11.3.19

Dovuto a Primo Levi. Nel centenario della nascita (Niccolò Scaffai)


1.
Il 2019 è il centenario della nascita di Primo Levi. Negli ultimi anni, gli studi sulla sua opera hanno fatto molti progressi: se Levi era già da tempo un autore canonico (prima di tutto nelle scuole), ora è anche uno degli autori meglio conosciuti, interpretati e tradotti. Quest’anno, la sua figura e i suoi scritti sono al centro d’iniziative culturali (come la lettura dedicata da Fabrizio Gifuni a Se questo è un uomo e I sommersi e i salvati, nel campo di Fossoli, presso Carpi, dove Levi e molti altri deportati italiani furono internati prima di essere trasferiti ad Auschwitz) e progetti scientifico-celebrativi (è in programma all’Università di Padova una lettura del Sistema periodico, in cui si alterneranno specialisti e no; mentre le riviste «Allegoria» e «doppiozero» preparano rispettivamente un dossier su I sommersi e i salvati e un ‘lemmario’ leviano).
Si arriva dunque preparati a questo centenario? No, purtroppo no. O meglio: all’impegno sul piano critico e culturale non corrisponde una consapevolezza civile condivisa. La situazione sembra rovesciata rispetto a qualche decennio fa. Per molto tempo, infatti, la critica letteraria ha fatto fatica a riconoscere e trattare Levi come uno scrittore nel senso pieno del termine, mentre il valore universale della sua testimonianza e la drammaticità della sua esperienza erano fuori discussione. Non era pensabile mettere in dubbio quel valore dall’interno di una comunità civile che, al netto delle differenze e dei dissensi, riconosceva almeno dei tabù. Oggi invece si discute, eccome. Sarà la violenza di pochi, sarà – speriamo – la reazione di una minoranza rumorosa; ma si deve prendere atto che negli ultimi tempi è avvenuto qualcosa di nuovo e negativo che ci interpella. Il fatto emblematico è accaduto pochi giorni fa. Durante la puntata di “Fahrenheit” dedicata a Levi, andata in onda su Radio 3 lo scorso 21 febbraio, alcuni ascoltatori hanno manifestato insofferenza e rifiuto: «basta con questi ebrei», «dovete fare cultura, non politica». La conduttrice Loredana Lipperini ha deciso di non censurare queste frasi e di leggerle in trasmissione. Ha fatto bene: lo spazio concesso a quegli interventi non asseconda la finta democrazia che confonde il diritto di parola con la libertà di offesa e menzogna. Lipperini ha voluto portare alla luce un problema. È probabile che quelle parole non venissero da un fervente negazionista, né da un neofascista. O meglio: è probabile che quegli ascoltatori non manifestino i sintomi esteriori di quelle malattie sociali, pur covandone i germi. In ogni modo, sono opinioni di persone che seguono la principale trasmissione culturale italiana e che si prendono la briga di intervenire a proposito di uno scrittore. Non sono liquidabili, insomma, come la voce dell’altro, del nemico, e neanche dell’ignorante o dello stolto.
Per replicare occorre perciò capire e uno dei modi migliori per farlo è continuare a leggere Primo Levi (e farne leggere l’opera in ogni occasione possibile). Tutto Levi, perché la sua peculiarità, nell’ambito vastissimo della cosiddetta Holocaust Literature, non consiste tanto nell’aver testimoniato, quanto nell’aver anche raccontato, elaborato, interpretato l’esperienza, dandole un valore ‘figurale’: per Levi, cioè, la Shoah resta sempre l’evento concreto, puntuale e incommensurabile; ma insieme è anche una condizione emblematica, teoricamente ripetibile perché legata a istinti biologici. La maggior parte dei testimoni ha parlato di sé di fronte all’estremo; Levi ha parlato di sé e dell’essere umano coinvolto in una «esperienza biologica e sociale» (Se questo è un uomo, in Opere complete, 3 voll. a cura di M. Belpoliti, Torino, Einaudi 2016-2018: vol. I, p. 206).
