È del tutto evidente
che, con il governo fascio-stellato, abbia raggiunto il culmine la
dialettica perversa fra razzismo istituzionale e razzismo “popolare”,
della quale scrivo da molti anni. E ciò non solo a causa di una
produzione legislativa essa stessa d’impronta apertamente
sicuritaria e discriminatoria, la quale non fa che titillare,
legittimare, alimentare il senso comune intollerante e i diffusi
sentimenti di ostilità verso gli altri. Ma anche grazie al ricorso a
una strategia propagandistica, ben congegnata e ben pagata, che è
divenuta ormai, come nei regimi totalitari, strumento di governo e,
al tempo stesso, di manipolazione delle masse: le due dimensioni
vanno facendosi sempre più intercambiabili o addirittura
coincidenti, insieme con la costante violazione del principio
democratico della separazione dei poteri.
È anche a causa di
questa dialettica che gli atti di razzismo “spontaneo”, per così
dire, vanno moltiplicandosi secondo il ben noto meccanismo per cui
frustrazione, risentimento e rancore (non poche volte effetto delle
condizioni sociali vissute) sono indirizzati verso il capro
espiatorio di turno, di solito il più disprezzato, vulnerabile e
alterizzato.
Nondimeno la china
intrapresa, pericolosa per la sopravvivenza della stessa democrazia,
è anche l’esito, oggi spinto all’estremo, dell’operato di
governi passati, non solo dei più recenti e non solo di
centro-destra. Ricordo che fu nel corso del primo governo Prodi che,
il 28 marzo del 1997, si consumò la strage di un centinaio di
profughi albanesi della Katër i Radës, in gran parte donne e
bambini, tutti/e in fuga dalla guerra civile. Com’è noto, la
piccola motovedetta, strapiena di profughi/e, fu speronata nel canale
d’Otranto dalla corvetta Sibilla della Marina militare che, per
ordini superiori, doveva impedirne l’approdo. Il governo, infatti,
col ruolo decisivo di Giorgio Napolitano, aveva decretato, d’accordo
con l’Albania, un blocco navale costituito da una barriera di navi
da guerra: severamente criticato dall’Unhcr come illegale.
Durante il medesimo
governo Prodi fu approvata la legge detta Turco-Napolitano, la n. 40
del 6 marzo 1998, la quale, fra l’altro, per la prima volta
istituiva, con i Centri di permanenza temporanea e assistenza, la
detenzione amministrativa quale strumento ordinario e non convalidato
dall’autorità giudiziaria: riservata a persone immigrate
“irregolari”, sottoposte a provvedimenti di espulsione o di
rimpatrio coatto. Appena inaugurati, i cpta (di solito detti cpt)
provocarono ben otto morti, tanta era l’assistenza di cui godevano
le persone “trattenute”.
Non per caso fu a quel
tempo che coniammo la formula di razzismo democratico. Anch’esso
contribuì al dilagare, nel corso degli anni Novanta, del razzismo
contro gli albanesi: descritti da non pochi giornali, anche
“democratici”, per l’appunto, come barbari invasori del sacro
suolo italico. Soprattutto nella seconda metà di quel decennio ogni
fatto di cronaca nera veniva ricondotto, arbitrariamente, a un
colpevole albanese del tutto immaginario; e quello di “albanese”
era divenuto un insulto consueto che si scambiavano perfino i
bambini.
Un ventennio dopo la
Turco-Napolitano, è stato ugualmente un governo detto di
centro-sinistra a varare le due leggi dell’aprile 2017, entrambe
accomunate da un’ideologia sicuritaria e repressiva: la 46, detta
Minniti-Orlando (“Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei
procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il
contrasto dell’immigrazione illegale”) e la 48, detta Minniti
(“Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città”).
Sono questi due provvedimenti legislativi ad aver costituito il
modello per la legge n. 132, del 1 dicembre 2018, che, fermamente
voluta da Salvini, sovrappone, e non per caso, i temi della sicurezza
e dell’immigrazione, esasperando il carattere
repressivo-razzista-sicuritario, a tal punto da configurarsi come
nettamente anticostituzionale, secondo il parere di non pochi
giuristi.
Ed è nel corso dello
stesso governo Gentiloni che, soprattutto per volontà del ministro
dell’Interno, vengono stretti accordi con le bande criminali
libiche e s’inaugura “Deserto rosso”, operazione militare in
Niger, finalizzata a bloccare l’afflusso dei profughi dal Sud verso
le coste della Libia. Durante quella stessa legislatura s’intensifica
il processo di delegittimazione, anche governativa, delle ong: il
Codice di condotta adottato da Minniti, con le sue contromisure e
sanzioni, di fatto ha impedito loro le operazioni di ricerca e
soccorso: passate formalmente alla famigerata Guardia costiera
libica.
Quanto alle aggressioni
razziste, fino all’omicidio e alla strage, contro persone
immigrate, rifugiate e/o alterizzate, esse costellano inesorabilmente
almeno l’ultimo quarantennio della storia italiana. Era la notte
fra il 21 e il 22 maggio del 1979 quando a Roma Ahmed Ali Giama,
cittadino somalo di trentacinque anni – ex studente in legge presso
l’Università di Kiev, poi rifugiato politico fuggito dalla feroce
dittatura di Mohammed Siad Barre – veniva bruciato vivo da quattro
giovani italiani, mentre dormiva sotto il portico di via della Pace,
nei pressi di piazza Navona. Nonostante le testimonianze dettagliate
di sette persone, uscite da un ristorante vicino, i quattro saranno
assolti in Cassazione.
