Con la spavalderia e la
noncuranza del guappo, Harold Bloom sostiene che “la critica, o è
parte della letteratura o non è niente” (The Anxiety of
Influence, 1997). Il solenne motto tocca questioni care
all’americano, ma ne spillo il corollario che un buon saggio –
oltre a contenuti tersi e ad argomentazioni assennate – deve godere
d’uno stile inedito, d’un suo ritmo inimitabile. Per cominciare,
ciò andrebbe a vantaggio di chi legge; e poi perché “lo stile non
è altro che l’ordine e il movimento che si mette nei propri
pensieri”, come decretò tempo fa il conte di Buffon nel Discorso
sullo stile; un tipo di cui mi fido ché con la letteratura non
aveva molto a che fare. In Italia l’esempio più familiare e,
forse, insuperato, è quello di De Sanctis: “All’ingresso del
secolo incontriamo Machiavelli e l’Ariosto, come all’ingresso del
Trecento trovammo Dante. Machiavelli aveva già trentun anno, e
ventisei ne aveva l’Ariosto”. Come non lasciarsi frastornare e
allettare da un’apertura come questa, dove le tende del teatro
s’alzano su degli imprevisti giovanotti? Altrettanto esclusiva è
stata la maniera di Croce e Borgese, Cecchi, Debenedetti e Praz,
Solmi, Longhi, Macchia, Gramsci, del nobile Contini; più
recentemente, di Garboli (smodatamente esteta), del trascurato
Baldacci e, infine, di Citati: premiato infatti, insieme ad altri dei
nominati, con un “Meridiano” (La civiltà letteraria europea
da Omero a Nabokov, 2005). In una una comitiva a parte,
scrittori-critici come Moravia o Montale (perfetto e perfido),
Sciascia e Pasolini, oggi Montefoschi e Magris.
Epperò, alla resa dei
conti, i critici-scrittori sono fatti della stessa pasta degli
scrittori-critici, perché pure loro per mestiere sfruttano gli
affari altrui, invocano creature sepolte o forestiere, e con esse
hanno dei rapporti strampalati: senza distinzione tra creature
genuine e fantastiche, proprio come Dante che nomina uno dietro
l’altro Semiramide e Cleopatra, Elena e Achille, Paride e Tristano.
Qualcosa del genere avviene in Citati, per cui protagonisti, luoghi e
peripezie altrui, per quanto contraffatti o favolosi, risultano
comunque convenienti ad essere (ri-)narrati. Fin dalla prima
antologia, Il tè del cappellaio matto (1972), a parte ad aggiornare
il suo lettore, s’è proposto di sedurlo, riportando, al di là
dell’intreccio o dei casi dell’autore, anche i proprî
incantamenti. In quel libro la prova più appagata è data dal Cuore
arido di Cassola. Ha poi proseguito a rendere pubblici una serie di
libri ariosi e seducenti; devoti, di volta in volta, a opera magna e
a uomini e donne egregî. Tra i tanti, i più intriganti sono quelli
con dei titoli mondi, dei nomi paurosi e accecanti che andrebbero
acclamati senza posa, come un festone: Goethe Tolstoj Kafka Leopardi.
Si giunge alla conclusione che la misura più conveniente per Citati
non sia quella del “romanzo” – così vanno definite le
monografie – ma quella breve del “racconto”, cioè le
recensioni, i ritratti, le note sparsi sui giornali. Fedele a sé
stesso, lo scrittore li accumula e poi li mette insieme, con
un’impalcatura messa a punto: un personale cunto de li cunti che si
affida alle atmosfere seduttive del “c’era una volta”. Anche
nell’ultima collezione, Il silenzio e l’abisso
(Mondadori, 2018), ogni pezzo, per quanto autonomo, risolto,
soddisfatto della propria condizione, si completa in quella sede. Il
titolo, come nella Certosa, s’intuirà solamente al termine.
Per l’allestimento
Citati non privilegia né il sillabario, né il journal, che
sovente è un atto di superbia. Preferisce praticare l’indifferente
campione desanctisiano, sebbene egli parta da luoghi più remoti e da
miti antichissimi. Se anche Citati però, come De Sanctis, creda a un
sicuro progresso, non è chiaro; tuttavia nel finale, dopo gli eventi
spietati e sciagurati del Novecento, si avverte con il Don Milani
almeno la lusinga dell’illusione. Gli episodî più affascinanti
sono quelli dedicati a san Francesco e a Lorenzo de’ Medici,
esaltato per la sua scaltrezza; con il Tristram Shandy riesce
a dire con invidiabile franchezza qualcosa sull’Inghilterra (di
allora e magari d’oggi): “un paese inquieto, bizzarro, sregolato,
eccentrico”. La parte più commossa e turbata è quella del retablo
per Dostoevskji che, a dire di Citati, forse “non era vanitoso, ma
solo cosciente del proprio talento, in un ambiente che non lo
comprendeva e non lo riconosceva”. I cinque paragrafi sullo
scrittore russo sono, in pratica, una breve ma veridica biografia da
pubblicare a sé come strenna.
Selezionando i classici,
si potrebbe avere l’impressione che Citati abbia costruito un
museo, ma non è così. In verità, una scelta talmente severa è un
giudizio sull’attualità, un rimprovero; e, del resto, come metteva
in guardia Segre: “Guai se la critica si occupasse solo della
contemporaneità, lasciando il passato agli eruditi” (Critica e
critici, 2012). E poi Citati non ne è per niente intimorito,
anzi, il suo understatement, tipico di molti galantuomini
siciliani, si scioglie in non pochi ragionamenti spassosissimi.
Riedizione, dunque, di storie (storie di libri, beninteso) che a
volte si accentrano sulla trama e le gesta dei personaggi; e altre,
ben volentieri, si adunano attorno allo scrittore. Il
critico-scrittore, insomma, non sa se essere con o contro
Sainte-Beuve. A sorreggerlo nella scelta è l’opportunità e lo
sguardo, anch’esso mutevole ed efficiente, capace di adattarsi alla
situazione. E poi c’è, dicevo, lo stile. Il tono brioso del passo
su Sterne si mette da parte quando è vantaggioso essere quieti o
addirittura mesti, come con Virginia Woolf. L’amplissima eleganza,
la puntualità del tecnico, la lussuria del pettegolezzo vengono
sottolineate dall’uso malizioso, e a volte sibillino, dei due
punti: quasi un sigillo come il circonflesso di Contini.
Il rischio di tanto
talento, manco a dirlo, è quello dell’autoritratto; ma che ben
venga. A me è rimasta l’immagine d’un uomo “cortese e ardito,
ma sdegnoso e solitario e intento allo studio” (Dino Compagni su
Cavalcanti nella Cronica). Un volto, si capisce, affatto
libresco e demodé.
L'Indice, marzo 2019 - G.
Cascio insegna letteratura italiana all’Università di Utrecht
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