«Amor, ch’ai cor
gentile ratto s’apprende / prese costui de la bella persona / che
mi fu tolta, e il modo ancor m’offende».
Chissà se quando i suoi
genitori dissero «no», Rosa conosceva i versi di Dante che
terribilmente cantano l’amor disperato di Paolo e Francesca.
Chissà.
A Torricella in Sabina,
cinquanta anni fa, Giuseppe, complice lo struscio domenicale, si
innamora di Rosa. Ricambiato. Poiché son due ragazzi puliti e non
gli basta qualche veloce, furtivo incontro - giusto il tempo di
afferrarsi le mani sino a stritolarle, quasi; le labbra che si
sfiorano mentre il sangue corre altrove e la testa ti si svuota
perdutamente -, visto che sanno di amarsi sul serio decidono di
seguire le norme del villaggio. Giuseppe bussa alla porta dei
genitori di Rosa, lo fanno accomodare «in sala», gli offrono un
bicchierino di rosolio fatto in casa e il ragazzo «si spiega». Rosa
è di là che attende d’esser chiamata. Ma invece del grande
momento sente l’uscio di casa richiudersi alle spalle di Giuseppe.
Come mai, perché?, domanda e suo padre, grave, le dice che
certamente Giuseppe è un bravo figliuolo, onesto e faticatore, però
è di «umile condizione, un semplice bracciante» e come tale non
può aspirare alla mano di una signorina figlia unica «di
agricoltori abbienti». Rosa incassa, scappa in camera. E piange.
Giuseppe non piange ma decide, per alleviar la pena, di lasciare il
villaggio. Per sempre. Emigra in Sudamerica.
Passano gli anni e Rosa
si sposa: con un (bravo) ragazzo del suo paese, anche lui faticatore
onesto con in più un bel parco di ulivi generosi d’olio, e due
case: una in campagna, l’altra nel cuore del paese. Giuseppe rimane
scapolo e quando, oramai imprenditore di successo, decide di tornare
in patria, preferisce sistemarsi a Monterotondo: di vivere nel
villaggio dove mezzo secolo fa subì il gran rifiuto, non se la sente
affatto. Ma un giorno, aprendo il Corriere di Rieti legge che il
marito di Rosa è morto sicché spedisce subito a colei che ricorda
giovinetta due parole di conforto. Che non hanno risposta.
Un giorno di tre mesi fa,
però, sollecitato da una imperiosa scampanellata, Giuseppe apre
l’uscio di casa e chi ti vede: Rosa.
«Sei sempre la stessa»,
mormora e non è una (pietosa) bugia, la sua, ma la verità giacché
l’ottica di una persona innamorata non è quella dei comuni
mortali. «E tu non sei cambiato affatto, sei sempre il solito
bugiardo. Mi avevi giurato amore eterno e non hai nemmeno cercato di
smuovere mio padre...». Ma, «tutto questo è passato», dice
saggiamente lui, «pensiamo a rifarci del tempo perduto». E infatti
i due «si fidanzano» e, poi, visto che il rapporto funziona
decidono di sposarsi. Ottant’anni lei, ottant’anni lui.
Questa storia è
pateticamente banale, d’accordo, se non fosse che. Se non fosse che
tornati al villaggio dopo un viaggio di nozze rituale (Roma,
Venezia), i due spacchettano i doni nuziali. Le solite robe ma con in
più un grosso baule rosso sigillato con spago robusto e vivida
ceralacca. «E questo che d’è», domanda Giuseppe e Rosa: «Aprilo
e levati la paura», sorride enigmatica. Lui apre, solleva il
coperchio del baule e, come suol dirsi efficacemente, non crede ai
suoi occhi. Il baule è pieno, tutto pieno, di lettere. Lettere
d’amore. Quelle che, senza mai saltare un giorno, Rosa ha scritto a
Giuseppe «cuore mio». «Qui c’è tutta la mia vita in attesa del
tuo ritorno. Giorno dopo giorno ti ho detto «ti amo», ti ho detto
«non ti dimenticherò» e ancora: «Saremo in due, quando Dio
vorrà».
E qui voglio rimarcare
una cosa sola affinché il lettore insieme con me rifletta: durante
cinquantanni Rosa ha quotidianamente scritto a Giuseppe. Non potendo
impostare le lettere poiché di Giuseppe ignora il recapito, Rosa
trasforma un baule rosso in una buca delle lettere. D’amore. Adesso
son lì che le leggono, i due «vecchietti». Un mucchietto al
giorno, da qui all’eternità.
Il ritaglio, una
pagina senza data di “Specchio”, il “magazine” de “La Stampa”, risale probabilmente al 2005.
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