1.
Il 2019 è il centenario
della nascita di Primo Levi. Negli ultimi anni, gli studi sulla sua
opera hanno fatto molti progressi: se Levi era già da tempo un
autore canonico (prima di tutto nelle scuole), ora è anche uno degli
autori meglio conosciuti, interpretati e tradotti. Quest’anno, la
sua figura e i suoi scritti sono al centro d’iniziative culturali
(come la lettura dedicata da Fabrizio Gifuni a Se questo è un
uomo e I sommersi e i salvati, nel campo di Fossoli,
presso Carpi, dove Levi e molti altri deportati italiani furono
internati prima di essere trasferiti ad Auschwitz) e progetti
scientifico-celebrativi (è in programma all’Università di Padova
una lettura del Sistema periodico, in cui si alterneranno
specialisti e no; mentre le riviste «Allegoria» e «doppiozero»
preparano rispettivamente un dossier su I sommersi e i salvati
e un ‘lemmario’ leviano).
Si arriva dunque
preparati a questo centenario? No, purtroppo no. O meglio:
all’impegno sul piano critico e culturale non corrisponde una
consapevolezza civile condivisa. La situazione sembra rovesciata
rispetto a qualche decennio fa. Per molto tempo, infatti, la critica
letteraria ha fatto fatica a riconoscere e trattare Levi come uno
scrittore nel senso pieno del termine, mentre il valore universale
della sua testimonianza e la drammaticità della sua esperienza erano
fuori discussione. Non era pensabile mettere in dubbio quel valore
dall’interno di una comunità civile che, al netto delle differenze
e dei dissensi, riconosceva almeno dei tabù. Oggi invece si discute,
eccome. Sarà la violenza di pochi, sarà – speriamo – la
reazione di una minoranza rumorosa; ma si deve prendere atto che
negli ultimi tempi è avvenuto qualcosa di nuovo e negativo che ci
interpella. Il fatto emblematico è accaduto pochi giorni fa. Durante
la puntata di “Fahrenheit” dedicata a Levi, andata in onda su
Radio 3 lo scorso 21 febbraio, alcuni ascoltatori hanno manifestato
insofferenza e rifiuto: «basta con questi ebrei», «dovete fare
cultura, non politica». La conduttrice Loredana Lipperini ha deciso
di non censurare queste frasi e di leggerle in trasmissione. Ha fatto
bene: lo spazio concesso a quegli interventi non asseconda la finta
democrazia che confonde il diritto di parola con la libertà di
offesa e menzogna. Lipperini ha voluto portare alla luce un problema.
È probabile che quelle parole non venissero da un fervente
negazionista, né da un neofascista. O meglio: è probabile che
quegli ascoltatori non manifestino i sintomi esteriori di quelle
malattie sociali, pur covandone i germi. In ogni modo, sono opinioni
di persone che seguono la principale trasmissione culturale italiana
e che si prendono la briga di intervenire a proposito di uno
scrittore. Non sono liquidabili, insomma, come la voce dell’altro,
del nemico, e neanche dell’ignorante o dello stolto.
Per replicare occorre
perciò capire e uno dei modi migliori per farlo è continuare a
leggere Primo Levi (e farne leggere l’opera in ogni occasione
possibile). Tutto Levi, perché la sua peculiarità, nell’ambito
vastissimo della cosiddetta Holocaust Literature, non consiste
tanto nell’aver testimoniato, quanto nell’aver anche raccontato,
elaborato, interpretato l’esperienza, dandole un valore ‘figurale’:
per Levi, cioè, la Shoah resta sempre l’evento concreto, puntuale
e incommensurabile; ma insieme è anche una condizione emblematica,
teoricamente ripetibile perché legata a istinti biologici. La
maggior parte dei testimoni ha parlato di sé di fronte all’estremo;
Levi ha parlato di sé e dell’essere umano coinvolto in una
«esperienza biologica e sociale» (Se questo è un uomo, in
Opere complete, 3 voll. a cura di M. Belpoliti, Torino, Einaudi
2016-2018: vol. I, p. 206).
