Riprendo senza le note - utilissime - da “La
letteratura e noi”, il blog fondato da Romano Luperini, il saggio
di Michele Rossi su de André e il '68, con la premessa introduttiva.
(S.L.L.)
A cinquant’anni di
distanza da uno degli snodi più significativi della storia recente,
l’editore Solfanelli pubblica il volume Il '68.
Costruzione e decostruzione di un mito, a cura di Sandro
de Nobile. I sedici saggi compresi nel volume tentano da un lato di
ricostruire l’eredità che il ’68 ha lasciato all’interno di
particolari settori artistici (la poesia e il teatro), dall’altro
di analizzare come il movimento sia stato osservato, metabolizzato e
cristallizzato nel racconto dalla stessa poesia, dalla narrativa,
dalla canzone d’autore, dal cinema, strumenti fondamentali nella
costruzione di un mito che ancora oggi divide, tra esaltazioni,
riduzioni e stigmatizzazioni. La redazione, per gentile concessione
dell’editore, è lieta di pubblicare il saggio di Michele Rossi
dedicato a "Storia di un impiegato". (La
letteratura e noi)
Quando all’alba del 30
aprile 1975 le forze della polizia politica travestite da operai
dell’elettricità riuscirono a farsi aprire la porta e fecero
irruzione in un appartamento torinese ponendo fine alla clandestinità
di due brigatisti rossi, tra cui il reggiano Tonino Passaroli (nome
di battaglia “Pippo”), compagno di lotta di Alberto Franceschini,
Prospero Gallinari e Mara Cagol, che due mesi prima aveva preso parte
a una delle azioni più clamorose delle Brigate rosse, l’evasione
di Renato Curcio dal carcere di Casale Monferrato, ebbero una bella
sorpresa. Mentre il terrorista veniva portato via con le manette ai
polsi e con il pugno chiuso esclamava “Mi dichiaro prigioniero
politico”, in mezzo all’arsenale teorico e militare del covo
(testi di storia, filosofia e teoria politica, materiale di
propaganda e pistole di vario calibro) la squadra investigativa
scorse diverse musicassette contenenti le canzoni di Fabrizio De
André. Se la notizia non provocò stupore negli ex sessantottini, in
quanto le idee anarcoidi di cantautore genovese e le sue canzoni
grondanti ribellione esistenziale avevano influenzato una parte
significativa dei giovani irriverenti e contestatari, i reparti
investigativi lo furono probabilmente ancora di meno. Per
l’antiterrorismo Fabrizio De André era un delinquente allo stato
potenziale, vicino ai sovversivi.
Dalla strage di Piazza
Fontana del 12 dicembre 1969, il “sedicente” cantautore era
monitorato e sorvegliato come attivista dell’ultrasinistra. Le
indagini della polizia sull’attentato dinamitardo avevano puntato
subito su un certo Isaia Mabellini, un marxista-leninista «in
rapporto – si legge nella scheda segnaletica della polizia – con
tale De André Fabrizio, non meglio generalizzato, ligure,
universitario a Milano, filocinese, noto cantautore e contestatore».
A seguito di questa segnalazione, la questura di Genova, contattata
dal Ministero degli Interni per ottenere informazioni in merito
all’artista, in una nota dettagliata scriveva: «Il De André
Fabrizio, noto cantautore, pur essendo studente universitario fuori
corso in giurisprudenza, si interessa di questioni artistiche,
provvede alla incisione dei dischi delle proprie canzoni, ha
effettuato qualche spettacolo in televisione, ma non appare mai nei
pubblici teatri». Cantore dei “santi senza dio”, dei dannati
della terra, sofisticato autore di testi poetici per musica che
destavano scalpore tra i benpensanti, De André era già una
leggenda. Però, bizzarro che possa sembrare, dal vivo non lo aveva
ancora visto nessuno. «Gli appassionati avevano imparato ad amarlo –
racconta Gino Castaldo nel Romanzo della canzone italiana –
nel mistero dei dischi, un artista, nascosto, praticamente
invisibile» a causa della sua paura patologica del pubblico. Quando
saliva su un palco non solo era incapace di suonare, ma anche di
aprire bocca e di muoversi. «Ogni volta che mi trovo di fronte al
pubblico l’emozione mi chiude la gola e non riesco più a cantare»,
confessava. Anche la televisione, salvo rarissime apparizioni, la
evitava come la peste. «E questo rappresenta in un certo senso un
record – scrivevano i giornali dell’epoca – perché è l’unico
cantante italiano di successo le cui serate non siano occupate da
esibizioni». Tutto era De André, insomma, all’infuori di un
presenzialista. Per il fatto «che nessuno lo conoscesse e che in
fondo non si sapesse neanche doveva viveva, si può dire che è stato
il primo mito italiano», ha dichiarato anni fa l’autore di Bomba
o non bomba.
