Un manuale contro il
sovranismo: Euro al capolinea? La vera natura della crisi europea,
di Riccardo Bellofiore, Francesco Garibaldo, Mariana Mortagua
(Rosemberg&Sellier); è sì un libro di economia politica, ma
soprattutto può essere uno strumento per chi voglia contrastare (e
sconfiggere) la propaganda della nuova destra e riconquistare i
cittadini alle ragioni di un’Europa il cui edificio è stato minato
prima di tutto dalle colpe – tutt’altro che inconsapevoli – dei
suoi “progettisti”.
È naturalmente un libro
in cui si parla molto di economia, in cui ci si misura con le sue
scuole, le sue accademie e le diverse interpretazioni della
congiuntura e della crisi; e, per questo, può sembrare un libro
complicato. Ma se non ci si lascia imprigionare dai particolari di
formule e citazioni, andando all’essenza del discorso, è un lavoro
di straordinaria chiarezza; perché al di là del titolo-quesito
(sarà un’ossessione giornalistica, ma un punto interrogativo
uccide qualunque titolo) gli autori offrono un’interpretazione ben
precisa del marasma in cui siamo immersi e fanno chiarezza con
un’opera didattica da consigliare soprattutto a chi ha ancora
voglia di trovare le argomentazioni per battersi contro le paure e i
fantasmi del presente e a chi intende assumersi la responsabilità
della trasformazione dell’esistente, in particolare a chi pretende
d’indirizzarla facendosene gruppo dirigente.
Evitando battaglie di
sola propaganda – in cui lo spirito dei tempi della semplificazione
nazional-populista ha sempre la meglio – o di principio, perché i
principii (e i valori) vanno benissimo ma senza gli argomenti sono
impotenti. Bellofiore, Garibaldo e Mortagua hanno in testa una
convinzione profonda: uscire dall’Euro o dall’Ue non serve a
nulla, anzi può solo peggiorare la situazione. Per dimostrarlo fanno
un passo a ritroso – ed è questo uno dei punti di forza del loro
lavoro – andando alle cause della crisi, che non sono tanto
economiche, quanto politiche, conseguenza di scelte e disegni
precisi. In sintesi, ricostruiscono il quadro storico di una critica
dell’economia politica neo-liberista, per dirla marxianamente.
A partire dalle radici
profonde dell’ultima grande crisi – che affondano nella natura
stessa del neoliberismo (che sta al liberismo come il sovranismo sta
al nazionalismo) – in quello “sciopero del capitale” che
attraverso il sacrificio del lavoro e la compressione dei salari,
sfocia nell’economia del debito, nel consumatore indebitato, nel
capitalismo che si finanzia indebitando le famiglie e inglobandole
nel sistema finanziario. Quella finanziarizzazione che gli autori
preferiscono chiamare “sussunzione reale del lavoro alla finanza”,
cioè dipendenza dei lavoratori e delle famiglie a basso reddito da
borsa, banche e bolle speculative. In altre parole il neoliberismo si
distingue nettamente dal liberismo perché è una costruzione
politica – talmente egemonica da spacciarsi per stato di natura –
che mette lo stato e i governi al servizio del capitale, che
“inventa” prodotti finti e tossici, rendendo cruciali le
relazioni finanziarie.
Parallelamente – tra
gli anni ‘90 e gli esordi del XXI secolo – cambia profondamente
il quadro industriale, in particolare in Europa, assumendo un assetto
transnazionale, con una nuova centralità tedesca che si dirama in
reti e filiere a est e a sud: una “fabbrica” semicontinentale,
una sorta di mitteleuropa allargata con ruoli ben assegnati e
subalternità precise plasmate sulle necessità tedesche. Con gli
squilibri commerciali che ne derivano ma che non giustificano
l’interpretazione secondo cui la crisi dell’euro nasce dagli
andamenti delle bilance dei pagamenti e dalle partite correnti.
