Conobbi Giorgio
Manganelli nel 1957, a Roma, dove insegnava lingua inglese negli
istituti tecnici. Ricordo ancora il signore gentile ed esitante,
precocemente maturo, con una lieve tendenza alla pinguedine, che mi
guardava con l'occhio fisso e allarmato, come se pericoli lo
minacciassero da ogni parte. Sì, certo, dappertutto c'erano e ci
sono rischi: noie, fastidi, letterati, ministri, signore beneducate,
genitori, demoni; ma il vero rischio era lui stesso le omissioni, gli
errori, le incertezze, i delitti compiuti in sogno, i pensieri che
non osava pensare sino in fondo, l'assenza completa di difesa dal
mondo. Assomigliava a un animale: un animale uscito di casa a caccia
di cibo, insidiato da altri animali feroci e pericolosi, che si
nascondevano chissà dove.
Una volta, un nostro
amico comune disse che Manganelli non era antropomorfo; e lui si
divertì molto. Aveva sempre saputo di essere della razza di Gregor
Samsa. Aveva sempre saputo che uno scrittore, se vuole discendere
nell'immensa zona desolata, dove si annidano le ombre dell'inconscio
e dell'essere, deve diventare animale: un ratto, un cane, un
malinconico tapiro. In quegli anni, lavoravamo insieme per l'editore
Garzanti. Ci vedevamo spesso. Il mio deferente amico era molto colto.
Conosceva benissimo la letteratura inglese e italiana. Scriveva
qualche saggio critico. Ma il suo stile era incerto, lento e
affaticato: sembrava un professore più intelligente degli altri; ed
ero certo che non possedesse talento. Non sapevo quanto mi
sbagliassi.
Niente mi meravigliò più
di quello che accadde una sera del 1964. Stavo in ufficio, seduto per
caso dietro una scrivania, quando Manganelli venne molto lentamente
verso di me. Sembrava più che mai cauto, timoroso, diffidente di se
stesso: una copia più giovane dell'ingegner Gadda: sedette su una
sedia; e mi porse un libro, scusandosi e vergognandosi per un atto
così insensato: “Sì, l' ho proprio scritto io”. Era
l'Hilarotragoedia: un libro bellissimo. L'onesto professore
era diventato all'improvviso uno scrittore di genio.
Qualche anno dopo, mi
raccontò la sua storia. Sull'orlo della disperazione, senza speranza
di vivere né di morire, aveva conosciuto Ernst Bernhard, il quale
l'aveva aiutato ad attraversare le ombre dell'inconscio. Per qualche
anno, aveva vissuto con loro, discorrendo soltanto di loro e con
loro. Tutte le forme della sua mente erano state suscitate dal sonno
in cui giacevano abbandonate e oppresse: l'analisi aveva risvegliato,
in lui, lo scrittore nascosto; la letteratura l'aveva salvato dalla
disperazione. Non potrei dire quale fosse il suo male. Tutte le
parole tecniche sono improprie. Se penso alla sua anima, come posso
parlare di nevrosi, o di depressione, o di angoscia? Quando lo vedevo
in certi momenti allora il suo occhio sembrava terrorizzato da ciò
che scorgeva dentro di sé, avevo l'impressione che tutte le furie
del mondo non solo le sue, ma anche quelle dei passanti che
incontrava per strada, o degli amici, o dei nemici, o del diavolo o
di Dio avessero scelto il suo corpo come luogo per manifestarsi. In
qualche modo, attraverso eruzioni o infingimenti o tortuosità,
volevano venire alla luce. Tutto avveniva nel sottosuolo dove si
ascoltano i soffi, gli ansiti e i guaiti delle creature invisibili.
Laggiù non abitano le creature che noi conosciamo: fiere di vivere,
di pensare, di parlare, di possedere un io, una moglie e dei figli.
