Non c’è nessun
movimento, nessun momento, nessuna aggregazione, nessuna istanza,
nessuna cultura, nessuna politica e nessuna religione, in Italia e in
Europa, che possano sollecitare l’interesse per Simone Weil. Anzi,
come notava Maurice Blanchot in un memorabile saggio su di lei, «per
alcuni il pensiero di Simone Weil è così irritante che quasi non lo
considerano un pensiero...». Non ci sarebbe nessuna ragione di
occuparsi di Simone Weil se non fosse appunto che non c’è nessuna
ragione apparente.
Simone Weil, per
cominciare, non andrebbe confusa con la quasi omonima signora del
Parlamento europeo: morì , tanti anni fa, il 30 agosto del 1943 in
Inghilterra, al Grosvenor Hospital di Ashford nel Kent. Era
tubercolotica, ma morì di fame; e il coroner sentenziò che si era
trattato di un «suicidio in situazione di turbamento mentale».
Naturalmente era vero, com’è vero tutto ciò che il buon senso e
la ragionevolezza possono dire di lei, ritraendosene irritati,
sgomenti e perfino nauseati. Ma questa verità è una banalità al
confronto con la «verità» di Simone Weil, di cui ancora Blanchot
dice che era «analoga all’indicazione oscillante e a volte
disorientata dell’ago magnetico, che non dubita mai del polo, anche
se situarlo si rivela impossibile...».
Insituabile,
intrattabile, abbagliante e pericolosa: così si potrebbe dire della
sua vicenda e di lei, se non fosse dir poco, e se non fosse che, a un
certo momento, quella vicenda trovò un supporto inatteso: la
certezza assoluta dell’esistenza del «Bene» e, forse più ancora,
la «certezza di Dio». Così, soprattutto in Italia, la figura della
Weil (soprattutto quella di La conoscenza soprannaturale) si
stilizzò in un’immagine di «purezza» e di «santità» ad uso di
una certa cultura cattolica priva di ogni vigore e a volte anche
notevolmente filistea; così come la Weil precedente, precedente
anche il Fronte popolare del 1935 di cui decifrò la «tragedia»,
cioè la Weil della Condizione operaia (tradotta da Franco
Fortini per Comunità nel 1952), e poi dell'Enracinement e
delle «esperienze contadine», si stilizzò in una specie di geniale
assistente sociale di gusto olivettiano o di patrona delle imprese di
Danilo Dolci nel Sud...
La Weil si presta
moltissimo ai fraintendimenti: sulla sua opera, e anche sui
fraintendimenti, si potrà tornare in autunno, quando Adelphi
pubblicherà i Taccuini, quei «Cahiers» che iniziò a tenere
intorno al ’30 e a cui affidò la sua immedicabile e geniale
irrequietezza; per ora, a raccomandare cautela nelle
«appropriazioni», basterà rammentare il significato di quel
«supporto», del nome di Dio: per la Weil, «Dio» non vuole dir
niente, Dio è niente...
Quando morì, al
Grosvenor di Ashford, aveva trentatré anni, anzi «l’età di
Cristo», perché era nata a Parigi il 3 febbraio 1909 da una
formidabile famiglia ebrea: ricca, molto integrata, laica e molto
colta. Per il fratello maggiore, piccolo genio matematico, provò
sempre una «solidarietà magica», anche se il confronto con lui le
provocò a quattordici anni una «crisi di disperazione», da cui
riemerse intuendo una «vocazione alla verità» e sottoponendosi a
un «dressage» intellettuale e morale durissimo, in vista di
un’«assoluta limpidezza dell’attenzione». Per il padre e
soprattutto per la madre, che era «un po’ possessiva», provò
sempre, insieme con un affetto sconfinato come tutti i suoi
sentimenti, un senso, se non di insofferenza, di insubordinazione, e
un bisogno di nuocere che era appena più blando del bisogno di
nuocere a se stessa.
Annoto queste cose perché
basterebbe la parola «dressage» per mettere i brividi nella
schiena, e perché alludono a una cosa di cui non si può tacere,
come invece fa pudicamente la sua ultima e attenta biografa,
Gabriella Fiori (Simone Weil, biografia di un pensiero,
Garzanti, pagg. 378, lire 12.000): il «romanzo familiare», benché
così «rosa», della Weil la affiderà fin dall’inizio a una
devastante nevrosi.
