In Etiopia, a sud di
Macallè e 700 chilometri a nord di Addis Abeba, nella zona del Debra
Behan, c e un massiccio montuoso chiamato Amba Aradam, (da «amba»,
rilievo montuoso) dove, dal 10 al 19 febbraio del 1936, le truppe
degli invasori italiani, comandate dal maresciallo Pietro Badoglio,
combatterono una cruenta battaglia contro gli etiopi guidati dal ras
Mulugeta Yeggazu.
L’aviazione italiana,
che aveva il dominio incontrastato del cielo, utilizzò su larga
scala il gas iprite irrorandolo a bassa quota, con la precisa
finalità di terrorizzare sia i soldati che la popolazione civile e
piegarne ogni resistenza, mentre le truppe italiane a terra
lanciavano con l’artiglieria proiettili al fosgene e arsina.
Ma il soldato-giornalista
Indro Montanelli, non vide e non volle vedere nulla, e negò per
tutta la vita quei crimini italiani. Eppure, già a partire dal 22
dicembre 1935, l’esercito italiano usava le armi chimiche,
contravvenendo al Protocollo di Ginevra del 17 giugno 1925
(sottoscritto anche dall’Italia).
Nel luglio del 1936 il deposto imperatore Hailé Selassié aveva denunciato, all’assemblea della Società delle Nazioni, che: «Mai, sinora, vi era stato l’esempio di un governo che procedesse allo sterminio di un popolo usando mezzi barbari, violando le più solenni promesse fatte a tutti i popoli della Terra, che non si debba usare contro esseri umani la terribile arma dei gas venefici».
Nel luglio del 1936 il deposto imperatore Hailé Selassié aveva denunciato, all’assemblea della Società delle Nazioni, che: «Mai, sinora, vi era stato l’esempio di un governo che procedesse allo sterminio di un popolo usando mezzi barbari, violando le più solenni promesse fatte a tutti i popoli della Terra, che non si debba usare contro esseri umani la terribile arma dei gas venefici».
Durante la battaglia di
Amba Aradam le truppe italiane erano alleate con alcune tribù locali
ma, a seconda delle trattative in corso, alcune di queste si
schieravano a loro volta con il nemico, per poi riaffiancare i
soldati italiani.
Al loro ritorno in
patria, i soldati «italiani brava gente», di fronte a una
situazione disordinata e caotica, cominciarono a definirla «come ad
Amba Aradam»: «è un’Amba Aradam». Nell’uso, le due parole si
sono fuse in una sola, col cambio della lettera finale, diventando
Ambaradan.
Tre anni dopo, tra il 9 e
1’11 aprile 1939, una carovana di partigiani guidati da Abebé
Aregai, leader del Movimento di Liberazione Etiope, fu individuata
dall’aviazione italiana e si rifugiò nella grotta di Amezegna
Washa (Antro dei Ribelli) del monte Amba Aradam. La carovana era
composta da membri della resistenza, ma anche dai loro parenti, che
garantivano la cura dei feriti, oltre che da donne, vecchi e bambini.
Il plotone chimico della divisione Granatieri di Savoia attaccò i
partigiani di Aregai, usando bombe a gas d’arsina e iprite. Solo
quindici persone riuscirono a scappare dalla grotta. Morì la maggior
parte di coloro che vi si erano rifugiati. Ottocento persone arresesi
all’alba dell’11 aprile vennero subito fucilate. Coloro che
all’interno della grotta continuarono la resistenza furono uccisi
con i lanciafiamme. Le estese ramificazioni della grotta resero pero
molto difficile esplorai la pei stanare i membri della resistenza che
ancora vi si rifugiavano. Il comando militare italiano diede quindi
l’ordine di ostruirne l’imboccatura.
In quella grotta di una
montagna ormai dimenticata è sepolta la nostra buona e confusa
coscienza nazionale, ricordata oltre che a Roma, anche a Genova,
Lainate e Mestre, dove ancora esistono strade che si chiamano via
Amba Aradam.
da L'ambaradan delle quisquilie, Sellerio 2012
da L'ambaradan delle quisquilie, Sellerio 2012
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