Bellofiore, Garibaldo e Mortagua, nel dibattito tra scuole
economiche, vogliono distinguersi sia dall’interpretazione
ortodossa che da quella eterodossa, dai neolibersiti come dai
neokeynesiani e se le politiche d’austerità rischiano di produrre
ciò che vorrebbero evitare (la fine dell’Euro e dell’Ue, magari
non un repentino crollo ma un progressivo evaporare), la soluzione
non sta nemmeno in semplici politiche di aumento della spesa
pubblica.
Tantomeno la soluzione
può arrivare da un’Europa a due velocità e dall’uscita di
alcuni paesi dall’euro, non essendo la moneta la ragione della
crisi (semmai, su questo piano, lo sono più la gestione del
credito); anzi, gli autori illustrano e motivano perché con “l’exit”
i rischi di nuove austerity non diminuirebbero ma crescerebbero. Con
questo impianto analitico Euro al capolinea? non può che
concludere che non esistono soluzioni tecniche miracolose, mentre
urgerebbe la cosa più difficile e impegnativa, una scelta politica
di carattere generale che affronti i nodi strutturali del problema.
Gli autori invocano un cambiamento radicale nel modo di affrontare le
emergenze in cui siamo immersi (economiche, sociali, politiche e
culturali), un progetto globale contro il neoliberismo, partendo
dalla presa d’atto che non si può più ragionare in termini
nazionali, che l’orizzonte deve essere perlomeno continentale e che
su questo livello vanno messe in campo una serie di misure che
costituiscano l’asse di una nuova Ue: un’autentica unione
bancaria e fiscale, un aumento degli investimenti pubblici per un
forte intervento a favore dell’offerta e della struttura
produttiva, un riallineamento (verso l’alto) dei salari.
Un New deal “qualitativo”
in cui il soggetto pubblico (gli stati, la comunità europea)
“intervengano su cosa, come e quanto produrre, facendosi occupatori
diretti della forza lavoro”. Se non è una rivoluzione, poco ci
manca. Per farla servirebbe il combinato disposto di una
mobilitazione “dal basso” transnazionale con un nuovo governo
“dall’alto” sulla struttura della domanda, della produzione e
della distribuzione. Una nuova alleanza tra masse ed élite,
l’opposto dell’attuale collasso della democrazia. Un auspicio
finale talmente “alto” e sognante da stonare con il rigore
dell’analisi che lo genera. Gli stessi autori ne sono consapevoli e
perciò si affidano, per concludere, a una citazione di Musil sul
senso della possibilità, laddove “un consapevole utopismo non si
sgomenta della realtà bensì la tratta come un compito e
un’invenzione”.
Ps: In appendice uno
degli autori (Riccardo Bellofiore) propone cento tweet sulla crisi –
“in omaggio all’epoca”, spiega -, traduzione contemporanea
delle voluminose “tesi” proprie della tradizione del movimento
operaio. Scelta arguta e in linea con il taglio didattico dell’intero
volume. Tra i cento “pensierini” (in realtà alcuni vanno un po’
oltre i 280 caratteri del social svolazzante) ecco quello che sembra
più evocativo dell’impianto analitico e delle intenzioni di questo
lavoro. È il numero 95: “… Viviamo in un mondo che è quello
che riproduce su scala globale il capitalismo britannico di metà
Ottocento in presenza di un movimento operaio come quello inglese di
inizio Ottocento. Quel capitalismo che si colloca sul ‘mercato
mondiale’; quel capitalismo in cui il movimento operaio (oggi, ma
anche allora, dovremmo dire: dei lavoratori e delle lavoratrici) non
era un dato, era una costruzione dal basso: quel capitalismo che
‘formava’ la classe operaia inglese integrando estrazione di
plusvalore relativo e plusvalore assoluto (…). Un ritorno al
passato che è il nostro futuro e che è la vera novità del
capitalismo dei nostri giorni: le nuove forme del vecchio
sfruttamento”.
dal sito "il manifesto sardo", 8 marzo 2019
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