Su
Rousseau circola da due secoli una vulgata che sarebbe caritatevole
chiamare liberal-conservatrice, quando invece è francamente
reazionaria: pura propaganda. Suona così: Rousseau è il cattivo
maestro dei giacobini. Un precursore del totalitarismo. Da Rousseau
si va diritti al gulag. Fosse per lui cammineremmo tutti a quattro
zampe (questa a dir il vero era di Voltaire, e infatti almeno fa
ridere). Ricostruzione che non sta né in cielo né in terra: se i
giacobini fecero quel che fecero non fu per fanatismo rousseauiano,
ma perché costretti a inventarsi soluzioni in fretta e furia nella
brutale emergenza in cui versavano. Chi voglia comunque farsene
un’idea può ricorrere al libro di un vecchio arnese da Guerra
Fredda come lo storico israeliano Jacob Talmon, Le origini della
democrazia totalitaria (Il Mulino, 1952) screditatissimo tra gli
studiosi, ma incredibilmente citato ancora oggi come autorità in
molti articoli di giornale: i luoghi comuni non muoiono mai.
Ma
il buffo è quanto il falso Rousseau dei reazionari somigli, nella
pratica se non negli intenti, almeno espliciti, al Rousseau cui il
Movimento 5 Stelle ha intitolato la sua nuova piattaforma informatica
in omaggio al cofondatore Casaleggio recentemente scomparso, il quale
considerava Jean-Jacques «il padre della democrazia diretta». Ora,
a un movimento che si pretende rivoluzionario e però chiama
«direttorio» il suo organismo dirigente (laddove il Direttorio non
segnò l’inizio, ma la fine della Rivoluzione francese), non si ha
cuore di chiedere troppe pezze d’appoggio filologiche. E poi la
politica cerca il suo bene dove lo trova e ha tutto il diritto di non
andare troppo per il sottile.
Ciò
che sorprende non è dunque questo, ma lo scarto tra le dichiarazioni
(Rousseau profeta di una democrazia «più democratica» di quella
rappresentativa) e la prassi: decisioni inappellabili dall’alto,
trasparenza pretesa solo in basso, autorità carismatica dei
fondatori, ossessione per una corruzione che alberga non tanto nel
sistema, ma nel cuore stesso degli esseri umani, tutti criminali in
potenza da sorvegliare in ogni singolo aspetto della vita, quando
Rousseau diceva invece che l’uomo nasce buono ed è la società che
lo perverte. Più che Rousseau questo è De Maistre, un reazionario
della più bell’acqua; o al massimo, appunto, il Rousseau sfigurato
(forse perché segretamente desiderato?) dalla propaganda
reazionaria. Da cui la domanda: cosa accomuna le due interpretazioni?
Non
certo il piatto adagio che gli estremi si toccano. Piuttosto il
rifiuto, il rigetto, l’orrore per la contraddizione. Il pensiero di
Rousseau è contraddittorio. Lui stesso lo sapeva. Non ha mai preteso
di spacciare formule pronte per l’uso. Le soluzioni che avanzava
servivano più a criticare lo stato di cose che a proporne in
concreto uno diverso (è questa, da sempre, la funzione dell’utopia:
additare le crepe del presente, non indicare un ordine perfetto che,
se realizzato, diverrebbe un incubo incriticabile).
Il
problema attorno a cui si è sempre arrovellato è il seguente: come
rendere gli uomini liberi se sono loro i primi a non volerlo? A
questo rispondono le finzioni teoriche e narrative del pedagogo
nell’Emilio, del legislatore nel Contratto sociale,
di Wolmar in un romanzo come La nuova Eloisa, che allestisce
un microcosmo familiare dove la menzogna è bandita e tutti vivono
all’insegna di una trasparenza che implica assoluta fiducia nella
veridicità altrui.
Esperimenti
di pensiero. Casi limite, così come un caso limite era per Rousseau
quello «stato di natura» originario di cui lui stesso diceva che
«probabilmente non è mai esistito e probabilmente non esisterà
mai». E così come altrettanto un caso limite è la pretesa, nelle
Confessioni, di essere stato l’unico a tentare l’«impresa
senza esempi» di mostrarsi esattamente com’era, con tutto il suo
bene e il suo male, episodi vergognosi compresi. Pretesa in cui era
trasparente un ricatto: se vi racconto anche i miei lati più
ripugnanti siete obbligati a credermi su tutto. E del resto già
nelle opere politiche Rousseau insisteva su quanto il pedagogo e il
legislatore debbano spesso ricorrere a suggestioni, mezzucci e
perfino imposture per conseguire i loro scopi: il pedagogo che finge
di smarrirsi con Emilio nella selva in modi che questi impari a
sbrigarsela da solo; Numa Pompilio che consulta la Ninfa Egeria nella
grotta o Mosè che chissà quanto a lungo si sarà girato i pollici
sul Sinai prima di ridiscendere con le tavole della legge.
Ciò
che Rousseau, in altre parole, ha pericolosamente messo a nudo, un
secolo e mezzo prima di Nietzsche e di Max Weber, è l’origine
infondata e irrazionale di ogni istituto razionale, l’abisso
inscrutabile che presiede alla genesi di ogni soggettività
individuale e collettiva. E tutto ciò in pieno Illuminismo, quando
le migliori menti della sua generazione si beavano di credere che la
ragione fosse un processo naturale, progressivo e irreversibile che
avrebbe finito per imporsi da sé. Un ottimismo che Rousseau non ha
mai condiviso: non a caso l’utopia di Wolmar nella Nuova Eloisa
finisce male; lui stesso diceva che nessun popolo europeo avrebbe mai
potuto mettere in pratica il Contratto sociale; in un abbozzo
di continuazione dell’Emilio, cioè Emilia o I solitari,
il suo pupillo viene tradito dalla sposa che il precettore gli aveva
allevato come anima gemella; mentre nelle opere autobiografiche
successive alle Confessioni (Rousseau giudice di
Jean-Jacques, Le fantasticherie di un passeggiatore solitario)
è costretto ad ammettere che la trasparenza promessa era impossibile
e non aveva potuto fare a meno di abbellire, integrare, ritoccare.
Contraddizioni penetrate nelle fibre più intime della sua psiche,
negli anni sempre più minata dalla paranoia e dalla mania di
persecuzione, fino all’ipotesi di un complotto universale ai suoi
danni che vedeva coinvolti i suoi ex amici enciclopedisti e i
gesuiti, i magistrati di Ginevra e le corti europee…
Che
cosa fanno invece i maldestri esegeti di Rousseau? Laddove
Jean-Jacques crea metafore geniali per mostrare quanto rischiosamente
si articolino desiderio e pericolo, loro prendono le metafore alla
lettera, scambiano le finzioni per verità, elevano a norma un
esperimento. Alla contraddizione preferiscono la paranoia. Qualcosa
di simile accadde a un altro sperimentatore abissale poi sprofondato
nella demenza come Nietzsche: tra il cantore della bestia bionda
celebrato dai nazisti e il conciliante fricchettone dei postmoderni
(niente fatti, solo interpretazioni, tana libera tutti) ci sono più
punti di contatto di quanto non si creda. La semplificazione è tanto
necessaria in politica — dove bisogna scegliere: repubblica o
monarchia, divorzio sì o no, nazionalizzare o privatizzare —
quanto stupida nel pensiero. Ma più stupido ancora è confondere i
due piani: chi lo fa si condanna all’impotenza o al disastro; nel
migliore dei casi, al ridicolo.
La
lettura / Corriere della sera 29/05/2016
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