Genova, luglio 2001. Una immagine della "macelleria messicana" alla Caserma Diaz (dal sito del La Stampa) |
Vladimiro Zagrebelsky,
fratello maggiore del Gustavo che fu presidente della Corte
Costituzionale, è – come lui – giurista ed è stato magistrato.
Tra il 2001 e il 2010 è stato giudice della Corte Europea dei
Diritti e, al termine del mandato, nel 2011, è stato insignito
dell'onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dal Presidente della
Repubblica Napolitano.
Riprendo il suo articolo, vecchio di sei anni,
perché mi sembra una storia da ricordare e perché ho paura che
certi orrori, nell'attuale situazione politica potrebbero tornare. Il
ragionamento di Zagrebelsky andrebbe aggiornato sul punto che
riguarda il reato di tortura, che al tempo non era previsto dal
nostro ordinamento e ne fa parte dal luglio, dopo l'approvazione
della legge che lo istituisce. Ma il testo della legge fu a suo tempo
criticato da diverse associazioni che si occupano di tortura, come
Amnesty International e Antigone e Luigi Manconi, primo presentatore
della legge, l'ha di fatto misconosciuta, rifiutando di votare il
testo definitivo al Senato. Disse: «Le modifiche approvate lasciano
ampi spazi discrezionali perché, ad esempio, il singolo atto di
violenza brutale di un pubblico ufficiale su un arrestato potrebbe
non essere punito. E anche un’altra incongruenza: la norma prevede
perché vi sia tortura un verificabile trauma psichico. Ma i processi
per tortura avvengono per loro natura anche a dieci anni dai fatti
commessi. Come si fa a verificare dieci anni dopo un trauma avvenuto
tanto tempo prima?». Nel dicembre dello stesso anno 2017 il Comitato
Onu contro la tortura, che prese in esame la legge approvata
dall’Italia, la giudicò non conforme alle disposizioni della
Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e ne chiese la
modifica. (S.L.L.)
Un commento alla sentenza
del 5 luglio 2012 con cui la Corte di cassazione ha definitivamente
giudicato i dirigenti e funzionari della polizia di stato, imputati
per i delitti commessi nella scuola Diaz di Genova, in coda alle
manifestazioni che accompagnarono il G8 del luglio 2001, richiede
qualche considerazione per così dire a lato della vicenda penale, o
ulteriore rispetto a ciò che i giudici penali, nell’ambito della
loro competenza, hanno potuto prendere in considerazione.
Tratterò tre differenti
profili della vicenda, che concorrono a giustificare il permanere di
gravi preoccupazioni, e anche un persistente senso di vergogna. Mi
riferisco al ritardo con cui la giustizia penale giunge a concludere
il processo, alla inadeguatezza delle sue conclusioni, all’isolamento
in cui la giustizia penale è lasciata, unico e strutturalmente
insufficiente luogo in cui lo stato reagisce a ciò che la Corte di
appello di Genova, nella sentenza sostanzialmente confermata dalla
Corte di cassazione, aveva ricostruito parlando di “tradimento
della fedeltà ai doveri assunti nei confronti della comunità
civile” e di “enormità dei fatti che hanno portato discredito
sulla Nazione agli occhi del mondo intero”.
I fatti sono noti. Per
giustificare l’irruzione nella scuola vennero portate al suo
interno delle bottiglie molotov per attribuirne il possesso ai
manifestanti, che vi si erano raccolti e che poi, tutti insieme,
furono arrestati. È noto anche che costoro furono minacciati e
umiliati dalle forze di polizia, violentemente colpiti, feriti anche
gravemente. Decine di persone, molte straniere, furono ferite, due
furono in pericolo di vita. Vennero eseguiti arresti di massa, per
“riscattare l’onore della Polizia”, accusata di inerzia a
fronte delle devastazioni commesse da parte dei manifestanti contro
il G8. L’operazione, che la Cassazione definisce “scellerata
operazione mistificatoria” lucidamente organizzata, venne condotta
sotto la direzione di altissimi funzionari, inviati a Genova dal capo
della polizia. L’eventualità che poco o molto di quel che avvenne
sia andato oltre le intenzioni dei vertici della polizia non toglie
il fatto, purtroppo, che la vicenda sia stata lo sviluppo sul terreno
di decisioni prese in riunioni di responsabili della polizia.
Le imputazioni hanno
riguardato la calunnia nei confronti degli arrestati, la
falsificazione dei verbali di arresto. Le violenze sulle persone
hanno dato luogo a imputazioni di lesioni. Mentre il primo blocco di
accuse ha portato infine a un certo numero di condanne di dirigenti,
funzionari, agenti di polizia, la sentenza ha concluso che i delitti
di lesioni personali sono ormai estinti per il decorso del termine di
prescrizione.
La conclusione
giudiziaria è giunta dopo undici anni dai fatti. Undici anni.