Lo era di certo per i
brigatisti, anche se probabilmente non avevano ben ascoltato i testi
delle sue canzoni. O forse sì. Quello che è certo, è che non ne
avevano ben compreso il pensiero libertario e anarchico, esplicitato
anche nelle interviste che, assieme ai numerosi appunti oggi
conservati presso l’Archivio Fabrizio De André dell’università
di Siena, costituiscono il cantiere di lavoro deandreiano a cui
dobbiamo far riferimento per abbracciare compiutamente la dimensione
poetica e visionaria del trovatore genovese.
“Il
’68 – confessava Fabrizio De André in una lunga intervista degli
anni Novanta - io l’ho vissuto a contatto con questi gruppi di
estrema sinistra, partecipando al tentativo di rinnovamento; non li
ho seguiti, perché di solito un artista, indipendentemente
dall’ideologia, è un coniglio individualista. Mai avrei fatto la
lotta armata, ma condividevo quasi tutti quelli che oggi vengono
definiti gli eccessi sessantottini, anche perché li avevo quasi
promossi, attraverso le mie canzoni. Se alle manifestazioni un
autonomo sgangherato iniziava a tirare pistolettate, questo non lo
condividevo sicuramente, ma condividevo la rivolta contro un certo
modo di gestire la società che non teneva minimamente conto della
società stessa. Volevamo diminuire la distanza tra il potere e la
società. Abbiamo ottenuto diverse vittorie: pensa solo alla
liberazione sessuale, frutto del ’68, purtroppo frustrata dalla
paura dell’AIDS, o alla libertà di informazione, che allora non
esisteva realmente. Certo, ho anche fatto concerti in mezzo a bombe
molotov e lacrimogeni”.
Il Sessantotto era stata
una ribellione contro ogni autorità costituita, una rivolta
antigerarchica, libertaria e fraterna. Sentendosi padroni del futuro,
i giovani desideravano abitare il mondo e volevano l’immaginazione
al potere. Cominciata senza bandiere, con le assemblee, le
occupazioni e i cortei, la critica dei ragazzi ai sistemi scolastico
e universitario si era poi estesa alla società capitalistica,
politicizzandosi, con pestaggi tra rossi e neri, tra gli studenti e
la polizia. Ben presto la contestazione era uscita dalle aule e aveva
invaso le fabbriche. Con gli scioperi del ‘69 a singhiozzo, i
cortei interni e gli assalti alle catene di montaggio, la classe
operaia aveva rivendicato l’aumento dello stipendio uguale per
tutti e ottenuto i primi risultati con lo Statuto dei lavoratori.
C’era però chi, come Lotta continua e Potere operaio, sosteneva
che le conquiste del riformismo sindacale avevano rallentato la
marcia della rivoluzione, e chi era passato alla lotta armata (“Tutto
il potere al popolo armato!”). I sogni del Sessantotto si
tramutavano così in piombo, con centinaia di persone uccise per
ragioni ideologiche, dando vita a un’italica «Spoon River», una
Shot river, una collina con morti legati da uno stesso tragico
destino.
Ad offuscare la
ricreazione assembleare era stata la strategia della tensione che
aveva esaurito l’energia del Sessantotto nei crimini della politica
occulta. Tutto ebbe inizio con la prima strage, alla Banca
dell’Agricoltura di Milano, «il giorno dell’innocenza perduta»
come sottotitola il bel libro di Giorgio Boatti. La «strage di
Stato», ricordata anche nella dolente Patmos di Pier Paolo
Pasolini, ingenerò un senso di paura diffusa, una sfiducia negli
apparati dello Stato, che apparve assassino. Questo senso
d’insanabile sfiducia nello Stato crebbe ad ogni bomba esplosa
(l’attentato del treno del Sole a Gioia Tauro il 22 luglio 1970, il
17 maggio 1973 davanti alla questura di Milano etc.) fino al 1984,
quando la tempesta delle stragi si placò lasciando sul selciato 150
corpi dilaniati e 652 sporchi di sangue, assieme alle illusioni di
un’intera generazione. Il clima caldo della ribellione si arrestò,
così, nella palude dei misteri italiani e la democrazia mostrò il
suo cuore di tenebra. Le nostre «lotte non potranno essere
nonviolente e legalitarie come vorrebbe il partito se addirittura lo
Stato Borghese ha dovuto organizzare la strage di piazza Fontana per
fermare l’avanza della sinistra e i bollori dell’“autunno
caldo”», gridavano i rivoluzionari passando all’illegalità.
