2.3.19

Castoriadis. Psicofarmarmaci, psicoanalisi e società (da un'intervista a Francesca Borrelli, 1994)

Cornelius castoriadis


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Non la colpisce, in questo recente tentativo di accreditare origini organiche al dolore mentale, la proposta implicita di cancellarne il senso, con la conseguenza di escludere il ruolo terapeutico della psicoanalisi sostituendole la pretesa funzione curativa dei farmaci?
Si può prendere la questione da diversi versanti. Uno è del tutto concreto: i farmaci giocano, in modo più addolcito, il ruolo che aveva la camicia di forza. Non ho mai visto qualcuno uscire dalla sua psicosi grazie alle medicine. Naturalmente non mi sto riferendo a casi speciali, come quello della psicosi maniaco-depressiva, o all’effetto del litium sull’umore, che consente di evitare le grandi crisi maniacali. Ma quando si parla di schizofrenia e di paranoia, allora le dico che non ho mai visto nessuno recuperato a uno stato mentale normale grazie ai farmaci; bensì gente ridotta come la si vede negli ospedali psichiatrici, inebetita al rango di un vegetale: restano lì calmi sulle loro sedie, ma è come se avessero subito una lobotomia. Il che non vuol dire affatto che i medicamenti psicotropi non abbiano alcuna utilità: servono nella misura nella quale consentono di uscire dagli stati acuti di delirio, permettendo di instaurare quel dialogo con l’altro che è alla base di ogni terapia analitica. Ma questo non è che un aspetto ordinario.
La questione più profonda riguarda, appunto, ciò a cui lei alludeva parlando del significato della sofferenza mentale, che, a sua volta, rimanda a una questione più generale sul senso. La prospettiva dalla quale occorre partire non è unicamente psichiatrica o psicoanalitica, bensì politica e etica allo stesso tempo: qual è lo scopo che c’è dietro la somministrazione dei farmaci così come viene propagandata da molti psichiatri? Quello di fare rientrare le persone in un regime di vita che assecondi le norme predisposte dalla società: il che vuol dire normalizzarli.
Il risultato di un trattamento farmacologico delle psicosi può approdare alla capacità di interagire con gli altri, magari di lavorare; ma certamente non metterà le persone in grado di trovare o di creare un senso per se stesse: un senso che possa, beninteso, corrispondere a un certo livello di scambio sociale, che abbia a che fare con quel che accade nel contesto in cui si vive.

Già, perché quando si dice che ha perso il senno chi è immerso nella propria sofferenza mentale, si allude implicitamente al fatto che la sua visione del mondo non è condivisa dagli altri, dunque esorbita dal senso comune...
Precisamente. L’obiettivo che accomuna a un tempo la democrazia, una filosofia della libertà e la ricerca psicoanalitica è quello di permettere a ciascuno di creare un significato alla propria vita che sia condivisibile con gli altri. Per una persona psicotica questo senso è qualcosa che lo fa soffrire e che lo aliena, proprio in senso etimologico, perché lo rende straniero, lo espelle dalla comunità. Che si chiamino psicoterapia, o psicoanalisi, tutti i contatti che da un soggetto all’altro passano attraverso il linguaggio sono assolutamente ineliminabili nel trattamento della malattia mentale.

Viene da chiedersi, tuttavia, come mai proprio la psicoanalisi, nonostante sia fondata per l’appunto sul linguaggio e insista tanto sull’aspetto relazionale, rimanga inscritta in una prospettiva così marcatamente autoreferenziale.
Per quel che riguarda la chiusura della psicoanalisi su se stessa le dò pienamente ragione. È un vizio che rimonta alle sue origini, e col passare del tempo, invece di disporsi verso una apertura, gli stessi analisti hanno incoraggiato una sorta di imperialismo spirituale sulla conoscenza: ossia la tendenza a interpretare tutti gli avvenimenti sociali e storici in chiave psicoanalitica. Ora, per me l’essere umano è fatto di due poli inseparabili e irriducibili l’uno all’altro: il polo psichico, della mente individuale, e quello sociale, delle significazioni intrinseche alle sue istituzioni. È impossibile rompere questo legame, così come non si possono separare i poli magnetici, né si può dire che l’uno risulta dall’altro o viceversa. Nella misura minima nella quale gli psicoanalisti sono usciti dal loro campo specifico, la loro attitudine è stata quella di annettere al loro territorio sfere che non sono riconducibili semplicemente alla psicologia individuale dei fattori inconsci, trascurando compietamente l’altra dimensione, cioè quella sociale. Tutto il mio lavoro consiste nel vedere i fenomeni come inscindibilmente psichici e storico-sociali a un tempo, e a riconoscere la loro reciproca irriducibilità. Penso che la psicoanalisi si trovi in una impasse perché rimescola sempre gli stessi concetti senza avanzare. E questo non solo a causa di ciò che lei chiamava autoreferenzialità, ma perché ci si chiude nell’opera di Freud, o di pochi altri ritenuti grandi, senza procedere a uno svolgimento teorico; che, d’altronde, potrebbe venire soltanto dall’apertura al resto del campo che riguarda la sfera sociale.
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Da Cornelius Castoriadis. Il senso nell'era del teleconsumo, “il manifesto”, 23 novembre 1994

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