Nel frattempo è morto
quello che poteva essere il più importante imputato, il prefetto La
Barbera, specificamente inviato a Genova a affiancare o sostituire i
funzionari locali, “per ristabilire l’onore della Polizia”, e
la maggior parte dei reati si sono prescritti. Le indagini della
Procura della Repubblica di Genova furono condotte celermente e
efficacemente, pur tra mille inframmettenze e difficoltà. La serie
di giudizi, davanti al Tribunale, la Corte d’appello e infine la
Cassazione si sono trascinati poi fino alla recente conclusione. La
distanza nel tempo (nel frattempo quante cose sono successe!) ha
consentito la distrazione con cui la sentenza finale è stata accolta
dalle forze politiche, dalle istituzioni e tutto sommato, in rapporto
all’enormità della vicenda, anche dalla stampa. La ministra degli
Interni, prefetto Cancellieri, vertice dell’amministrazione cui la
polizia di stato fa capo, ha tenuto a tessere l’elogio dei
funzionari condannati ricordandone l’eccellente curriculum e solo
aggiungendo che naturalmente avrebbe dato esecuzione alla sentenza.
Il capo della polizia, succeduto a De Gennaro nel frattempo più
volte promosso e anche sottosegretario del governo Monti, con delega
ai Servizi di sicurezza, ha scritto due righe di scuse. Nulla dal
parlamento in tutt’altro affaccendato. Silenzio dai partiti della
“strana maggioranza”.
Quanto alla sentenza va
ricordato che le violenze fisiche, pur accertate e gravissime, sono
rimaste senza sanzione. Almeno alcune di queste, secondo la
Cassazione, hanno avuto la sostanza di ciò che a livello
internazionale si chiama tortura. Mi riferisco alla definizione che
ne offre la Convenzione dell’Onu contro la tortura, del 1984, che
l’Italia ha ratificato nel 1988. Oltre a episodi di vera tortura,
nell’assalto alla scuola Diaz se ne sono verificati altri, che
costituiscono trattamenti inumani e degradanti, anch’essi vietati
dalla Convezione europea dei diritti umani, che l’Italia ha
ratificato nel 1955.
La Convenzione Onu contro
la tortura impone agli stati di prevedere nel loro sistema penale
interno il delitto di tortura, con pene di gravità adeguata, di
mettere in atto opera di prevenzione e di assicurare la punizione dei
responsabili. Analogo obbligo deriva dalla Convenzione europea dei
diritti umani e da quella europea contro la tortura. Ma l’Italia
non ha mai introdotto nel suo codice penale il delitto di tortura. La
tortura, quindi, come tale, non è punibile in Italia. E rispetto
all’obbligo assunto dall’Italia nei confronti della comunità
internazionale, non si tratta semplicemente di un lungo ritardo o di
una disattenzione. L’Italia ha ricevuto nel corso degli anni una
serie di solleciti da parte del Comitato europeo contro la tortura e
dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite. L’Italia ha
espressamente rifiutato di dare esecuzione a quelle raccomandazioni.
Nel 2008 il governo italiano dell’epoca ha formalmente dichiarato
di non accogliere la raccomandazione del Consiglio dei diritti umani
delle Nazioni Unite, sostenendo che in realtà già ora la tortura è
punita, applicando quando è il caso le norme che sanzionano
l’arresto illegale, le percosse, le lesioni, le minacce,
l’omicidio. Una risposta capace di trarre in errore il Comitato,
come la vicenda delle violenze nella scuola Diaz o l’altra di
violenze su detenuti in carcere recentemente giudicata dal tribunale
di Asti ben dimostrano. Nessuna di quelle norme ha portato a
condanne: i reati di lesioni contestati si sono prescritti, finendo
nel nulla.
In parlamento si sono
arenate iniziative legislative. Il pretesto è stato quello della
necessità di proteggere la polizia da false accuse. Ma le false
accuse vanno scoperte e sanzionate nei processi. E purtroppo vi sono
anche accuse più che fondate. Ma c’è chi sostiene che solo
ipotizzare in una legge che un agente pubblico possa torturare è
offensivo per i corpi di polizia!
La giustizia penale, con
grave lentezza e danni in itinere, ha concluso il suo lavoro. Anzi, a
dire il vero non si è ancora alla conclusione perché il processo
per i reati commessi nella caserma di Bolzaneto è ancora in corso.
Ciò che avrebbero dovuto fare le autorità politiche e
amministrative dei vari governi che si sono succeduti per ristabilire
l’onore della nazione e anche quello della polizia – per
riprendere espressioni che si leggono nelle sentenze – non è stato
fatto.
Funzionari da sanzionare
sono stati promossi. Il parlamento ha rifiutato di istituire una
commissione d’inchiesta sulle responsabilità politiche e
amministrative e si è nascosto dietro lo schermo della pendenza del
procedimento giudiziario. Imbarazzo, connivenza, paura. Impermeabili
alla vergogna. Anche la credibilità internazionale dell’Italia è
toccata. La storia infatti non è finita. Dopo la sentenza della
Cassazione, “esaurite le vie interne”, prende avvio la procedura
introdotta da ricorsi alla Corte europea dei diritti umani. La
sentenza non arriverà subito, ma arriverà con la certificazione
europea della responsabilità dell’Italia per aver commesso prima e
lasciato impunite poi quelle violenze. L’onore di un paese non si
misura solo con l’andamento dello spread.
L'Indice dei libri del
mese, febbraio 2013
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