Vecchio pezzo, vivamente
consigliato. (S.L.L.)
Ogni volta che in questi
ultimi tempi sentivo blaterare di disunire l’Italia, la mia
reazione era quella di chi subisce un’offesa profonda. Non importa
che quei biechi spropositi venissero successivamente ridimensionati o
smentiti: il solo fatto di averli formulati era intollerabile. Ma che
cosa reagiva immediatamente in me? Qual era il punto sensibile? Quale
idea o sentimento del mio Paese? Devo rispondere: Dante, Machiavelli,
San Francesco, Michelangelo, Leopardi, Manzoni, Verdi... Non
Garibaldi, Mazzini, Cavour. La lingua, l’arte, la cultura, ben
prima e al di sopra della politica. Solo chi non ha amato i versi di
Dante, le chiese romaniche, i corpi e i volti che i nostri artisti
hanno fissato negli affreschi, nelle tele, nella pietra, nel bronzo,
solo chi non sente tutto questo come patrimonio fondamentale
dell’anima, può concepire di dividerlo e disperderlo, come farebbe
un bambino o un barbaro. Ma a parte la bruta ignoranza, l’abissale
incultura della nostra classe politica vecchia e nuova e di chi ci
governa dal video, che cosa resta di questo patrimonio nella società,
nella vita del Paese?
M'è capitato
recentemente di leggere i Taccuini di Camus, una sorta di
“diario di lavoro” dove i fatti privati prendono pochissimo
spazio. Paradossalmente le pagine più intime, di maggior abbandono
sentimentale, sono quelle che si riferiscono ai suoi viaggi in
Italia, tra il 1937 e il 1955. La lista degli scrittori e artisti
stranieri innamorati dell’Italia è lunghissima e prestigiosa:
l’inglese, il tedesco, lo scandinavo, cercano anzitutto e trovano
«il paese dove fioriscono i limoni e brillano le arance d’oro»,
come canta la Mignon di Goethe. Ma Camus non viene dal Nord, il sole
e il mare dell’Algeria sono stati il suo elemento nativo e
formativo. Ciò che più lo colpisce e l’affascina in Italia è il
rapporto miracolosamente armonico tra i tesori d’arte, il
paesaggio, gli abitanti. «Qui ogni città conta, col suo volto e la
sua verità profonda». Dal «volto» delle città a «quei gravi
volti di donna, improvvisamente sciolti in una risata».
Ancora:«Avviandomi verso Firenze, mi sono soffermato su certi volti,
ho bevuto certi sorrisi». Dopo aver visitato una mostra dedicata a
Giotto, constata che «i volti dei primitivi fiorentini sono gli
stessi che si incontrano per strada ogni giorno».
Ho citato dalle
impressioni del primo viaggio, di un Camus appena ventiquattrenne.
Quasi vent’anni dopo, ormai famoso, Camus torna in Italia per un
lungo giro di conferenze. «Mi sembrava che in Italia mi aspettassero
la mia giovinezza e nuove forze e la luce perduta». Si rinnova il
miracolo. Commozione, «gioia misteriosa», felicità. «Ora bisogna
cambiar vita». «Mi pento qui degli anni neri e stupidi che ho
vissuto a Parigi». Passeggiando sulla Via Appia, «mi sentivo con il
cuore talmente pieno che in quel momento sarei potuto morire».
L’anno successivo è
ancora in Italia. La pagina di congedo, di cui riporto qualche passo,
è una testimonianza d’ammirazione e d’amore così intensi e
incondizionati da riuscire perfino imbarazzanti. «Al termine della
mia vita vorrei tornare sulla strada che scende nella valle di San
Sepolcro, percorrerla lentamente, camminare fra i fragili ulivi e i
lunghi cipressi e trovare, in una casa dai muri spessi e dalle stanze
fresche, una camera nuda dalla cui st retta finestra io possa
guardare la sera che scende sulla vallata».
L’elenco dei luoghi che
desidera ritrovare prosegue con Arezzo e Gubbio. Non può fare a meno
di avvertire qualche elemento di disturbo: vorrebbe rivedere Assisi,
ma «senza turisti e senza Vespe», e Perugia «senza le case che le
costruiscono intorno»...
“Ma soprattutto,
soprattutto, rifare a piedi, con lo zaino sulle spalle, la strada da
Monte San Savino a Siena, costeggiare quella campagna di ulivi e di
viti, di cui sento ancora l’odore, percorrere quelle colline di
tufo bluastro che s’estendono sino all’orizzonte, e vedere allora
Siena sorgere nel sole che tramonta con tutti i suoi minareti, come
una perfetta Costantinopoli, arrivarci di notte, solo e senza soldi,
dormire accanto a una fontana ed essere il primo sul Campo a forma di
palmo, come una mano che offre ciò che l’uomo, dopo la Grecia, ha
fatto di più grande. Sì, vorrei rivedere la piazza inclinata di
Arezzo, la conchiglia del Campo di Siena e mangiare ancora i cocomeri
per le strade calde di Verona. Quando sarò vecchio, vorrei che mi
venisse concesso di tornare su quella strada di Siena, che non ha
eguali nel mondo, e di morirvi in un fossato, circondato soltanto
dalla bontà di quegli italiani sconosciuti che io amo”.
Non fosse morto nel ’60,
e della più moderna delle morti (incidente automobilistico), oggi
Camus avrebbe ottant’anni. Il Campo di Siena lo troverebbe ancora,
e Assisi, Gubbio, Urbino, Firenze... anche se, altro che Vespe! Altro
che quelle poche brutte case che quarantanni fa cominciavano a
deturpate una civiltà millenaria! Nelle chiese e nei musei ci sono
ancora i Duccio, i Donatello, i Masaccio, i Caravaggio. Ma gli uomini
e le donne? Escludo, ahimè, che Camus potrebbe riconoscere i tratti
di Giotto e di Piero nelle facce ebeti e soddisfatte del nuovo
italiano telecomandato.
Da Al di sotto della mischia. Scritti e saggi, Libri Scheiwiller, 2007
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