In un capitolo del suo ultimo libro, I sommersi e i salvati (1986), Levi parla degli stereotipi. Esiste una spaccatura, dice, che si va allargando di anno in anno, fra le cose com’erano «laggiù» e le cose quali vengono rappresentate dalla immaginazione corrente, alimentata da libri, film e miti approssimativi. Essa, fatalmente, slitta verso la semplificazione e lo stereotipo; vorrei porre qui un argine contro questa deriva. (Opere complete, II, pp. 1246-7)
È possibile considerare frasi quali «basta con questi ebrei» (o peggio: «sono decenni che rompono i coglioni con la Shoah»: Vittorio Feltri, in collegamento con “La Zanzara” su Radio 24, 14 febbraio 2019) un esito estremo della deriva preconizzata da Levi? Il politicamente scorretto e lo scatenamento degli istinti xenofobi, oggi diffusi e rivendicati, concimano un terreno già arato dagli stereotipi? Credo che in parte sia così, e che in parte dipenda invece dalla fine dell’interdizione morale, e in certi casi politica, contro l’antisemitismo, che ancora resisteva nello spazio abitato dal decoro civile.
Così ora perfino l’autore di Se questo è un uomo è esposto ai travisamenti e alle contestazioni, alla malafede e alle radicalizzazioni. Ma se c’è uno scrittore che insegna a tenersi a distanza dalle trappole dell’istinto e dall’abbandono all’irrazionale, quello è proprio Levi. Perciò deve essere sottratto alla dinamica attacco/reazione, turpitudine/sdegno in cui rischiano di farlo precipitare gli umori instabili di questi anni. Non perché Levi sia un’icona da venerare, ma perché fornisce un esempio di analisi razionale, e perciò difficile, di alcune dinamiche storiche ed esistenziali che ci riguardano.

2.
Tra gli oggetti più delicati della riflessione di Levi c’è la cosiddetta «zona grigia» dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna incredibilmente complicata, ed alberga in sé quanto basta per confondere il nostro bisogno di giudicare. (I sommersi e i salvati, Opere complete, II, p. 1168)
Di recente, è tornata sulla questione Donatella Di Cesare, intellettuale tra le più lucide e impegnate che ci siano oggi in Italia, importante studiosa di Shoah (basti citare qui il saggio Se Auschwitz è nulla. Contro il negazionismo, Genova, Il melangolo 2012). I suoi studi sono un baluardo contro l’antisemitismo e la xenofobia. In un articolo comparso nel «Corriere della Sera» del 18 gennaio 2019 (p. 31), Di Cesare rievoca la figura di Shlomo Venezia, membro dei Sonderkommandos sopravvissuto ad Auschwitz, che ha raccontato la sua esperienza in un libro terribile e straordinario (Sonderkommando Auschwitz, a cura di Marcello Pezzetti e Umberto Gentiloni Silveri, da un’intervista di Béatrice Prasquier, Milano, Rizzoli 2007, nuova ed. 2018). Di Cesare sottolinea l’unicità della testimonianza di Venezia, diversa da tutte le altre, anche da quella di Levi, che non vide direttamente le Squadre speciali in azione, tanto è vero che, appena uscito dal Lager, dette al riguardo informazioni inesatte e di seconda mano, contenute nel Rapporto sulla organizzazione igienico-sanitaria del Campo di concentramento per Ebrei di Monowitz scritto insieme a Leonardo de Benedetti. Ma ancora nei Sommersi e i salvati, Levi scriveva che, tra i deportati di Monowitz circolavano «voci vaghe e monche», che rendevano «difficile costruirsi un’immagine di “cosa volesse dire” essere costretti ad esercitare per mesi questo mestiere» (Opere complete, II, p. 1175).
L’articolo di Di Cesare, tuttavia, non si limita a rilevare una differenza ma impone un contrasto.
È tempo – scrive Di Cesare – di sollevare una questione troppo a lungo tabuizzata. Shlomo Venezia ha rivelato il suo «terribile segreto» solo dopo la morte di Primo Levi, che aveva puntato l’indice contro i membri delle Squadre speciali ricorrendo a termini molto duri, a verdetti non di rado sprezzanti. Proprio in quel contesto aveva coniato l’espressione «zona grigia» con cui rinviava alla «complicità» di coloro che erano stati costretti alla colpa. Aveva ragione quando scrisse che le Squadre erano state «il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo». Ma per il resto lui, che parlava da Auschwitz-Monowitz, campo di concentramento, non di sterminio, avrebbe dovuto forse rivedere il suo giudizio a partire dalla testimonianza di Shlomo Venezia.