In un capitolo del suo
ultimo libro, I sommersi e i salvati (1986), Levi parla degli
stereotipi. Esiste una spaccatura, dice, che si va allargando di
anno in anno, fra le cose com’erano «laggiù» e le cose quali
vengono rappresentate dalla immaginazione corrente, alimentata da
libri, film e miti approssimativi. Essa, fatalmente, slitta verso la
semplificazione e lo stereotipo; vorrei porre qui un argine contro
questa deriva. (Opere complete, II, pp. 1246-7)
È possibile considerare
frasi quali «basta con questi ebrei» (o peggio: «sono decenni che
rompono i coglioni con la Shoah»: Vittorio Feltri, in collegamento
con “La Zanzara” su Radio 24, 14 febbraio 2019) un esito estremo
della deriva preconizzata da Levi? Il politicamente scorretto e lo
scatenamento degli istinti xenofobi, oggi diffusi e rivendicati,
concimano un terreno già arato dagli stereotipi? Credo che in parte
sia così, e che in parte dipenda invece dalla fine dell’interdizione
morale, e in certi casi politica, contro l’antisemitismo, che
ancora resisteva nello spazio abitato dal decoro civile.
Così ora perfino
l’autore di Se questo è un uomo è esposto ai travisamenti
e alle contestazioni, alla malafede e alle radicalizzazioni. Ma se
c’è uno scrittore che insegna a tenersi a distanza dalle trappole
dell’istinto e dall’abbandono all’irrazionale, quello è
proprio Levi. Perciò deve essere sottratto alla dinamica
attacco/reazione, turpitudine/sdegno in cui rischiano di farlo
precipitare gli umori instabili di questi anni. Non perché Levi sia
un’icona da venerare, ma perché fornisce un esempio di analisi
razionale, e perciò difficile, di alcune dinamiche storiche ed
esistenziali che ci riguardano.
2.
Tra gli oggetti più
delicati della riflessione di Levi c’è la cosiddetta «zona
grigia» dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i
due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna
incredibilmente complicata, ed alberga in sé quanto basta per
confondere il nostro bisogno di giudicare. (I sommersi e i
salvati, Opere complete, II, p. 1168)
Di recente, è tornata
sulla questione Donatella Di Cesare, intellettuale tra le più lucide
e impegnate che ci siano oggi in Italia, importante studiosa di Shoah
(basti citare qui il saggio Se Auschwitz è nulla. Contro il
negazionismo, Genova, Il melangolo 2012). I suoi studi sono un
baluardo contro l’antisemitismo e la xenofobia. In un articolo
comparso nel «Corriere della Sera» del 18 gennaio 2019 (p. 31), Di
Cesare rievoca la figura di Shlomo Venezia, membro dei
Sonderkommandos sopravvissuto ad Auschwitz, che ha raccontato la sua
esperienza in un libro terribile e straordinario (Sonderkommando
Auschwitz, a cura di Marcello Pezzetti e Umberto Gentiloni
Silveri, da un’intervista di Béatrice Prasquier, Milano, Rizzoli
2007, nuova ed. 2018). Di Cesare sottolinea l’unicità della
testimonianza di Venezia, diversa da tutte le altre, anche da quella
di Levi, che non vide direttamente le Squadre speciali in azione,
tanto è vero che, appena uscito dal Lager, dette al riguardo
informazioni inesatte e di seconda mano, contenute nel Rapporto
sulla organizzazione igienico-sanitaria del Campo di concentramento
per Ebrei di Monowitz scritto insieme a Leonardo de Benedetti. Ma
ancora nei Sommersi e i salvati, Levi scriveva che, tra i
deportati di Monowitz circolavano «voci vaghe e monche», che
rendevano «difficile costruirsi un’immagine di “cosa volesse
dire” essere costretti ad esercitare per mesi questo mestiere»
(Opere complete, II, p. 1175).
L’articolo di Di
Cesare, tuttavia, non si limita a rilevare una differenza ma impone
un contrasto.
È tempo –
scrive Di Cesare – di sollevare una questione troppo a lungo
tabuizzata. Shlomo Venezia ha rivelato il suo «terribile segreto»
solo dopo la morte di Primo Levi, che aveva puntato l’indice contro
i membri delle Squadre speciali ricorrendo a termini molto duri, a
verdetti non di rado sprezzanti. Proprio in quel contesto aveva
coniato l’espressione «zona grigia» con cui rinviava alla
«complicità» di coloro che erano stati costretti alla colpa. Aveva
ragione quando scrisse che le Squadre erano state «il delitto più
demoniaco del nazionalsocialismo». Ma per il resto lui, che parlava
da Auschwitz-Monowitz, campo di concentramento, non di sterminio,
avrebbe dovuto forse rivedere il suo giudizio a partire dalla
testimonianza di Shlomo Venezia.