Capisco che il vocabolo è
sgradevole perché puzza di clinica e di cliché e sembra implicare
un giudizio. Ma non è una buona ragione per non usarlo: è solo un
edificante pregiudizio. La biografa annota che durante l’allattamento
il latte materno si guasta e «la bimba comincia a deperire», ma non
connette questo incidente col fatto che per tutta la vita mangerà
pochissimo, fino alla denutrizione, e che m punto di morte rifiuterà
soprattutto il latte... Oppure osserva che «Simone ci appare come
perennemente intralciata da questa precarietà di salute che la
insidia, malgrado le cure attente di una madre moderna. Forse, già
da quest’epoca della sua vita, il corpo comincia a diventarle
estraneo...». Ma non connette tutto ciò con la bella e soave
annotazione di due pagine più avanti: «Quella famiglia formava un
corpo solo...». Malgrado le madri moderne, e benché la feroce
dilapidazione di sé cui la Weil si sottopose possa suscitare
ulteriori brividi di atterrita ammirazione, ci sono intere
biblioteche al riguardo...
Vorrei suicidarmi
Così, «intralciata»
dal corpo e «priva» del corpo, scostante e severa, esigentissima
sul piano intellettuale, preparò l’ mmissione all’Ecole Normale
Supérieure con Alain (Emile Chartier), un filosofo ingiustamente
dimenticato, Socrate-levatrice di tanta cultura francese degli anni
Trenta, che varrebbe la pena di rileggere (Einaudi lo ha pubblicato e
che deve essere stato bellissimo ascoltare: per la sua franchezza, il
suo rigore e la sua paradossalità. Anche allora c’era il riflusso,
e, tanto per dare un’idea, insieme alla venerazione dei Grandi
Classici, e insieme al socialismo o meglio alla «Rivoluzione vera»,
Alain insegnava che «è l’istituzione che salva il
sentimento...»,, e che «bisogna credere al bene, perché non
esiste...».
Anti-borghese,
«bolscevica», e filocomunista, anarchica, pacifista; e poi:
trasandata, stracciona, goffa, fumatrice, androgina, e asessuale,
abituata a dormire per terra e già torturata da martellanti
emicranie...: fu lì, e poi alla Normale, e poi al Servizio civile
internazionale nel Liechtenstein, e poi tra i pescatori della
Normandia, che la Weil condensò quel «desiderio di azione», quella
«gioia», quell’intransigenza morale, quell’impazienza e quella
frenesia che a volte assunsero perfino tratti caricaturali, che
Trozkij, suo ospite clandestino, giudicò con stupore e fastidio,
come tipici dell’Esercito della Salvezza, e che tra il ’31 e il
’34, la spinsero, professoressa di filosofia a Le Puy, a Auxerre, a
St. Etienne, a «scendere nelle miniere», a praticare in forme
estreme ed estremamente scandalose una sorta di iper-sindacalismo
esistenziale.
Il 4 dicembre 1934 entrò
in fabbrica, «si fece operaia» presso la Société de Constructions
électriques et mécaniques Alsthom, ripromettendosi di suicidarsi se
avesse fallito la prova e così motivando, molto significativamente,
la sua domanda di congedo: «È mio desiderio preparare una tesi di
filosofia sul rapporto tra la tecnica moderna, base della grande
industria, e gli aspetti essenziali della nostra civiltà, ossia, da
un lato, la nostra organizzazione sociale e, dall’altro, la nostra
cultura...».
Quello che la Weil
ricaverà dalla sua esperienza operaia, relativamente alla scienza,
diventata «mero gioco di segni», alla tecnica, ai misteri della
macchina, al corpo dell’operaio, alla stanchezza e alla spossatezza
(«il lavoro è come la morte...»), alle possibilità e alla
desiderabilità di una rivoluzione, agli apparati di partito e
sindacali, alla «vita moderna» e alla fame dei disoccupati, alle
illusioni dell’interiorità e della privatezza, al «sociale» e al
«politico», alla «distruzione del tempo»..., in generale ciò che
ricavò relativamente alla «cultura operaia» è più interessante
di quasi tutto ciò che su queste cose è stato scritto e detto prima
e dopo di lei. Ma per quanto la riguarda, è oltremodo interessante e
significativo che da quell’esperienza traesse un nuovo impulso
all’«addestramento» e a un’«etica del lavoro», accompagnato
da questa definitiva certezza: «Non potresti desiderare di essere
nata in epoca migliore di questa, in cui tutto è stato perduto...».