Così la pensava anche il “bombarolo-editore” Giangiacomo
Feltrinelli, amico di Fidel Castro e guevarista militante, prima di
saltare in aria il 14 marzo 1972 mentre si apprestava a sabotare un
traliccio dell’Enel per provocare un black out a Milano. Dopo gli
“espropri proletari” compiuti per autofinanziarsi, i terroristi
rossi influenzati dalle stragi neofasciste e di Stato passarono dai
sequestri lampo di dirigenti, sindacalisti e uomini delle istituzioni
ai primi morti ammazzati per attaccare “il cuore dello Stato”.
Questo periodo d’estrema
fragilità della nostra Repubblica è stato rappresentato in modo
originale da un eminente filosofo-giornalista come un triangolo
retto, con due cateti (la destra estrema e la sinistra estrema) e
un’ipotenusa che li unisce (lo Stato deviato). Una costruzione
geometrica animata dalla carne e dal sangue delle persone rimaste
uccise, perché «ci furono un’estrema destra e un’estrema
sinistra che si contrapponevano usando i mezzi illegali della
violenza, delle armi, delle bombe, dei complotti e delle stragi; e
c'è un’altra forza che aizza la destra e la sinistra affinché la
violenza esploda, organizza misteriosi provocatori, finanzia
operazioni clandestine, corrompe e usa le istituzioni dello Stato per
alimentare il disordine anziché controllarlo e spegnerlo». Il
Sessantotto entrò così in un buco nero dal quale non sarebbe più
uscito. La passione della politica - ha scritto un finissimo
intellettuale - non ebbe più ragion di essere «perché era stata
bruciata, prima dalla strategia occulta di apparati dello Stato; in
seconda battuta dalla deriva terroristica. Quella passione, ereditata
dalla formazione sessantottesca non esisteva più perché era stata
contaminata, e nello stesso tempo quella passione politica non era
portata in nessun modo a conciliarsi con la politica politicante del
mestiere politico-amministrativo».
Ribelle, “servo
disobbediente alle leggi del branco”, senza valori assoluti e
credenze dogmatiche ma con una sensibilità libertaria e un innato
senso di rivolta ai modi di vita borghesi, Fabrizio dal 1956, quando
ebbe ascoltato per la prima volta due 78 giri di George Brassens
regalatigli dal padre di ritorno dalla Francia, fu calamitato dalle
musiche e dalle idee anarchiche del burbero chansonnier.
Quest’ultimo divenne per lui un vero maestro da un punto di vista
didattico, ma anche di pensiero e di vita. Ascoltare i suoi dischi
equivaleva a leggere Socrate, essendo presenti in essi continui
indottrinamenti. «Mi ha insegnato», affermava De André, «che in
fin dei conti la ragionevolezza e la convivenza sociale autentica si
trovano di più in quella parte umiliata ed emarginata della nostra
società che non tra i potenti». Irriverenti verso il Potere e con
scavi nel sociale, le canzoni di Brassens trasportavano il giovane
Fabrizio in un mondo che in buona misura sentiva essere il suo. «Un
vero anticipatore delle tematiche libertarie del Sessantotto»,
diceva, «quindi è abbastanza naturale che in Italia io abbia messo
alla berlina alcuni tabù che vennero poi distrutti dalla ventata del
Sessantotto». Negli anni caldi della contestazione, delle voci
vocianti “Vietato vietare! Siamo realisti, prendiamo
l’impossibile!”, degli scontri violenti in piazza e dei
picchettaggi davanti alle fabbriche, il cantautore genovese aveva
pubblicato un disco tetro: Tutti morimmo a stento (1968). «È
come se De André, di fronte all’energia creativa che sembra
sprigionarsi da ogni dove (nel “movimento”, nella società, nella
musica, nel cinema, ecc.), ne colga già, non solo i limiti ma,
addirittura, i morbi mortiferi che andranno a incancrenire le
speranze della sua (e di quella immediatamente successiva)
generazione». Due anni dopo, il «letterato che cantava» aveva
trasposto la lotta delle classi nell’epoca remota dei Vangeli
apocrifi (La buona novella), dando di questi ultimi la lettura
moderna del conflitto tra oppressi e oppressori. Egli era convinto,
come ebbe modo di precisare più volte, che Gesù Cristo fosse stato
il più grande rivoluzionario di tutti i tempi: «quella di Gesù fu
una rivoluzione che aveva come obiettivo l’abbattimento di
qualsiasi privilegio, di qualsiasi differenza di classe e di ordine
sociale in nome della fratellanza che gli uomini dimostrarono, come
dimostrano, di non saper mettere in pratica». Sottolineava però che
«tra la rivoluzione di Gesù e quella di certi casinisti nostrani
c’è una bella differenza: lui combatteva per una realtà integrale
piena di perdono, altri combattevano e combattono per imporre il loro
potere». E mentre gli estremisti di destra e di sinistra
inneggiavano alla lotta armata, De André li irrideva traducendo
Mourir pour des idées di Brassens (Morire per delle idee,
in Canzoni), uno sfottò contro ogni retorica martirologica.