Il titolo dell’articolo (Shlomo nel Sonderkommando. Il destino che Primo Levi non capì) richiama l’attenzione proprio sul contrasto tra i due testimoni. Le parole di De Cesare fanno riflettere, ma – forse anche a causa della brevità cui spesso obbligano gli spazi dell’articolo in un quotidiano – semplificano le considerazioni di Primo Levi, suggerendone un’interpretazione parziale. È utile allora rileggere quello che Levi ha davvero scritto sulle Squadre speciali, cominciando dal capitolo «La zona grigia» dei Sommersi e i salvati, già citato poco sopra:
Un caso-limite di collaborazione è rappresentato dai Sonderkommandos di Auschwitz e degli altri Lager di sterminio. Qui si esita a parlare di privilegio: chi ne faceva parte era privilegiato solo in quanto (ma a quale costo!) per qualche mese mangiava a sufficienza, non certo perché potesse essere invidiato. Con questa denominazione debitamente vaga, ‘Squadra Speciale’, veniva indicato dalle SS il gruppo di prigionieri a cui era affidata la gestione dei crematori. A loro spettava mantenere l’ordine fra i nuovi arrivati (spesso del tutto inconsapevoli del destino che li attendeva) che dovevano essere introdotti nelle camere a gas; estrarre dalle camere i cadaveri; cavare i denti d’oro dalle mascelle; tagliare i capelli femminili; smistare e classificare gli abiti, le scarpe, il contenuto dei bagagli; trasportare i corpi ai crematori e sovraintendere al funzionamento dei forni; estrarre ed eliminare le ceneri. La Squadra Speciale di Auschwitz contava, a seconda dei periodi, da 700 a 1000 effettivi. Queste Squadre Speciali non sfuggivano al destino di tutti; anzi, da parte delle SS veniva messa in atto ogni diligenza affinché nessun uomo che ne avesse fatto parte potesse sopravvivere e raccontare. Ad Auschwitz si succedettero dodici squadre; ognuna rimaneva in funzione qualche mese, poi veniva soppressa, ogni volta con un artificio diverso per prevenire eventuali resistenze, e la squadra successiva, come iniziazione, bruciava i cadaveri dei predecessori. L’ultima squadra, nell’ottobre 1944, si ribellò alle SS, fece saltare uno dei crematori e fu sterminata in un diseguale combattimento […]. (Opere complete, II, p. 1173)
Più avanti, Levi usa in effetti un’espressione che può apparire sprezzante: «miserabili manovali della strage». Occorre leggere però l’intero brano in cui questa definizione compare. Nei confronti dei ‘miserabili’ (nel senso di ‘miserevoli’?), Levi non esprime né sollecita alcun giudizio:
Quelli di cui sappiamo, i miserabili manovali della strage, sono dunque gli altri, quelli che di volta in volta preferirono qualche settimana in più di vita (quale vita!) alla morte immediata, ma che in nessun caso si indussero, o furono indotti, ad uccidere di propria mano. Ripeto: credo che nessuno sia autorizzato a giudicarli, non chi ha conosciuto l’esperienza del Lager, tanto meno chi non l’ha conosciuta. (Opere complete, II, pp. 1179-80)
D’altra parte, già in Se questo è un uomo Levi aveva menzionato i Sonderkommandos, riconoscendo ai ribelli che avevano fatto saltare i crematori di Birkenau, accomunati nel destino agli altri prigionieri, una forza e un coraggio superiori:
Il mese scorso, uno dei crematori di Birkenau è stato fatto saltare. Nessuno di noi sa (e forse nessuno saprà mai) come esattamente l’impresa sia stata compiuta: si parla del Sonderkommando, del Kommando Speciale addetto alle camere a gas e ai forni, che viene esso stesso periodicamente sterminato, e che viene tenuto scrupolosamente segregato dal resto del campo. Resta il fatto che a Birkenau qualche centinaio di uomini, di schiavi inermi e spossati come noi, hanno trovato in se stessi la forza di agire, di maturare i frutti del loro odio. (Opere complete, I, p. 257)
Levi già sapeva (e lo ha scritto) che se nel Lager «c’è stata resistenza, se c’è stata rivolta, ciò è avvenuto grazie ai membri del Sondekommando», come ricorda Di Cesare. Lo scrittore lo ripeté anche in uno scritto uscito nei «Quaderni del Centro di studi sulla deportazione e l’internamento», n. 3, 1966:
Il più importante episodio di ribellione attiva alla potenza nazista nei campi di sterminio è l’insurrezione del Sonderkommando di Auschwitz-Birkenau, nell’ottobre del 1944: episodio tragico e sinistro, i cui precisi particolari mai saranno noti poiché tutti i protagonisti furono sterminati. (Opere complete, II, p. 1340)
Sono rare le occasioni in cui Levi si espresse in termini un po’ più aspri. Tra queste, risalta un dialogo nella versione drammatica di Se questo è un uomo
Aldo: Cos’è il Sonderkommando?