Ci sono soltanto gli spettri. Laggiù non c'è luce: ma soltanto la
notte: la tenebra; così intensa da fingere, a volte, di essere luce
e crepuscolo e persino letizia. Non vorrei dare l'impressione che
Manganelli fosse uno scrittore abbandonato all'inconscio. Sapeva
benissimo che, dal sottosuolo, provengono i maggiori pericoli per chi
scrive. Era troppo intelligente per perdere il proprio controllo.
Così, in parte senza volerlo, compì una doppia trasposizione. In
primo luogo, trasportò le figure dell'inconscio nella parte
intellettuale della mente; così che tutti i brividi, le
folgorazioni, le fosforescenze, i trasalimenti, le voci, i sussurri,
le metamorfosi dell'inconscio vennero rinchiusi nella sua mente bene
organizzata. Di rado, uno scrittore ha compreso con tale intensità
la natura assolutamente intellettuale di ciò che scrive: non c'è
nessun fuori; l'universo si è contratto nelle strette pareti del
cranio. In secondo luogo, come Poe, egli trattò l'inconscio con gli
strumenti della retorica tardoantica, rinascimentale e barocca.
Sorsero così, nel primo periodo della sua attività, grandi edifici
cimiteriali, ricoperti di festoni, di fiorami, di corazze, di
paludamenti, di trofei, dei quali Manganelli era insieme il signore,
il servo e il bibliotecario e, poi, edifici più svelti, eseguiti con
una splendida autorità. Se questa letteratura conosceva un rischio,
era insieme quello dell'informe e dell'eccesso trionfale di forma:
rischio nato dallo strano abbraccio tra inconscio e retorica.
Non era facile trovare un
luogo dove vedere Manganelli. Né casa sua, né casa mia, erano il
posto giusto per incontrarci. Aveva scelto lui il luogo: un
ristorante toscano presso Porta Pia; suppongo che abbia adottato un
ristorante diverso per ogni amico. Ci incontravamo molto spesso: nel
piano inferiore, in una specie di cantina, dove sedeva sempre con le
spalle esposte al vuoto e ai rischi del ristorante. Sebbene ci
conoscessimo da più di trent'anni, ci siamo sempre dati del lei: con
cerimonie, delicatezze, attenzioni, affettuosità, come nessun tu,
forse, mi ha mai consentito. Da principio parlavamo sempre della
realtà. Non so quale fiducia avesse in me come critico letterario,
ma certo aveva un'immensa fiducia in me come rappresentante del
misterioso mondo reale (sebbene gli appartenessi ancora meno di lui);
e mi aveva nominato suo ambasciatore permanente presso le istituzioni
visibili dell'universo. Con quale gioia e avidità golosa parlavamo
di anticipi e percentuali da estorcere agli editori, o di compensi
mai uditi da chiedere ai giornali presso i quali collaboravamo. Come
un bambino, amava il danaro; e credo che, come Goethe, avrebbe voluto
ricevere sonanti e splendenti monete d'oro, invece che insipidi
assegni.
Parlando, Calvino si
inceppava, si interrompeva, emetteva frammenti e rottami aforistici:
anche a me riesce quasi impossibile infilare un condizionale e un
congiuntivo, o tanto peggio un congiuntivo dietro un altro
congiuntivo; ma Manganelli parlava superbamente. Non ho mai ascoltato
nessuno parlare così. Come un grande padre predicatore o un papa
rinascimentale o un diplomatico secentesco, ostentava gerundi,
participi presenti, parole rare, proposizioni subordinate dentro
altre proposizioni subordinate, piuccheperfetti, con una esattissima
consecutio temporum, nutrendosi avidamente di parole
sanguinanti arrosti di sostantivi, colorati contorni di aggettivi,
folleggianti salse di verbi e di avverbi. Lo straordinario era che,
in lui, il pensiero più sottile e complicato diventava subito, senza
un attimo di incertezza e di dubbio, forma verbale: a tal punto la
sua mente era dominata dall'istinto formale. Parlavamo per due o tre
ore; e sebbene abbia tanto chiacchierato nella mia vita, di nessuna
conversazione mi ricordo come di quelle che ho avuto con lui nella
cantina romana. Nient'altro che pensieri: puri pensieri e ipotesi
che, rinchiusi in quella cantina, tra le interruzioni dei camerieri
(voleva, il professore, l'olio sulla ribollita? e andava bene il vino
dell'altra volta? e il porto doveva essere bianco o rosso?),
indagavamo quello che ci era possibile. Suppongo che mi usasse come
un allenatore. Alla fine era contento, e mi ringraziava della serata.