Il titolo dell’articolo
(Shlomo nel Sonderkommando. Il destino che Primo Levi non capì)
richiama l’attenzione proprio sul contrasto tra i due testimoni. Le
parole di De Cesare fanno riflettere, ma – forse anche a causa
della brevità cui spesso obbligano gli spazi dell’articolo in un
quotidiano – semplificano le considerazioni di Primo Levi,
suggerendone un’interpretazione parziale. È utile allora rileggere
quello che Levi ha davvero scritto sulle Squadre speciali,
cominciando dal capitolo «La zona grigia» dei Sommersi e i
salvati, già citato poco sopra:
Un caso-limite di
collaborazione è rappresentato dai Sonderkommandos di Auschwitz e
degli altri Lager di sterminio. Qui si esita a parlare di privilegio:
chi ne faceva parte era privilegiato solo in quanto (ma a quale
costo!) per qualche mese mangiava a sufficienza, non certo perché
potesse essere invidiato. Con questa denominazione debitamente vaga,
‘Squadra Speciale’, veniva indicato dalle SS il gruppo di
prigionieri a cui era affidata la gestione dei crematori. A loro
spettava mantenere l’ordine fra i nuovi arrivati (spesso del tutto
inconsapevoli del destino che li attendeva) che dovevano essere
introdotti nelle camere a gas; estrarre dalle camere i cadaveri;
cavare i denti d’oro dalle mascelle; tagliare i capelli femminili;
smistare e classificare gli abiti, le scarpe, il contenuto dei
bagagli; trasportare i corpi ai crematori e sovraintendere al
funzionamento dei forni; estrarre ed eliminare le ceneri. La Squadra
Speciale di Auschwitz contava, a seconda dei periodi, da 700 a 1000
effettivi. Queste Squadre Speciali non sfuggivano al destino di
tutti; anzi, da parte delle SS veniva messa in atto ogni diligenza
affinché nessun uomo che ne avesse fatto parte potesse sopravvivere
e raccontare. Ad Auschwitz si succedettero dodici squadre; ognuna
rimaneva in funzione qualche mese, poi veniva soppressa, ogni volta
con un artificio diverso per prevenire eventuali resistenze, e la
squadra successiva, come iniziazione, bruciava i cadaveri dei
predecessori. L’ultima squadra, nell’ottobre 1944, si ribellò
alle SS, fece saltare uno dei crematori e fu sterminata in un
diseguale combattimento […]. (Opere complete, II, p.
1173)
Più avanti, Levi usa in
effetti un’espressione che può apparire sprezzante: «miserabili
manovali della strage». Occorre leggere però l’intero brano in
cui questa definizione compare. Nei confronti dei ‘miserabili’
(nel senso di ‘miserevoli’?), Levi non esprime né sollecita
alcun giudizio:
Quelli di cui
sappiamo, i miserabili manovali della strage, sono dunque gli altri,
quelli che di volta in volta preferirono qualche settimana in più di
vita (quale vita!) alla morte immediata, ma che in nessun caso si
indussero, o furono indotti, ad uccidere di propria mano. Ripeto:
credo che nessuno sia autorizzato a giudicarli, non chi ha conosciuto
l’esperienza del Lager, tanto meno chi non l’ha conosciuta.
(Opere complete, II, pp. 1179-80)
D’altra parte, già in
Se questo è un uomo Levi aveva menzionato i Sonderkommandos,
riconoscendo ai ribelli che avevano fatto saltare i crematori di
Birkenau, accomunati nel destino agli altri prigionieri, una forza e
un coraggio superiori:
Il mese scorso, uno
dei crematori di Birkenau è stato fatto saltare. Nessuno di noi sa
(e forse nessuno saprà mai) come esattamente l’impresa sia stata
compiuta: si parla del Sonderkommando, del Kommando Speciale addetto
alle camere a gas e ai forni, che viene esso stesso periodicamente
sterminato, e che viene tenuto scrupolosamente segregato dal resto
del campo. Resta il fatto che a Birkenau qualche centinaio di uomini,
di schiavi inermi e spossati come noi, hanno trovato in se stessi la
forza di agire, di maturare i frutti del loro odio. (Opere
complete, I, p. 257)
Levi già sapeva (e lo ha
scritto) che se nel Lager «c’è stata resistenza, se c’è stata
rivolta, ciò è avvenuto grazie ai membri del Sondekommando», come
ricorda Di Cesare. Lo scrittore lo ripeté anche in uno scritto
uscito nei «Quaderni del Centro di studi sulla deportazione e
l’internamento», n. 3, 1966:
Il più importante
episodio di ribellione attiva alla potenza nazista nei campi di
sterminio è l’insurrezione del Sonderkommando di
Auschwitz-Birkenau, nell’ottobre del 1944: episodio tragico e
sinistro, i cui precisi particolari mai saranno noti poiché tutti i
protagonisti furono sterminati. (Opere complete, II, p.
