Alexandria Ocasio Campos, deputata alla Camera dei rappresentanti USA |
DA NEW YORK
«Siamo una nazione
fondata sulla libertà e l’indipendenza, non sulla coercizione e il
controllo. Stasera rinnovo il mio impegno: l’America non sarà mai
un Paese socialista: siamo nati liberi e resteremo liberi». Donald
Trump ha deciso: per essere rieletto nel 2020 alla Casa Bianca
punterà, come nel 2016, sul fattore fear: la paura. Stavolta
alimenterà negli americani quella del socialismo. E, per dare
solennità alla sua promessa, il presidente l’ha formulata davanti
al Congresso di Washington e all’America intera quando, all’inizio
di febbraio, ha pronunciato il discorso sullo stato dell’Unione.
Nessuna distinzione tra
welfare state di tipo europeo, socialdemocrazie scandinave e
soviet della defunta Urss: a lui è bastato evocare un termine,
socialismo, che per la maggioranza degli americani ha sempre avuto un
suono sinistro. Da allora gli slogan sul marxismo vengono ripetuti da
Trump in tutti i comizi. Democratici accusati di essere liberticidi,
collettivisti, gente pronta a ridurre l’America come il Venezuela.
Le sue consuete forzature, certo. Ma stavolta il crescente peso dei
radicali nella sinistra gli fornisce un grosso appiglio. E lui,
comunque, è in linea con il Partito repubblicano che, ben prima
della sua discesa in campo, aveva dipinto come socialista anche
Barack Obama: crocifisso per aver proposto una riforma sanitaria che
dà copertura medica anche agli esclusi, ma mantenendo un sistema di
gestione della salute più privatistico di quelli europei.
Proprio lo scarso
successo di quelle politiche di Obama, accompagnato dalla frattura
sociale prodotta dalla Grande Recessione di dieci anni fa, ha, però,
alimentato un malessere profondo, soprattutto tra i giovani. La
reazione politica che ne è derivata ha rimesso in circolazione una
parola — socialismo, appunto — a lungo bandita dal vocabolario
politico americano. La novità è stata colta con spregiudicatezza e
strumentalizzata da Trump, lesto a fiutare l’opportunità per la
sua campagna. Ma la novità — la voglia di socialismo di alcuni
ceti sociali — c’è: è testimoniata dai sondaggi e dallo
spostamento a sinistra di quasi tutti i leader democratici più in
vista. C’è anche un fermento culturale che passa per riviste come
«Jacobin» e che investe la scienza economica dove spopola la nuova
Mmt (sta per Modern Monetary Theory), sviluppata da alcuni studiosi
post-keynesiani: i socialisti la usano per spiegare come
finanzieranno i loro costosissimi programmi sociali. Ma gli
economisti mainstream — compresi quelli di sinistra, come Larry
Summers — la condannano senza appello: è voodoo economics.
Il termometro delle
indagini demoscopiche dice (rilevazione Gallup di qualche settimana
fa) che il socialismo affascina, ormai, la maggioranza dei millennial
americani: il 51 per cento dei cittadini tra i 18 e i 29 anni dice di
avere un’opinione positiva sul socialismo. Il fenomeno non è
nuovo, ma si sta accentuando: il primo segnale venne prima delle
elezioni del 2016 quando, da un sondaggio promosso dalla Harvard
University, emerse un’ostilità nei confronti del capitalismo da
parte del 51 per cento dei giovani di 18-29 anni. Ma allora solo il
33 per cento di loro mostrò simpatia per il socialismo.
Numeri che vanno presi
con le molle per due motivi. Intanto perché le risposte cambiano
molto a seconda di come vengono poste le domande. Ad esempio la
proposta di introdurre una copertura sanitaria universale per tutti
raccoglie circa il 70 per cento di giudizi positivi, ma se ad essa
viene aggiunta l’espressione «medicina socializzata», i consensi
risultano dimezzati. E, poi, le simpatie socialiste dei giovani non
sono affatto condivise dagli elettori di età più avanzata (che
vanno alle urne molto più dei ventenni).