«Le parole di De André,
pur se anacronistiche rispetto a quanto stava succedendo nella
società italiana, e occidentale in genere (a una prima lettura, né
Villon né Brassens né lo stesso De André sembrano dire “qualche
cosa” dei tempi che stanno per cambiare), hanno invece un effetto
dirompente per chi, attraverso la scuola e la televisione, assorbita
la cultura dell’“Italia che lavora”, andava a messa e si
divertiva con il Festival di Sanremo, il Carosello e le imitazioni di
Alighiero Noschese in tv». I giovani ribelli rimanevano fortemente
attratti dai contenuti e dal linguaggio lirico e realistico insieme
usato da De André, «una empatia che avrà un ruolo non indifferente
nella costruzione di un immaginario collettivo anticonformista e
spregiudicato in quei giovani borghesi acculturati che iniziano a
credere in una loro funzione storica nel rivoluzionamento della
società dei padri». Ammetteva il cantautore: “Intorno al 1966 c’è
stato un momento in cui ho influenzato la mia generazione. Dal 1968
in poi direi di essere stato io influenzato dalla mia generazione
esplosa in quegli anni, un po’ più giovane della mia. […] Ho
interpretato spesso quello che la gente voleva sentirsi dire in certe
situazioni, fino a quando la realtà non ha cominciato a superare
questo bagaglio culturale e artistico, polveroso e stantio”.
Nel 1972, a cinque anni
di distanza dal Sessantotto (fatto non secondario perché, come
l’autore stesso annotava, «il pesce attraverso l’acqua non vede
l’acqua. Bisogna sapersi distaccare dalle cose per vederle bene»)
e nella fase nascente del terrorismo rosso, De André si fermò a
riflettere, attraverso la storia simbolica di un colletto bianco,
sulle cause che avevano generato la violenza politica e trascinato
uomini e donne nel gorgo del terrorismo. La figura dell’impiegato,
l’eroe della sconfitta e dell’abiezione remissiva, timoroso di
compiere una scelta di campo netta e decisa, in pieno clima
sessantottino era già stata tratteggiata con una comicità
dell’eccesso iperbolico da un suo amico fraterno che lavorava
presso l’Italsider, faceva cabaret in piccoli teatri e scriveva
canzoni con lui (Carlo Martello che ritorna dalla guerra di Poitier e
Il fannullone): Paolo Villaggio. Il ragionier Fantozzi, «vittima
delle peggiori vessazioni, spesso provocate dalla sua totale
goffaggine e inettitudine», aveva fatto la comparsa in quarantotto
raccontini pubblicati sulle colonne del settimanale «L’Europeo»,
riuniti in volume nel 1971. Fantozzi (definito dall’io narrante
«fondamentalmente un frustrato») cade in terra innumerevoli volte e
non smette mai di ferirsi, scottarsi, bagnarsi con la pioggia che
scende dalla «nuvola dell’impiegato» soltanto per lui. Se, a
causa degli sfortunati inconvenienti, non riesce mai a raggiungere
gli obiettivi è perché sono quelli promessi a tutti dalla civiltà
del benessere, cui l’Italia pensa di essere finalmente arrivata.
L’ideologia di Fantozzi, qualora ne avesse una – ha precisato un
decano degli studi letterari –, «sarebbe di natura anarchica,
nutrita di antiautoritarismo totale».
Faber, compagno di
scorribande di Paolo (era stato lui a dare a Fabrizio quel
soprannome, in omaggio ai pastelli che amava) in via Pré e in via
del Campo, pensò di raccontare a suo modo la storia di un
appartenente alla classe sociale emblema del conformismo, a cui lui
stesso, figlio di una famiglia benestante genovese, apparteneva.
Leggendo da giovanissimo Stato e anarchia (1873) di Bakunin,
aveva appreso l’importanza di essere «nemici di ogni autorità
perché il potere corrompe sia coloro che ne sono investiti che
coloro i quali devono soggiacervi. Sotto la sua nefasta influenza gli
uni si trasformano in despoti ambiziosi e avidi, in sfruttatori della
società a favore della propria persona o casta, gli altri in
schiavi». Sposando l’ideale anarchico di Proudhon, Malatesta,
Fabbri e Kropotkin si era affrancato dai preconcetti e da tutto ciò
che è sovrastruttura, aprendosi un orizzonte di libertà. Nel
gennaio del 1972 De André aveva confidato al settimanale «Oggi»
l’intenzione di produrre un «disco sull’anarchismo» e di essere
al lavoro da tempo «per incontrare quelle persone che l’anarchismo
l’hanno vissuto da vicino». Era fortemente attratto
dall’anarchismo perché «come ideologia politica negativa è
senz’altro la più onesta di tutte, anche perché gli anarchici
hanno sempre pagato di persona», puntualizzando però che il suo
voleva essere «un discorso essenzialmente poetico e umano: anche se
è chiaro che nella dinamica degli avvenimenti ci sarà della
politica e della violenza perché gli anarchici non è che gettassero
caramelle, gettavano bombe».