Nel 1932 aveva fatto un
viaggio in Germania e aveva descritto il Reich imminente, attirandosi
accuse di «disfattismo»; nel 1933 era stata in Spagna e aveva
intravisto la guerra vicina e il suo inedito contributo alla storia
dell’orrore: si faceva infilare spilli sotto le unghie per
addestrarsi alle torture... Georges Bataille, l’altro genio degli
anni Trenta francesi, la descrisse col cognome di Lazare (che «si
addiceva al suo aspetto macabro») nel romanzo L’azzurro del
cielo: «...Tutto, in lei, l’andatura a scatti e sonnambulica,
il tono della voce, la facoltà che aveva di proiettare intorno a sé
una specie di silenzio, la sua avidità di sacrificio contribuivano a
dar l’impressione che avesse contratto un patto con la morte...».
Nel 1936 tornò in
Spagna, militò tra le truppe anarchiche di Buenaventura Durruti,
riuscì a ferirsi mettendo un piede in una padella d’olio bollente,
e dopo un lungo ed estatico viaggio in Italia, tornò in Francia a
insegnare e ad aspettare la guerra vera: aveva capito subito che
quella di Spagna era una guerra preparatoria tra Urss, Germania e
Italia, non una guerra di liberazione o per la libertà.
A partire dall’autunno
del ’37 o dalla settimana santa del ’38, che passò nell’abbazia
benedettina di Solesnes, ebbe inizio la sua vicenda teologica, che
non fu soltanto una maniera di «vivere all’interno dell’anima»
e non fu una semplice adesione al cattolicesimo. Non si fece mai
battezzare, non accettò mai la Chiesa in quanto apparato, e se aveva
sempre mostrato freddezza e distacco verso la teologia ebraica (la
Weil e l’ebraismo: sarebbe un lungo capitolo), non aderì neppure
alle teologie della grazia cristiane, né positive né negative. Se
si confrontano le sue arruffate meditazioni religiose e le note su
Hitler prima e dopo l'Anschluss (Hitler come continuatore dell’impero
romano e come esaltatore perverso di elementi che erano già nella
civiltà politica e giuridica europea), la sua teologia appare
innanzitutto come una critica radicale, molto più radicale di tutte
le altre, al sistema di civiltà occidentale.
In un senso più
strettamente teologico. Blanchot nota, credo con ragione, che la Weil
ricuperò almeno una delle correnti della mistica ebraica, l’idea
per cui «il problema centrale della creazione è il problema del
nulla»: «È necessario che non ci sia niente, che il niente sia:
ecco il vero segreto e il mistero iniziale, un mistero che
dolorosamente comincia in Dio stesso, -— con un sacrificio, un
ritrarsi e una limitazione... Là dove c’è il mondo, c’ è un
doloroso difetto di Dio...».
Per De Gaulle era
pazza
Il problema era dunque
quello della «rinuncia», che la Weil associò all’idea «politica»
di «sventura» e a quella etica di «attenzione»: «La rinuncia in
noi è il vero Dio», e se noi trasformiamo l’abbandono passivo in
«abbandono attivo», se «ci diamo abbandonando», noi potremo
«riafferrare», come dice Blanchot, «tutto ciò che ci manca e
proprio in quanto ci manca...».
Quando scoppiò la
guerra, la Weil fuggì in Marocco, poi negli Stati Uniti, poi tornò
in Inghilterra, dove entrò in contatto con gli uomini di De Gaulle,
André Philip, Maurice Schumann... Si offrì per «una missione
segreta, di preferenza pericolosa» ed elaborò un «Progetto per una
formazione di infermiere di prima linea», che indusse De Gaulle ad
esclamare: «Ma è pazza!»... Sarebbe stato impensabile che non
fosse così e che tornasse in Francia a celebrare «la Liberazione»;
il «progresso» le appariva da tempo una mitizzazione delle forze
produttive; la scienza e la lunga storia della secolarizzazione
affidate a un destino di distruzione; la vittoria una lugubre
vendetta, e la pace un preludio alla guerra. Come aveva intuito
Bataille, il suo approdo non poteva essere che il sacrificio: «Ciò
che è oscuro è fonte di luce...».
E certo, il sacrificio,
come la nevrosi, è un arcaismo, generalmente attribuito alle società
barbariche; ma sfortunatamente nulla prova che questa attribuzione
sia lecita e che esso non sia, invece, ciò che cerchiamo di non
pensare: il baratro al tempo stesso dimenticato e per ora
ineliminabile che sta sotto alle piramidi della modernità. Così, se
non c’è nessuna ragione apparente di occuparsi della Weil, ce n’è
una essenziale, che purtroppo è sempre meno nascosta.
“la Repubblica”, 12
luglio 1981
Nessun commento:
Posta un commento