Non so bene di cosa mi dovesse ringraziare. Lo riaccompagnavo in
macchina, lungo la Nomentana, o fino al quartiere Prati.
Malgrado le sue ironiche
denigrazioni dell'intelligenza, era intelligentissimo. La sua mente
non aveva paura di nulla: di nessuna sfida o pericolo; tanto meno di
avventurarsi nell'ombra o nella tenebra o nel sacro, perché sapeva
benissimo che la nostra mente non deve far altro che misurarsi con
ciò che si nasconde. Ma, dalle sue discese nell'ombra, non derivava
alcuna vaghezza. Quando parlava e tanto più quando scriveva, era
preciso, concettoso, folgorante, aforistico un Baltasar Gracian del
ventesimo secolo. Capire lo rendeva felice: la gioia di capire lo
rendeva più intelligente; e allora comprendeva con una tale velocità
da bruciare l'oggetto compreso. Restava solo la sua parola, a metà
tra un'ala di pollo e i fagioli all'uccelletto, e, nell'aria, un po'
di mefistofelico zolfo. Allora rideva. Come tutte le persone
intelligenti, rideva volentieri. Quando gli ero vicino, capivo che,
nel mondo, consumati tutti gli orrori, esaurita la tragedia e
l'angoscia, restava un'immensa, inesauribile e incomprensibile,
riserva di riso.
Non ho mai viaggiato con
lui, sebbene avessimo progettato insieme un lungo viaggio in Turchia.
Credo che viaggiare fosse per lui, almeno nei primi anni, il momento
della liberazione: in Cina o Islanda o Norvegia o a Singapore, il
groviglio faticoso del mondo, il carcere dell'esistenza e i passi
delle Furie venivano dimenticati. Viaggiava in una condizione di
estrema felicità o di estrema tensione: possedeva le cose con
centinaia di occhi, le gustava con le papille frementi della lingua,
con i polpastrelli sensibilissimi, con l' attenzione spasmodica del
naso e delle orecchie. Visto dall'aereo o dalle finestre
dell'albergo, il mondo diventava un cibo saporoso, che il più
fantastico dei cuochi aveva preparato solo per lui, seduto davanti a
un desco immaginario, con gli occhi scintillanti di cupidigia. Oppure
il mondo era un libro: una sterminata bibliografia vivente, fitta di
voci, sottovoci, lemmi, sottolemmi, bibliografie, che consultava come
una Pauly-Wissowa. Il viaggio non poteva durare a lungo; ed egli
ritornava, non disperato ma rassegnato e furibondo, nel carcere della
vita.
Tutto, intorno a lui, era
carcere: le mura altissime, le torrette delle guardie, le celle
d'osservazione, le stanze dell' incubo. Gli alberi, le piante, i
fiori, con i quali un piccolo dio benigno cerca di alleviare le
condizioni di vita del carcere, non esistevano per lui. Con le spalle
contro la finestra, Manganelli illudeva la prigione con la sola
occupazione che riteneva degna di un uomo. Studiava le Idee, le sedi
dell'Essere, i luoghi dove abita Dio e la morte. Aveva letto Platone.
Ma nessuno era più antiplatonico di lui. Invece di abitare sul
culmine delle luci, Dio era morto, e lui poteva raccontare soltanto
di dei defunti o mai esistiti. E quel Dio o quegli dei morti non
erano circondati dalle bellissime forme luminose che Platone incontrò
nella Pianura della Verità, ma da spettri, cose non nate, vischiose
apparizioni deformi. Questo era il regno dell'Essere coltivato da
Manganelli. Sarebbe stato forse più giusto chiamarlo regno del
Nulla.