L’esito di questo
percorso, dopo un anno e mezzo di tormentato lavoro anche a causa
della crisi sentimentale che stava attraversando (era pieno di sensi
di colpa per aver lasciato la moglie, mentre il rapporto tormentato
con la nuova compagna, che compare nel disco sotto le mentite spoglie
della donna del bombarolo ed è la stessa della canzone Giugno
’73, era alla fine), è il «modernissimo e visionario» Storia
di un impiegato (Produttori Associati), inciso su vinile
nell’ottobre 1973. Quarto concept album della sua carriera,
prodotto come i due precedenti da Roberto Dané, era composto da
un’Introduzione con sonorità, a voler esprimere il “duello”
interiore nel protagonista, che sembrano prese da un film di Sergio
Leone e da otto brani scritti assieme a due marxisti convinti,
Fabrizio Bentivoglio e Nicola Piovani.
Il cantastorie genovese
racconta la parabola di un trentenne che con la «faccia usata dal
buonsenso» conduce una vita umbratile e silenziosa, chiusa nel
lavoro impiegatizio e regolata dalla monotonia delle più semplici
abitudini giornaliere («contavo i denti ai francobolli/ dicevo
“Grazie a Dio” “Buon Natale”»/ mi sentivo normale», La
bomba in testa). Questa esistenza senza luce è accesa un giorno
dall’ascolto quasi distratto di un canto di lotta del ’68
parigino, allorché il travet «sull’onda d’urto del Maggio
francese, si sente colpire dal pungiglione rivoluzionario e programma
di assestare una sciabolata mortale al Sistema». L’atmosfera
violenta del Sessantotto, con le «barricate», i «feriti», le
«granate», le «pantere» della polizia che «mordevano il sedere»
ai giovani contestatori massacrati sui marciapiedi e le automobili
incendiate, è rievocata nella Canzone del maggio, ripresa
dalla Chacun de vous est concerné (1968) di Dominique Grange,
all’epoca appartenente a un’organizzazione illegale maoista e
ricercata dalla polizia. «Se il fuoco ha risparmiato/ le vostre
Millecento/ anche se voi vi credete assolti/ siete per sempre
coinvolti» (ripresa con alcune varianti alla fine di ogni strofa),
canta con l’inconfondibile timbro pastoso Faber, a voler a dire:
anche chi in quelle giornate è rimasto chiuso in casa per paura è
ugualmente coinvolto negli avvenimenti; nessuno può chiamarsi fuori
dalla degenerazione della società di cui ognuno è un’espressione.
Questo tarlo interiore si
trasforma in un’ossessione. Scatta nell’impiegato la volontà di
liberarsi «da tutte le privazioni a cui è stato costretto, ma non
riesce a pensare di poterlo fare insieme agli altri perché il potere
lo ha consciamente isolato secondo il dettame del divide et impera».
Avendo mancato l’appuntamento con la grande contestazione, ora che
la realtà in cui vive lo ha segnato irrimediabilmente, il trentenne
crede di poter recuperare il tempo perduto prendendo una tragica
scorciatoia che lasci il segno: il battesimo del fuoco. «C’è solo
posto per la vendetta e la presunzione di potercela fare da solo, di
risolvere con un gesto solitario tutti i problemi che lo incatenano
al posto di lavoro»». Sogna di autoinvitarsi al «ballo mascherato
delle celebrità» dove si sono dati convegno in una sorta di bolgia
dantesca i miti della cultura borghese, sulla falsariga di Desolation
Row di Bob Dylan tradotta da Francesco De Gregori e rifinita e
inclusa da De André in Volume 8 (1975). Al ballo danzano
archetipi contrapposti: Cristo profeta di pace e Nobel inventore
della dinamite, Edipo e Maria Vergine, la Pietà e la Statua della
Libertà, Nelson e Bonaparte. Il colletto bianco getta la bomba della
«novità» e assiste «agli effetti dello scoppio su coloro che per
anni ha rispettato, gli hanno fatto paura, gli hanno imposto il
comportamento. La sua liberazione è totale, alla fine; dopo aver
assistito all’agonia di tutti e del padre e della madre, si libera
anche dell’amico che gli ha insegnato a ribellarsi, rendendo così
all’individualismo di cui è vittima il tributo definitivo».
