Cornelius castoriadis |
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Non la colpisce, in
questo recente tentativo di accreditare origini organiche al dolore
mentale, la proposta implicita di cancellarne il senso, con la
conseguenza di escludere il ruolo terapeutico della psicoanalisi
sostituendole la pretesa funzione curativa dei farmaci?
Si può prendere la
questione da diversi versanti. Uno è del tutto concreto: i farmaci
giocano, in modo più addolcito, il ruolo che aveva la camicia di
forza. Non ho mai visto qualcuno uscire dalla sua psicosi grazie alle
medicine. Naturalmente non mi sto riferendo a casi speciali, come
quello della psicosi maniaco-depressiva, o all’effetto del litium
sull’umore, che consente di evitare le grandi crisi maniacali. Ma
quando si parla di schizofrenia e di paranoia, allora le dico che non
ho mai visto nessuno recuperato a uno stato mentale normale grazie ai
farmaci; bensì gente ridotta come la si vede negli ospedali
psichiatrici, inebetita al rango di un vegetale: restano lì calmi
sulle loro sedie, ma è come se avessero subito una lobotomia. Il che
non vuol dire affatto che i medicamenti psicotropi non abbiano alcuna
utilità: servono nella misura nella quale consentono di uscire dagli
stati acuti di delirio, permettendo di instaurare quel dialogo con
l’altro che è alla base di ogni terapia analitica. Ma questo non è
che un aspetto ordinario.
La questione più
profonda riguarda, appunto, ciò a cui lei alludeva parlando del
significato della sofferenza mentale, che, a sua volta, rimanda a una
questione più generale sul senso. La prospettiva dalla quale occorre
partire non è unicamente psichiatrica o psicoanalitica, bensì
politica e etica allo stesso tempo: qual è lo scopo che c’è
dietro la somministrazione dei farmaci così come viene propagandata
da molti psichiatri? Quello di fare rientrare le persone in un regime
di vita che assecondi le norme predisposte dalla società: il che
vuol dire normalizzarli.
Il risultato di un
trattamento farmacologico delle psicosi può approdare alla capacità
di interagire con gli altri, magari di lavorare; ma certamente non
metterà le persone in grado di trovare o di creare un senso per se
stesse: un senso che possa, beninteso, corrispondere a un certo
livello di scambio sociale, che abbia a che fare con quel che accade
nel contesto in cui si vive.
Già, perché quando
si dice che ha perso il senno chi è immerso nella propria sofferenza
mentale, si allude implicitamente al fatto che la sua visione del
mondo non è condivisa dagli altri, dunque esorbita dal senso
comune...
Precisamente. L’obiettivo
che accomuna a un tempo la democrazia, una filosofia della libertà e
la ricerca psicoanalitica è quello di permettere a ciascuno di
creare un significato alla propria vita che sia condivisibile con gli
altri. Per una persona psicotica questo senso è qualcosa che lo fa
soffrire e che lo aliena, proprio in senso etimologico, perché lo
rende straniero, lo espelle dalla comunità. Che si chiamino
psicoterapia, o psicoanalisi, tutti i contatti che da un soggetto
all’altro passano attraverso il linguaggio sono assolutamente
ineliminabili nel trattamento della malattia mentale.
Viene da chiedersi,
tuttavia, come mai proprio la psicoanalisi, nonostante sia fondata
per l’appunto sul linguaggio e insista tanto sull’aspetto
relazionale, rimanga inscritta in una prospettiva così marcatamente
autoreferenziale.
Per quel che riguarda la
chiusura della psicoanalisi su se stessa le dò pienamente ragione. È
un vizio che rimonta alle sue origini, e col passare del tempo,
invece di disporsi verso una apertura, gli stessi analisti hanno
incoraggiato una sorta di imperialismo spirituale sulla conoscenza:
ossia la tendenza a interpretare tutti gli avvenimenti sociali e
storici in chiave psicoanalitica. Ora, per me l’essere umano è
fatto di due poli inseparabili e irriducibili l’uno all’altro: il
polo psichico, della mente individuale, e quello sociale, delle
significazioni intrinseche alle sue istituzioni. È impossibile
rompere questo legame, così come non si possono separare i poli
magnetici, né si può dire che l’uno risulta dall’altro o
viceversa. Nella misura minima nella quale gli psicoanalisti sono
usciti dal loro campo specifico, la loro attitudine è stata quella
di annettere al loro territorio sfere che non sono riconducibili
semplicemente alla psicologia individuale dei fattori inconsci,
trascurando compietamente l’altra dimensione, cioè quella sociale.
Tutto il mio lavoro consiste nel vedere i fenomeni come
inscindibilmente psichici e storico-sociali a un tempo, e a
riconoscere la loro reciproca irriducibilità. Penso che la
psicoanalisi si trovi in una impasse perché rimescola sempre gli
stessi concetti senza avanzare. E questo non solo a causa di ciò che
lei chiamava autoreferenzialità, ma perché ci si chiude nell’opera
di Freud, o di pochi altri ritenuti grandi, senza procedere a uno
svolgimento teorico; che, d’altronde, potrebbe venire soltanto
dall’apertura al resto del campo che riguarda la sfera sociale.
[...]
Da Cornelius
Castoriadis. Il senso nell'era del teleconsumo,
“il manifesto”, 23 novembre 1994
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