1340)
Sono rare le occasioni in
cui Levi si espresse in termini un po’ più aspri. Tra queste,
risalta un dialogo nella versione drammatica di Se questo è un
uomo
Aldo: Cos’è
il Sonderkommando?
Goldner:
È la squadra dei disperati: mille uomini, quelli che fanno
funzionare le camere a gas e i forni. Mangiano bene, hanno soldi,
alcool, tabacco: ma ogni tre mesi finiscono anche loro in gas, e lo
sanno. Sono robusti e ben nutriti. Si capisce che abbiano avuto la
forza di ribellarsi. (Opere complete, I, p. 1249)
Si può pensare che
l’esigenza di caratterizzare anche espressivamente i personaggi
abbia favorito una formulazione più brusca. Ma in effetti Levi si
espresse in termini molto simili ancora diversi anni dopo, nel corso
dell’intervista a Rita Caccamo e Manuela Olagnero (in
«mondoperaio», XXXVII, marzo 1984, n. 3):
Costoro, grazie a
questo lavoro spaventoso, vivevano bene, ma avevano garantito il
benessere, non la vita. Mangiavano bene, oltretutto avevano mano
libera su anelli, denti d’oro, su tutto quello che trovavano
addosso ai cadaveri: quindi erano ricchi. In più avevano
un’alimentazione sovrabbondante con alcool, sigarette; dormivano in
letti e così via. Però venivano uccisi periodicamente. (Opere
complete, II, p. 436)
Anche qui, però, non è
tanto il disprezzo che emerge e prevale, quanto la questione del
senso di colpa (che, come Levi sapeva e spiegò, coinvolge le vittime
non meno dei veri colpevoli). Nella stessa intervista si legge
infatti:
Gli uccisi venivano
sostituiti con una nuova squadra di manovali della morte. Di questi
addetti alla zona del Kommando se ne sono salvati pochissimi, forse
addirittura cinque o sei. Il caso di questi superstiti rappresenta il
limite estremo cui il senso di colpa può giungere. (Ibidem)
«Non ho più avuto una
vita normale. […] Non si esce mai, per davvero, dal Crematorio».
Con queste parole si chiude il memoriale di Shlomo Venezia, a riprova
del fatto che la colpa più inespiabile è quella che viene
ingiustamente attribuita. Ma non credo che sia stato Levi a ergersi a
giudice ed emettere sentenze di colpevolezza, specialmente nei
confronti di altri prigionieri che non poteva considerare estranei,
avversari e tantomeno carnefici. Se descrive gli uomini delle Squadre
speciali come «abbrutiti» è per metterne in luce la condizione di
vittime; se si chiede come mai non si ribellarono, non fa che
ripetere nei loro confronti la stessa domanda che tante volte era
stata fatta a lui:
Fra le domande che ci
vengono poste ce n’è una che non manca mai; anzi, a mano a mano
che gli anni passano, essa viene formulata con sempre maggiore
insistenza, e con un sempre meno celato accento di accusa. Più che
una domanda singola, è una famiglia di domande. Perché non siete
fuggiti? Perché non vi siete ribellati? Perché non vi siete
sottratti alla cattura «prima»? (Stereotipi, Opere
complete, II, p. 1242)
La zona grigia è
terribile proprio perché sbiadisce i confini tra il nero e il
bianco, non separa nettamente i responsabili dagli innocenti, ‘noi’
da ‘loro’. Il «limite estremo» raggiunto dal Sonderkommando è
un grado ulteriore sulla stessa scala in cui Levi stesso sapeva di
trovarsi, condividendo il senso di colpa di ogni sopravvissuto. È
questa «la natura insanabile dell’offesa» di cui si parla nella
Tregua.
A chi dice «basta con
questi ebrei, basta con la Shoah», contrapponendo ‘cultura’ e
‘politica’, bisogna far capire che Primo Levi e Shlomo Venezia,
toccando o vedendo quel «limite estremo», hanno indicato anche il
confine ultimo della natura umana. Crediamo davvero di poter fare a
meno di quell’avvertimento? Vogliamo provare di persona cosa c’è
oltre quel confine?
Dal sito Le parole e
le cose2
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