Questo gesto, più che terroristico, rimanda metaforicamente «alla
necessità di una consapevole metamorfosi in vista della rivolta:
essere “d’un’altra razza”, bombaroli, significa portare
sempre con sé il coraggio di cambiare».
Ma la rivolta
dell’impiegato, ahimé, serve solo a fornire al Potere una nuova
maschera e un’ennesima legittimazione. Nel Sogno numero due
il giudice, servo del Potere, lo ringrazia di aver eliminato i vecchi
residui che davano fastidio al Potere stesso («per quello che hai
fatto/ per come lo hai rinnovato/ il potere ti è grato») e lo
informa che il suo gesto non è altro che la ricerca del potere
personale («E se tu la credevi vendetta/ il fosforo di guardia/
segnalava la tua urgenza di potere»). Il bombarolo viene accolto tra
coloro che contano e dispongono della libertà altrui, come tutti i
rivoluzionari che, una volta preso il potere, cessano di essere tali
per diventare amministratori. Ecco l’insegnamento ricevuto: chi non
gode di pieni diritti civili è pronto a fare una rivoluzione, ma
conquistati i diritti viene colto dall’irresistibile desiderio di
toglierli agli altri facendone degli schiavi.
All’impiegato non resta
che identificarsi e sostituirsi al più potente tra i simboli che
voleva distruggere: quello paterno. La mimesi è perfetta: «Ho
investito il denaro e gli affetti/ banca e famiglia danno rendite
sicure,/ con mia moglie si discute l’amore/ ci sono distanze, non
ci sono paure» (La canzone del padre). L’interpretazione di
questo testo ce la fornisce lo stesso autore, riflettendo anni dopo
sull’origine della lotta armata: “A questo punto si era capito
che le persone deluse dal fatto che la rivolta era fallita, che non
era diventata una rivoluzione vera, che non era cambiato nulla,
fuoriuscite dai partiti che avrebbero dovuto rappresentare la
sinistra, si erano armate. Il che equivale dire allo Stato, levati da
questa poltrona che mi ci voglio sedere io, che è poi quello che ho
cercato di dire ne La canzone del padre. Il terrorismo è
stata la vera esagerazione: il ’68 che ho vissuto io era un’epoca
ricca di fantasia, e ha fatto del bene. Le BR no, se avessero vinto
loro oggi staremmo peggio”.
La canzone del padre è
una freccia pungente lanciata verso i promotori delle istanze
rivoluzionarie («Lottavano così come si gioca/ i cuccioli del
maggio era normale/ loro avevano il tempo anche per la galera»,
canta nell’Introduzione), perché, secondo il cantautore, la
ribellione deve essere sempre un atto singolare. Come ha sottolineato
Federico Premi in un bel libro sul «pensatore anarchico» De André,
«la rivolta come egli la intende, non è esteriore, ma individuale,
interiore: non è cioè una rivoluzione sociale (che di fatto non
produce se non un semplice ricambio di potere), bensì una rivolta
esistenziale, del tipo di quella proposta da Max Stirner». Come
difatti sosteneva il filosofo tedesco nell’Unico e la sua proprietà
(1845), letto da Fabrizio all’età di diciannove anni, la
rivoluzione mira a una nuova organizzazione, mentre la ribellione ci
porta a organizzarci da soli. Vicino all’Unico stirneriano, De
André preferisce al noi, sottinteso dal concetto di classe che si
ribella, l’io o tutt’al più la somma di tanti io che si mettono
assieme per il raggiungimento di un obiettivo. Conseguentemente,
quella dell’impiegato si rivela essere una rivolta «romantica,
disperata». Il sogno si trasforma in un incubo, perché affiorano in
lui ricordi e paurose realtà che gli fanno capire «che in qualunque
modo è un uomo finito, senza possibilità di recupero, che i suoi
gesti saranno sempre individualisti, tesi al proprio bisogno
personale e che salendo la scala del potere non si sfugge comunque
alla propria condizione di isolamento e di angoscia». Aperti gli
occhi, decide in un momento di ebbrezza di affrancarsi da ogni
«ginnastica d’obbedienza» («mi sveglio ancora e mi sveglio
sudato, /ora aspettami fuori dal sogno/ ci vedremo davvero/ io
ricomincio da capo», Il bombarolo). «Si comporta da anarchico e
manda tutti a quel paese», chiosava De André. Ponendosi in
antagonismo ideologico rispetto al Potere («io son d’un’altra
razza/ son bombarolo»), il «trentenne disperato/ se non del tutto
giusto/ quasi niente sbagliato» progetta con estrema lucidità un
gesto anarchico individualista: un attentato vero al Parlamento per
ammazzare gente vera. Si illude però delle proprie abilità di
bombarolo e tutto finisce in una tragicommedia: l’ordigno da lui
preparato esplode prima del previsto, facendo saltare in aria
un’edicola di giornali.