Pur con tutte queste
cautele, è chiaro che la perdita di incisività dei democratici e i
successi della destra populista hanno cambiato lo scenario politico
del mondo progressista. Determinata, giovane, abilissima nella
comunicazione, la neoeletta Alexandria Ocasio-Cortez, vera rockstar
del partito democratico, è il motore di questa nuova stagione: è
iscritta anche al Dsa, l’«organizzazione» dei socialisti
americani, propone riforme radicali e costosissime per la sanità e
la tutela ambientale, vuole tassare i ricchi con un’aliquota del 70
per cento. Con la sua dialettica tellurica sta scuotendo il Partito
democratico insieme a un’altra pasionaria socialista: la
neodeputata di Detroit Rashida Tlaib. Gongola Bernie Sanders:«Quattro
anni fa certe cose le dicevo solo io e facevano scalpore. Adesso le
senti ovunque, sono patrimonio di tutta la sinistra».
Altri candidati di prima
fila alla Casa Bianca, come Kamala Harris o Elizabeth Warren, non si
dichiarano socialisti, ma condividono punti-chiave dell’agenda di
Ocasio-Cortez: dall’introduzione di un sistema sanitario universale
con un pagatore unico (lo Stato), basato su un’estensione a tutti i
cittadini del Medicare, la mutua pubblica per gli anziani,
all’adesione al Green New Deal. Quest’ultimo è un ambizioso (e
costosissimo) piano per la tutela dell’ambiente che vuole
trasformare l’economia e la vita degli americani: da una
rivoluzione dei trasporti alla trasformazione di tutte le abitazioni
per renderle ecocompatibili.
Alle prese con una base
impaziente, che non si accontenta più dei limitati risultati
«incrementali» promessi dal riformismo di Obama e dei Clinton, oggi
i candidati alla Casa Bianca più in vista tra i democratici (ad
eccezione di Biden) si stanno spostando più a sinistra. Mentre gli
esponenti moderati, quelli ancorati a posizioni centriste, magari
perché parlamentari di Stati che hanno un elettorato prevalentemente
conservatore, pur essendo schierati per l’economia di mercato,
faticano a dichiararsi capitalisti da quando la Ocasio-Cortez,
parlando all’Sxsw, il festival delle nuove tendenze di Austin, in
Texas, ha definito il capitalismo «irrecuperabile».
In questo nuovo clima
politico, in attesa che a difendere le posizioni democratiche
moderate sia Joe Biden, il vice di Obama alla Casa Bianca che
dovrebbe ufficializzare a breve la sua candidatura per le
presidenziali, la bandiera del pragmatismo dell’establishment
progressista è finita nelle mani di un altro candidato alla Casa
Bianca, John Hickenlooper. L’ex governatore del Colorado è il
prototipo del mercatista progressista in un partito democratico Usa a
suo tempo definito dal politologo Kevin Phillips «il secondo partito
più entusiasta del capitalismo al mondo». Eppure, quando in un talk
show gli è stato chiesto di dichiararsi capitalista, Hickenlooper si
è tirato indietro, sostenendo che vanno rifiutate etichette che
possono alimentare le divisioni. Ma è chiaro che pensava anche ad
altro, a cominciare dal timore di essere fatto a pezzi dai social
media dove spopolano Ocasio-Cortez e gli altri leader liberal.
Ma, allora, quanto è
profondo il mutamento degli umori nella sinistra americana? Quanto ha
inciso la rivoluzione della comunicazione digitale sulla
radicalizzazione in atto? E cos’è questo «socialismo americano»
abbracciato da tanti ragazzi che di marxismo sanno poco o nulla?