Nell'ultima parte della
vita, compì la sua discesa definitiva nell' inferno. Evocò le
ombre, le loro sedi e le loro cosmogonie senza ricorrere più alla
mediazione della retorica: con una prosa rapida ed intensa. Così si
consegnò, inerme, nelle mani delle Furie. Non so se comprese
pienamente la sua decisione. Certo, tanti anni prima, inducendolo a
conoscere l'ombra, la letteratura l'aveva salvato. Ma la letteratura
non salva mai nessuno, per sempre, perché ci impone delle domande
ogni volta più grandi e intollerabili. Ora essa esigeva che egli
andasse in fondo, raccogliendo senza timori le voci, gli squittii, le
forme smozzicate delle creature infernali. Non poteva sostare davanti
a nessuna scoperta od orrore; e doveva diventare, lui stesso, quelle
ombre e quegli orrori. Le angosce crebbero, nell'ultimo anno della
sua vita, senza lasciargli quasi tregua. Anni prima in India, aveva
avuto l' impressione che le pareti del tempo si avvicinassero fino a
schiacciarlo, e lui non potesse far altro, per sfuggire al tempo, che
buttarsi fuori dalla finestra, dal diciottesimo piano. Ora era sempre
più soffocato e schiacciato dal tempo. I demoni si erano impadroniti
della sua anima, e immaginarono per il suo corpo una malattia
fantastica, che aveva tutti i sintomi di una malattia reale. Non
osava uscir di casa, veder gente, essere invitato a pranzo,
percorrere le strade, cenare con me al ristorante toscano.
Dappertutto incontrava le Furie. Il mondo si era ridotto ai libri, i
quali soltanto avevano la forza di pacificarlo. Ogni mattina, gli
pareva di scorgere un cielo pallidamente luminoso: ma, alle dieci, il
cielo era già fosco.
Morì di colpo, forse
senza dolore, prostrato da una tensione che sarebbe stata
insostenibile per chiunque. La sera dopo la sua morte mi telefonò un
signore cerimonioso, per il quale entrambi avevamo molta stima. Gli
chiesi se, la mattina dopo, sarebbe andato al funerale. Mi rispose:
“È un appuntamento al quale non si può mancare”. Il funerale di
Manganelli sarebbe dunque stato un'occasione ufficiale, come un
discorso del Presidente Cossiga, il Premio Strega, un famoso party o
la presentazione del libro dell'anno? Il mio interlocutore ignorava
che Manganelli aveva mancato tutti gli appuntamenti della sua vita:
aveva sbagliato tutte le occasioni obbligate; e non ci sarebbe stato
nemmeno a quest'ultimo appuntamento, il suo funerale, né nella bara,
né fra noi, in incognito tra la folla nella grande chiesa di Prati.
Lui aveva sempre abitato da un'altra parte. Pensai: “Questo debbo
raccontarlo a Manganelli”. Era l' unica telefonata che non potevo
più fare. Qualche giorno dopo, lo sognai, come avevo sognato
Calvino. Ma era un incubo: chissà perché, dovevo infilare un
coltello nel petto di un grande animale peloso. Ubbidii piangendo
all'ordine. Poi mi accorsi che l'animale ucciso giaceva al suolo
nella stessa posizione in cui avevo visto Manganelli disteso sul
letto funebre. Mi domandai di che cosa fossi colpevole. Non sapevo.
Forse, come Gregor Samsa, Manganelli doveva venire immolato. Ci sono
creature che scendono fra di noi, abitano la terra, vivono come capri
espiatori, e poi vengono sacrificati, perché noi possiamo ancora
scrivere libri, compiangere gli amici, camminare nei giardini, godere
le gioie inutili dell'estate.
“la Repubblica”, 18
luglio 1990
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