Nell’aprile del 1563
l’umanista ferrarese Giovan Battista Giraldi Cinzio giungeva nella
fredda Mondovì, con un viaggio compiuto in parte attraverso il Po e
reso travagliato da un naufragio. Era stato chiamato da Emanuele
Filiberto di Savoia a tenere corsi di letteratura, «con onorata
provisione», nello Studio monregalese. Ritornato in possesso del suo
Stato dopo l’occupazione francese, il Duca intendeva promuovere imo
sviluppo culturale che fosse all’altezza delle sue ambizioni
dinastiche e «italiane». Per questo aveva attirato da ogni parte
della penisola fior di intellettuali che illustrassero quella
università (ottenuta dai monregalesi a risarcimento dei perduti
privilegi sulla gabella del sale, sarà di lì a poco rivendicata,
con successo, da Torino, nuova capitale).
Giraldi Cinzio era
personaggio di chiara fama e versato in più arti. Da giovane era
stato tra i medici che si affaccendavano intorno a Lodovico Ariosto
morente. Era stato per lunghi anni lettore di retorica all’università
di Ferrara e intrinseco degli Estensi. I suoi scritti, soprattutto le
tragedie, correvano per l’Europa. Fu accolto in Piemonte con molti
riguardi, anche se l’idillio durò poco, perché il Duca non potè
astenersi dal riservare agli invadenti Gesuiti l’insegnamento delle
sue materie (nel 1569, si trasferirà, deluso, all’università di
Pavia). Ma nel gran fervore iniziale, completò una raccolta di
novelle alle quali attendeva da trent’anni. Videro così la luce, a
Mondovi, gli Ecatommiti,
cento novelle divise in dieci giornate e intrecciate con
dialoghi di varia natura, che intendevano rifarsi al Decameron
boccacciano di cui ripetevano la struttura: anche se la fuga dalla
città e il dilettevole intrattenimento non erano qui dovuti a una
pestilenza ma al sacco di Roma del 1527 a opera dei Lanzichenecchi.
La raccolta, che ebbe ai
suoi tempi grande diffusione, fu stroncata duramente dalla critica
idealistica (De Sanctis parlò di «Decamerone in putrefazione»). Le
imputarono povertà espressiva, esasperato gusto dell’orrore,
moralismo ipocrita. Diventò quasi il simbolo del Rinascimento maturo
e decadente, vicino a scivolare nel detestato Secentismo. Solo in
tempi recenti si è arrivati a un giudizio più equanime, a un
apprezzamento di cui ora è testimonianza la pubblicazione degli
Ecatommiti in edizione critica, nella pregevole collezione di
«Novellieri italiani» dell’editore Salerno (tre tomi a cura di
Susanna Villari). Gli studiosi hanno di che sbizzarrirsi, ma devono
in ogni caso tenere conto di un meritp incontestabile dell'opera,
tale da interessare una più larga cerchia di lettori. Contribuendo
alla gran voga ci quello che potremmo definire il made in Italy
culturale, gli Ecatommiti hanno lasciato tracce cospicue nelle
commedie di Lope de Vega e hanno ispirato due tragedie di
Shakespeare: Misura per misura e, con esiti particolarmente
suggestivi, Otello.
«Fu già in Venezia un
moro molto valoroso, il quale, per essere pro’ della persona e per
aver dato segno nelle cose della guerra, di gran prudenza e di vivace
ingegno, era molto caro a que’ signori...». Così comincia la
storia della folle gelosia che porta il Moro a uccidere l’incolpevole
Desdemona. Jago, Cassio e Otello in Giraldi non hanno nome, sono
definiti l’alfiero, il capo squadra, il moro; la sola eroina si
chiama Desdemona in entrambi i testi. È quasi un sigillo di comune
appartenenza in una trama che da Shakespeare, rispettando le linee
essenziali, viene profondamente arricchita e modificata.
Nella novella Desdemona
non viene uccisa con lo strangolamento ma con un macchinoso, orrifico
espediente: l'alfiero, in combutta con il moro, la tramortisce con
uria calza piena di sabbia e fa precipitare il soffitto della stanza
sul letto dove è stata adagiata. Così, Otello non si toglie la
vita, ma viene ucciso dopo altre traversie dai parenti della donna.
Soltanto all’alter ego di Jago viene riservata una stessa morte
sotto la tortura. Il racconto, nella sua nudità e sommarietà,
esercita un indubbio fascino. Certo si avvantaggia del riflesso
retroattivo di una storia diventata a pieno titolo shakespeariana. È
partita dall’Italia (per curiosi accidenti, dalla pedemontana
Mondovì) e all’Italia viene restituita dall’Otello musicato da
Rossini e poi da Verdi. Si mostra, anche per questa via, come sia
volatile e pervasivo il percorso dell’immaginazione creativa.
“La Stampa”, 11
gennaio 2013
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