Il socialismo, si sa, in
America non ha mai attecchito per vari motivi: dalla guerra fredda e
dalla contrapposizione dell’intero Paese al blocco sovietico,
all’allergia allo statalismo sempre manifestata dai pionieri e dai
loro discendenti. È su questo istinto libertario che punta Trump
quando proclama: «Siamo nati liberi e resteremo liberi». La
differenza tra marxismo-leninismo e socialdemocrazie nordeuropee,
così chiara ai nostri occhi, lo è molto meno per gli americani:
soprattutto quelli che vivono lontani dalle metropoli della costa
orientale — New York, Boston, la stessa Washington — più
sensibili agli influssi di Oltreatlantico.
Non aiuta il fatto che
negli Usa il Dsa (Democratic Socialists of America) il partito dei
socialisti americani, sia, oltre che molto piccolo, su posizioni
radicali e, di fatto, alleato con il (minuscolo) Partito comunista.
Già in passato, anche senza richiami espliciti al socialismo, nel
Partito democratico americano si era fatta strada, a tratti, una
corrente favorevole a una presenza molto più estesa dello Stato in
economia e a una rete di protezione sociale molto robusta,
accompagnata da un’elevata tassazione. Le politiche di questo tipo
vennero, però, abbandonate prima ancora dell’era reaganiana, della
caduta del Muro di Berlino e della dissoluzione del blocco comunista
dell’Est europeo. A pesare fu soprattutto lo choc della sconfitta
di George McGovern alle elezioni presidenziali del 1972. Opposto a
Richard Nixon, il candidato, alfiere della sinistra liberal, non
aveva molte speranze, ma la sua fu una disfatta storica: vinse solo
in Massachusetts e nella città di Washington, perdendo in tutti gli
altri 49 Stati, compreso il suo, il South Dakota. Nel voto popolare
ottenne appena il 37 per cento, perfino meno del 40 per cento
racimolato nel 1984 da Walter Mondale nel tentativo di detronizzare
Ronald Reagan.
Da allora il Partito
democratico cambiò rotta scegliendo ricette meno seducenti ma più
pragmatiche, solidamente ancorate all’economia di mercato. E, dopo
il trionfo di Reagan negli Usa e della Thatcher in Gran Bretagna,
cominciò a cercare risposte, come le sinistre europee, nella Terza
Via.
I democratici si presero
la loro rivincita negli anni Novanta con Bill Clinton, ma non
riuscirono a fermare il declino dei ceti medi: l’aumento delle
diseguaglianze continuò e divenne insostenibile dopo il crollo
finanziario del 2008. Una crisi di sistema dell’era Bush, ma della
quale è stato corresponsabile Clinton che nei suoi anni alla Casa
Bianca assecondò la deregulation estrema di Reagan.
Malessere ed erosione dei
consensi rimasero a lungo sottotraccia, fino alla svolta del 2016.
Prima la sorprendente forza della candidatura del socialista Sanders,
battuto a fatica da Hillary Clinton nelle primarie democratiche. Poi
l’elezione di Donald Trump, interpretata dalla sinistra radicale
del Partito democratico come una smentita della regola non scritta
delle presidenziali americane: per arrivare alla Casa Bianca bisogna
correre al centro per conquistare gli indipendenti. Trump ha vinto da
posizioni estreme, sostituendo l’ideologia con il populismo. Ora i
«socialisti» pensano di poter ripetere la stessa operazione da
sinistra, battendo Trump con una miscela di radicalismo progressista
e populismo.
La spinta è forte, così
come i rischi: per Rahm Emanuel, sindaco uscente di Chicago e braccio
destro di Obama alla Casa Bianca, con i richiami al socialismo i
liberal americani stanno consegnando a Trump le armi per vincere di
nuovo nel 2020. I democratici, poi, non devono preoccuparsi solo
della presidenza: usando lo «spettro» socialista i repubblicani
stanno già assediando i deputati democratici degli Stati
dell’America conservatrice che hanno consentito alla sinistra di
riconquistare il controllo della Camera. La cui leader, Nancy Pelosi,
allo stato dell’Unione ha applaudito Trump quando il presidente ha
promesso che l’America non diventerà socialista. Il rischio
principale per la sinistra americana è, oggi, quello della
spaccatura.
“La lettura” del
“Corriere della Sera”, 24 Mar 2019
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