Farò le lodi di un libro
appena uscito, le lodi e qualche critica, per fare l’elogio di
Virginia Woolf e dell’Italia; con Italia intendo, metonimicamente,
il femminismo italiano che non ha smesso di leggere, amare e
commentare colei che, in Inghilterra, chiamavano la darling
dangerous woman, la bella, cara e pericolosa Virginia.
Il canto del mondo
reale s’intitola l’ultimo libro a lei dedicato, autrice
Liliana Rampello, sottotitolo: Virginia Woolf. La vita nella
scrittura (Il Saggiatore, 2005). È il libro di una lettrice di
Virginia Woolf, ben più che quello di una letterata (ed è la mia
prima lode), pur essendo questa la formazione professionale di
Rampello e pur essendo il suo un libro informato del molto che è
stato scritto sulla Woolf. Non ho niente contro i letterati,
intendiamoci, voglio solo dire che c’è una differenza. Qual è?
Che lei, la lettrice Liliana, conosce la sua autrice dall’interno,
e l'interno è l’esperienza di lettura, un’esperienza tutta
speciale dove realmente chi legge s’incontra con chi scrive. E da
lì ritorna a noi con la voglia di raccontare quello che le è
capitato. Nasce da in simile incontro l’idea che dà incremento
all’intero libro della Rampello, quella di un amore della vita che
diventa scrittura vera e «canto del mondo reale», idea che
l’autrice comincia ad esporre come chi racconta un’avventura;
«Nell’immagine di lei che mi è venuta incontro, il nucleo
inaggirabile è il suo amore per la vita ed e questo il filo che ho
scelto di seguire e srotolare...».
In contrasto con questa
visione, il pensiero corre ovviamente alla morte di Virginia, morta
suicida nel 1941, all’età di cinquantanove anni, ma l’autrice
scarta la troppo facile obiezione con gesto lieve che convince.
Sempre per fedeltà all’immagine di una Virginia amante della vita,
non esita a scostarsi dalla pur ammirata Nadia Fusini, grande
traduttrice di romanzi woolfiani, quando questa rintraccia nella
Woolf una moderna «scienza del lutto». Questo secondo contrasto mi
sembra più problematico. Si tratta di due esperienze di lettura tra
loro differenti e incomparabili, certo. Ma potevano essere meno
distanti, io penso, movendo a Liliana la mia critica principale o
unica. Penso, precisamente, al suo giustamente lungo commento di una
magnifica pagina della Signora Dalloway, quando, nel bel mezzo
di una festa s’insinua la notizia del suicidio di Septimus. Non è
un personaggio qualsiasi, Septimus, ma il protagonista del
controcanto che accompagna la giornata della protagonista, tutta
dedita, quest ultima, alla preparazione della festa che avrà luogo
la sera. L’uomo, reduce della prima guerra mondiale e malato di
mente, si è buttato dalla finestra del suo appartamento per sfuggire
al manicomio cui lo destinavano la sua povertà e il verdetto di un
illustre clinico, amico della famiglia Dalloway. La morte che viene
per rovinare la festa ma non ci riesce, nella lettura di Liliana
sarebbe la morte «accolta come una diversa forma che la vita prende
nella nostra mente e che si tinge ancora dell’amore stesso che
abbiamo per la vita». Lei dà questo credito al personaggio della
signora Dalloway, io no, a me pare cioè che la Woolf, in quel punto
del romanzo, si distacchi dalla sua eroina e la guardi in silenzio,
sguardo silenzioso che ce la rende meno esemplare e più vera. E che
arriva fino a noi. Ce anche quest’aspetto nella attualità di
Virginia Woolf, io ritengo simpatizzando qui con la posizione di
Nadia Fusini, consapevole tuttavia che la discussione dovrebbe
approfondirsi e non so con quale esito.
Dobbiamo riconoscere,
comunque, il coraggio di Liliana Rampello che, per restituirci
Virginia Woolf, intona - oggi - il canto dell’amore della vita,
riconoscerlo insieme all’intento che la anima. Quello che lei
vuole, esattamente come tutte e tutti quelli che escono da una grande
esperienza di lettura, è restituirci l’interezza dell’opera di
Virginia Woolf, i romanzi insieme ai saggi politici e alla vasta
scrittura autobiografica, restituircela non attraverso una
esposizione più o meno dettagliata ma facendo rivivere l’ispirazione
profonda di tanta opera. Sappiamo quanto i «letterati» di ogni
tempo abbiano in sospetto una simile pretesa e come si diano da fare
per farla sembrare mera presunzione, ma sappiamo anche (io lo so
grazie al lavoro erudito dei «letterati»... paradosso istruttivo)
che senza questa presunzione, chiamiamola pure così, non c'è
cultura che possa vivere e rinnovarsi. E viceversa, nel senso che c'è
una cultura, quella del movimento politico delle donne, che autorizza
libri come questo, l’autrice non ne fa mistero, libri affettuosi e
amorosi messi al mondo direttamente in un campo di battaglia.
L’ispirazione profonda
della scrittura woolfiana, come viene fuori dalle pagine di questo
libro, è nel circolo virtuoso fra amare la vita e dire «le cose
come sono», che lei, Virginia, crea o scopre con la scrittura. Lo
conferma lei stessa, del resto, commentando quelli che chiama i suoi
«momenti di essere», e parla di ima sua filosofia o idea (idea di
un ordine simbolico?) che ha sempre avuto, ossia che dietro l’opacità
della vita quotidiana ci sia un disegno affiorante a sprazzi con il
lavoro della scrittura, e che il mondo intero sia un’opera d’arte
di cui noi siamo parte, alla stregua di segni viventi.
Il passaggio cruciale è
costituito dai due saggi politici della Woolf, Un stanza tutta per
sé e Tre ghinee, riuniti in questo libro sotto un unico,
significativo titolo, «Dire la verità». In che cosa consiste la
capacità che hanno questi due testi, a suo tempo accolti con
imbarazzo dagli ammiratori della Woolf romanziera, specialmente il
secondo, oggi stampati e ristampati per un pubblico fedelissimo e
quasi esclusivamente femminile, di inanellare fra loro vita e
scrittura? Per rispondere con una parola piuttosto rustica, diciamo
che la loro capacità è nella loro esplicitezza. Esplicitare è una
mossa sempre variamente rischiosa, rischiosissima nel caso della
Woolf, il quid da esplicitare essendo le emozioni «abbiette» (per
citare Judith Butler) di una esperienza femminile tacitata non da
qualche autorità poliziesca ma dall’implacabile legge del
ridicolo. Virginia Woolf ha saputo sfidarla con arte magistrale, non
inferiore a quella dei suoi migliori romanzi, e con risultati geniali
per la politica e per la filosofia. Questo è il mio elogio,
annunciato all’inizio, ed è anche la ragione della riconoscenza
senza fine («la ringrazierò per sempre») con cui Liliana Rampello
conclude il suo libro.
"il manifesto", 27 luglio 2005
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