Per citare un altro caso
agghiacciante, il 9 luglio 1985, a Udine, il sedicenne Giacomo Valent
fu ucciso con sessantatre coltellate da due suoi compagni di liceo,
di quattordici e sedici anni, apertamente neonazisti. Figlio di un
funzionario d’ambasciata e di una principessa somala, Giacomo
veniva costantemente dileggiato come “sporco negro” per i capelli
ricci e il colore ambrato della pelle, forse anche per le sue idee di
sinistra.
Più noto è l’omicidio
di Jerry Masslo, profugo politico sudafricano, costretto, per
sopravvivere, a lavorare in condizioni quasi-schiavili alla raccolta
di pomodori nelle campagne di Villa Literno. A questo assassinio,
compiuto il 20 settembre 1989 da una banda di giovani rapinatori, per
di più razzisti, seguì il primo sciopero di migranti contro il
caporalato e una manifestazione nazionale che vide la partecipazione
di almeno duecentomila persone e inaugurò il movimento antirazzista
italiano.
Se poi volessimo
riportare l’antica e costante sequela di violenze antizigane, fino
al pogrom, il repertorio sarebbe tanto lungo da richiedere un gran
numero di pagine. Secondo i sondaggi del Pew Research Centre,
riguardanti i sette paesi europei più popolosi, anno dopo anno
l’Italia risulta al primo posto per ostilità antizigana. Fra i
numerosi casi di aggressioni e violenze, cito il rogo
dell’insediamento rom della Continassa (Torino, 10 dicembre 2011),
in quanto rappresentativo delle complicità della “sinistra” (si
fa per dire). Dopo la diffusione della falsa notizia di
un’adolescente stuprata da due rom, si organizzò un corteo, che
sfociò nel pogrom. Al corteo partecipò anche Paola Bragantini,
allora segretaria provinciale del Partito democratico, che più tardi
sarebbe stata eletta deputata (forse per questo merito?).
Questi pochi esempi
dovrebbero essere sufficienti a mostrare la lunga durata del
neorazzismo italiano. Eppure – come osservavo più di un decennio
fa (Regole e roghi. Metamorfosi del razzismo, Dedalo 2008) –
rispetto a questioni riguardanti immigrazione e razzismo, a prevalere
è spesso l’illusione o la menzogna della “prima volta”.
Quest’attitudine non solo caratterizza parte cospicua
dell’informazione e della politica, ma finisce pure per influenzare
l’atteggiamento e il discorso delle minoranze attive. Anche l’esodo
ingente di voti di sinistra verso il M5s è, fra le altre cose,
l’esito di una certa smemoratezza.
E a tal proposito: più
volte ho documentato il contributo, tempestivo e costante, offerto
all’ideologia razzista dal maître à penser dei pentastellati:
basta citare il lungo passo dal Mein Kampf di Hitler sui
“giullari del parlamentarismo”, pubblicato da Grillo nel suo blog
l’11 febbraio del 2006, con tanto di ritratto del Führer e
relativa svastica (poi cancellati). Approdo coerente di questo
orientamento è la sua ri-affermazione recente (subito dopo la
manifestazione nazionale antirazzista a Milano, del 2 marzo scorso) a
proposito del razzismo quale fenomeno “esclusivamente mediatico”,
che riecheggia un’analoga asserzione di Salvini: “L’allarme
‘razzismo’ è un’invenzione della sinistra” (28 luglio 2018).
Al contrario di ciò che
affermano i due giullari dell’anti-parlamentarismo, oggi assistiamo
all’intensificazione progressiva del già citato circolo vizioso
del razzismo. Dacché si è insediato il governo fascio-stellato, le
aggressioni verbali e fisiche di stampo razzista vanno
moltiplicandosi allo stesso ritmo della propaganda governativa: le
une e l’altra sempre più libere da freni inibitori. Che tra le
vittime di attacchi violenti vi siano anche dei bambini dovrebbe
allarmare chiunque.
E dovrebbero inquietare i
contemporanei sussulti di antiebraismo verbale e fattuale. L’episodio
romano delle pietre d’inciampo, dedicate a vittime della Shoah,
divelte e rubate la notte fra il 9 e il 10 dicembre scorsi, è anche
la spia di un’inclinazione che attraversa il governo
fascio-stellato. L’indulgenza verso gruppi neofascisti e
neonazisti, gli ossessivi riferimenti polemici a George Soros da
parte di Salvini, la recente partecipazione di Lorenzo Fontana,
ministro leghista della famiglia, a un convegno insieme col fior
fiore del “pensiero” antisemita: tutto ciò, coniugato con un
machismo ben rappresentato dal ddl Pillon e dal progetto di apertura
delle “case chiuse” – per non dire della legge sulla legittima
difesa – contribuisce al rischio di uno scenario classicamente
fascista.
Pubblicato da Micromega Online il 7 marzo 2019
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