Arrestato e rinchiuso in
carcere, il fallito giustiziere scrive una lettera alla fidanzata in
cui mette a nudo le sue frustrazioni. Si rende conto, nel dirle
addio, che il lavoro nella società è sinonimo di schiavitù e morte
(quest’ultima espressa metaforicamente dalla sfioritura della sua
interlocutrice immaginaria) e che il conformismo borghese li ha
cambiati tutti e due, rendendoli prigionieri dei padroni e del Potere
(Verranno a chiederti del nostro amore, in cui vengono ripresi
alcuni versi da Le plat pays di Jacques Brel). Esorta quindi
l’amata a non lasciarsi scegliere, ma finalmente di scegliere lei.
Siamo all’epilogo
(Nella mia ora di libertà). Figlio scartato della borghesia,
l’ex impiegato passa dall’io al noi, che non è una forzatura in
senso marxista, come la collaborazione ai testi con Bentivoglio
potrebbe far supporre. Come è stato osservato, «pur mantenendo al
centro della propria scala di valori l’individualità e la libertà
dell’uomo, il cantautore pone un limite naturale a questa libertà
nel momento in cui rischi di ledere quella altrui», e il noi finale
è il segno di una ribellione collettiva portata avanti in nome di
una necessità comune che si accorda a una somma di egoismi
stirneriani. Non era forse questo l’insegnamento dell’amato
Brassens?
“Detesto il gregge –
affermava lo chansonnier francese -, ma questo non ha niente a che
vedere con i necessari sforzi collettivi. Se ho bisogno degli amici
che mi aiutino a spostare una pietra, li chiamo. Non siamo stronzi se
ci uniamo per trarre in salvo degli uomini sepolti in una miniera. Ma
rifiuto il gruppo o la setta irreggimentata, e nessuno riuscirà a
convincermi che si pensa meglio quando mille persone urlano la stessa
cosa”.
Abbandonata la routine
impiegatizia e l’esasperato individualismo, l’ex travet apprende
ora «un sacco di cose/ in mezzo agli altri vestiti uguali». Prende
pienamente coscienza della realtà dell’inganno del Potere, ovvero
che è un’illusione pensare di poter sostituire ai poteri cattivi
dei poteri buoni (ripresa da La centrale idroelettrica di Bratsk
del poeta russo Evgenij Evtušenko, là dove il cosacco Stenka
Razin, che aveva capeggiato la rivolta dei contadini, prima di essere
giustiziato esclama che «non ci sono buoni zar») perché ogni gesto
di violenza individuale diretto contro il Potere è solo un fatto
estetico e non risolve nessun problema. All’interno del carcere
apprende «la meraviglia/ verso la gente che ruba il pane» perché
«è un delitto/ il non rubare quando si ha fame», ma soprattutto la
dimensione collettiva della protesta: un nuovo modo di sentire il
contatto con gli altri, di pensare e di gestire la propria persona.
Così, in una sorta di sciopero dell’ora d’aria, i carcerati
decidono di tenersi separati dalle guardie, facendole sentire
prigioniere del loro stesso ruolo, e ogni individualità collegata
alle altre riprende il ritornello della Canzone del maggio
(«venite adesso alla prigione/ state a sentire sulla porta/ la
nostra ultima canzone/ che vi ripete un’altra volta/ per quanto voi
vi crediate assolti/ siete per sempre coinvolti»), affinché coloro
che sono fuori dalla casa circondariale li possano sentire e possano
agire di conseguenza. Sta qui la chiave di lettura di questo concept
album: non bisogna credere «nella rivoluzione come mezzo di
elevazione al potere delle masse», perché «la rivoluzione potrebbe
essere controproducente quasi come il gesto sconsiderato del
“bombarolo” anarchico frustrato ed isolato moralmente e
politicamente». Originalissima l’intenzione di fare di Storia
di un impiegato un’allegoria del Sessantotto, dell’infrangersi
del sogno circa la possibilità che una rivoluzione possa portare a
una nuova società. L’errore commesso fu semmai quello di voler
rinchiudere nella forma canzone un saggio politico-sociale.
