Di tutte le (poche) icone
femminili del jazz, certo quella più celebrata è la tragica
cantante Billie Holiday, morta a 44 anni nel 1959, la cui voce ancora
oggi è considerata inarrivabile. Molti sono i motivi di questa
predilezione, qualità artistiche a parte.
Easy Living (1 giugno
1937)
Una vita dickensiana, con
uno stupro infantile, un’adolescenza nei bordelli, la rivelazione
canora prima dei vent’anni, l’ascesa alle stelle e la ricaduta
nella polvere a causa di una tossicodipendenza connessa agli
infelicissimi rapporti sentimentali. E poi un’identificazione con i
testi del proprio repertorio di cantante che si modificò nel tempo
(vi alludono i titoli dei suoi brani che scandiscono l’articolo),
soprattutto quando nel 1939 accettò di interpretare Strange
Fruit, un song politico che descrive un linciaggio: da quel
momento Billie incarnò [a volte controvoglia) le nuove avanguardie
della cultura afroamericana, ben prima dell’avvento rivoluzionario
del bebop. Ancora, le drammatiche trasformazioni della sua voce,
dall’istintiva visceralità degli esordi alla pienezza felina degli
anni Quaranta, al ridimensionamento spettrale (ma saturo di
espressività) del declino finale.
All Off Me (21 marzo
1941)
Per tutti questi motivi
la letteratura su di lei è vasta anche in Italia, a cominciare dalla
sua discussa autobiografia, La signora canta il blues
(Feltrinelli). Ora per il Saggiatore, che già nel 2007 aveva
pubblicato il fascinoso Lady Day di Julia Blackbum, esce
l’analisi critica Billie Holiday scritta da John Szwed: di
lui sempre il Saggiatore ha tradotto la biografia di Miles Davis So
What, minimum fax Space is the Place su Sun Ra e la Edt la
breve guida Jazz!. Szwed segue un percorso tematico. Osserva
«il mito» della cantante, partendo dalla biografia redatta per lei
dal giornalista William Dufty ed esplorandone i vari livelli di
«verità», per poi studiarne l’immagine pubblica. Passa quindi
alle tappe fondamentali della sua vita, ciò che serve a seguirne il
percorso professionale, infine analizza il suo ruolo di cantante. «È
strano come molti libri su di lei riservino alla sua musica un
interesse secondario», dice nell’introduzione Szwed. Che nelle
ultime pagine ribadisce di aver voluto «spostare l’attenzione
sulla sua arte», rispetto ai mille pettegolezzi; ma confessa anche
di essersi trovato «coinvolto nei dettagli della sua vita così come
lei e gli altri li avevano rappresentati». Alla fine, il saggio
scolpisce una figura a sbalzo, alcuni lati della quale sono
illuminati meglio di altri.
Fine
And Mellow (20 aprile 1939)
Si tarda un po’ a
trovare il promesso approfondimento musicale: arriva verso metà
libro, quando Szwed esplora il modo in cui Billie Holiday piega le
singole parole delle canzoni e si allontana creativamente dalla
pulsazione ritmica del brano (un procedimento simile a quello che usa
lo strumentista da lei adorato, il sassofonista Lester Young). Le
molte osservazioni dell’autore sulle peculiarità uniche di questa
voce avrebbero meritato di essere esposte con una maggiore
sistematicità; e la sezione finale, che passa in rassegna quelle che
Szwed identifica come le 4 fasi della carriera di Billie Holiday, non
studia con l’analisi dettagliata che ci si augurerebbe il
repertorio della cantante. Si tratta comunque di un buon sunto che
ripercorre l’epoca della prima affermazione, quella del successo e
della maggiore aderenza alle istanze di riscatto sociale, il periodo
di un ripensamento legato alle trasformazioni di tutto il jazz e
infine i due ultimi album orchestrali, discussi e subliminali, che
Murakami Haruki definì «le incisioni del perdono».
Lady Sloga The Blues
(6 giugno 1956)
Affascinante è il
capitolo (forse complesso per noi, lontani dalle peculiarità
dell’industria musicale statunitense, ma appunto per questo di
grande interesse) La preistoria di una cantante, sui diversi
modelli che il canto popular prevedeva prima che Billie
entrasse in scena, trasformandoli potentemente. Vi incontriamo le
coon song razzialmente offensive ma poi utilizzate
sarcasticamente dagli stessi interpreti afroamericani, le maestose
red hot mama (fra le quali Bessie Smith, il grande modello di
Billie), le «maschiette» e ancora le appassionate torch singer,
nel cui modo di cantare confluivano tradizioni europee come la
chanson francese alla Mistinguett e naturalmente alla Edith Piaf, che
resta la personalità più vicina a Billie Holiday. A volte Szwed
pecca di approssimazione: per esempio quando, per mostrare le
pressioni subite durante la carriera, sostiene che la cantante incise
i suoi successi «uno straordinario numero di volte» ma conta anche
le moltissime, e inevitabili, incisioni dal vivo, spesso pubblicate
molti anni dopo la scomparsa della sua interprete. Ma nel complesso
la sua indagine è cristallina e al tempo stesso appassionata, due
qualità che convivono raramente.
Corriere della sera, 8
luglio 2018
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