Goldner: È la squadra dei disperati: mille uomini, quelli che fanno funzionare le camere a gas e i forni. Mangiano bene, hanno soldi, alcool, tabacco: ma ogni tre mesi finiscono anche loro in gas, e lo sanno. Sono robusti e ben nutriti. Si capisce che abbiano avuto la forza di ribellarsi. (Opere complete, I, p. 1249)
Si può pensare che l’esigenza di caratterizzare anche espressivamente i personaggi abbia favorito una formulazione più brusca. Ma in effetti Levi si espresse in termini molto simili ancora diversi anni dopo, nel corso dell’intervista a Rita Caccamo e Manuela Olagnero (in «mondoperaio», XXXVII, marzo 1984, n. 3):
Costoro, grazie a questo lavoro spaventoso, vivevano bene, ma avevano garantito il benessere, non la vita. Mangiavano bene, oltretutto avevano mano libera su anelli, denti d’oro, su tutto quello che trovavano addosso ai cadaveri: quindi erano ricchi. In più avevano un’alimentazione sovrabbondante con alcool, sigarette; dormivano in letti e così via. Però venivano uccisi periodicamente. (Opere complete, II, p. 436)
Anche qui, però, non è tanto il disprezzo che emerge e prevale, quanto la questione del senso di colpa (che, come Levi sapeva e spiegò, coinvolge le vittime non meno dei veri colpevoli). Nella stessa intervista si legge infatti:
Gli uccisi venivano sostituiti con una nuova squadra di manovali della morte. Di questi addetti alla zona del Kommando se ne sono salvati pochissimi, forse addirittura cinque o sei. Il caso di questi superstiti rappresenta il limite estremo cui il senso di colpa può giungere. (Ibidem)
«Non ho più avuto una vita normale. […] Non si esce mai, per davvero, dal Crematorio». Con queste parole si chiude il memoriale di Shlomo Venezia, a riprova del fatto che la colpa più inespiabile è quella che viene ingiustamente attribuita. Ma non credo che sia stato Levi a ergersi a giudice ed emettere sentenze di colpevolezza, specialmente nei confronti di altri prigionieri che non poteva considerare estranei, avversari e tantomeno carnefici. Se descrive gli uomini delle Squadre speciali come «abbrutiti» è per metterne in luce la condizione di vittime; se si chiede come mai non si ribellarono, non fa che ripetere nei loro confronti la stessa domanda che tante volte era stata fatta a lui:
Fra le domande che ci vengono poste ce n’è una che non manca mai; anzi, a mano a mano che gli anni passano, essa viene formulata con sempre maggiore insistenza, e con un sempre meno celato accento di accusa. Più che una domanda singola, è una famiglia di domande. Perché non siete fuggiti? Perché non vi siete ribellati? Perché non vi siete sottratti alla cattura «prima»? (Stereotipi, Opere complete, II, p. 1242)
La zona grigia è terribile proprio perché sbiadisce i confini tra il nero e il bianco, non separa nettamente i responsabili dagli innocenti, ‘noi’ da ‘loro’. Il «limite estremo» raggiunto dal Sonderkommando è un grado ulteriore sulla stessa scala in cui Levi stesso sapeva di trovarsi, condividendo il senso di colpa di ogni sopravvissuto. È questa «la natura insanabile dell’offesa» di cui si parla nella Tregua.
A chi dice «basta con questi ebrei, basta con la Shoah», contrapponendo ‘cultura’ e ‘politica’, bisogna far capire che Primo Levi e Shlomo Venezia, toccando o vedendo quel «limite estremo», hanno indicato anche il confine ultimo della natura umana. Crediamo davvero di poter fare a meno di quell’avvertimento? Vogliamo provare di persona cosa c’è oltre quel confine?

Dal sito Le parole e le cose2

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