsi felici dipendono dalla dilatazione e dalla diffusione in
tutto il corpo degli spiriti animali».
Al ballo delle corti
rinascimentali, all’insegna «di eleganza, sobrietà e decoro»,
caratteri tipici del gentiluomo (nel 1581 Fabrizio Caroso pubblica Il
ballarino), si contrappone dunque quello ben diverso dei villici
e degli indigeni, all’insegna di «gioia, libertà e sregolatezza»,
la cui trasgressività esercita tuttavia un’evidente attrazione
sulle élites. Una trasgressività che giunge al culmine, fino
a caratterizzarsi come consapevole apostasia, nel sabba demoniaco
(peraltro non privo di analogie con le forme della festa popolare) in
cui la dominante presenza femminile accresce la dimensione
dell’alterità. Sarà in una dimensione del tutto rovesciata,
invece, che in futuro – e compiutamente nell’Ottocento – la
danza si connoterà sempre di più in senso femminile, come arte di
creature angeliche capace di sublimare seduzione e corteggiamento,
mentre diventa per converso segno di effemminatezza per i maschi.
Percorsi complessi, qui appena accennati, che questo libro aiuta a
comprendere.
“Il Sole 24 Ore” 15
luglio 2018
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