De André non rimase
soddisfatto del disco. “L’idea era affascinante – sbottò Faber
all’amico biografo Cesare Romana – dare del Sessantotto una
lettura poetica. Invece è venuto fuori un disco politico. Hai
presente Fo, o Pasolini? Sai quanto amo entrambi, ma hanno dei
momenti in cui l’analisi prevale sulla fantasia, mentre un artista
non dovrebbe mai rinunciare alla sua percentuale di diritto al
mistero. Ecco, a me è successo qualcosa di simile. E ho fatto
l’unica cosa che non avrei mai voluto fare, spiegare alla gente
come deve comportarsi”.
Lavorare a questo album
costò a Fabrizio molta fatica e angoscia perché calarsi
nell’impiegato era stato come calarsi in se stesso. Aveva già
fatto una scelta di rottura nei confronti dell’ambiente familiare
borghese di provenienza, ma «probabilmente su di lui pesa[va] ancora
molto, tanto da doverlo affrontare e liquidare per poter andare
finalmente libero per la sua strada: [aveva] bisogno insomma di
chiarire a se stesso l’inutilità e persino il ridicolo della
cultura individualista da cui arriva[va]».
“È come se mi fossi
strappato via qualcosa che mi apparteneva – confessava De André –.
Prima il borghese che diventa anarchico, e questo è normale, mi è
accaduto naturalmente, negli anni. Ora l’individualista che diventa
collettivista: e questa sì, che è stata una bella fatica. Come
farsi da solo la psicoterapia”.
Considerato il lavoro
discografico più controverso e tormentato di De André, bersaglio di
pesanti e taglienti accuse (giudicato scarsamente impegnato dalla
sinistra, fazioso e ambizioso dalla destra), rimase però «una
memoria a fuoco nelle coscienze di tanti giovani dell’epoca, che su
quel disco sognarono che fosse possibile, se non fare la rivoluzione,
almeno dare una scossa elettrica al potere». Un disco rabbioso,
romantico e coraggioso, che rappresenta «un pezzo di storia» ed
«esprime un’epoca» in vertiginoso mutamento, come le idee
dello stesso autore. Due anni dopo Faber, difatti, constatò
l’impossibilità della ripulsa collettiva. «Se Storia di un
impiegato riaccendeva bagliori sessantotteschi, Volume VIII
è la sconfortata consapevolezza di come la spinta propulsiva, le
utopie generose del Sessantotto siano sopravvissute, tutt’al più,
a se stesse, senza riuscire a diventare patrimonio di tutti, o siano
morte». Nel disco successivo (Rimini, 1978) De André
verificò la fine delle sassaiole contestatarie, del sindacalismo
agguerrito e l’avvento del moderatismo di sinistra. Quando il
segretario della CGIL Luciano Lama tenne un comizio alla Sapienza di
Roma (la «Little-Big-Horn») occupata dal movimento del ’77
invitando alla moderazione («capelli corti generale ci parlò
all’università/ dei fratelli tute blu che seppelliscono le asce»)
e venne violentemente contestato («ma non fumammo con lui, non era
venuto in pace»), Faber aveva rafforzato la sua opinione sulla
presunta connivenza dei sindacati con il potere: «a un dio fatti il
culo non credere mai» (Coda di lupo). I sogni rivoluzionari
si incagliarono come la London Valour (la tragedia navale avvenuta
nel ’70 davanti agli occhi indifferenti dei genovesi), costretti a
fare i conti con i nuovi politici in voga («macellaio mani di seta»)
che creavano tensioni sociali per poi distribuire munizioni alla
gente intenta a coalizzarsi «contro ogni sorta di naufragi e di
altre rivoluzioni», ad inseguire cioè il proprio individuale
orizzonte di salvezza (Parlando del naufragio della “London
Valour).
La borghesia, insomma,
aveva stravinto e la democrazia si stava manifestando per quello che
era realmente: una oligarchia. Gli italiani, perso «il senso della
propria dignità», negli anni Ottanta vivevano, affermava
amareggiato De André, «in una specie di limbo, dove nessuno aveva
più voglia di protestare, figuriamoci poi di ribellarsi». Nella
Domenica delle salme (Nuvole, 1990) riassunse
esemplarmente la passata stagione dell’impegno politico nella
figura del «poeta» e «carbonaro» Renato Curcio, che ancora lotta
e spera, mentre, evaporato il dissenso e rimaste le ceneri
dell’ideologia, la «vibrante protesta» del popolo assopito e muto
si riduce a un frinire di cicale, emblema del menefreghismo
collettivo.
Lo chansonnier
genovese rimaneva tuttavia dell’idea che il Sessantotto non fosse
una storia da raccontare come si raccontano le cose concluse, perché
non è era finito. «Che cosa intendi dire?», gli chiese Luciano
Lanza durante un’intervista. Lui risoluto replicò: «Non considero
il Sessantotto soltanto come un periodo storico definito, un
crogiuolo di idee innovatrici: è una categoria dello spirito. È il
perenne risvegliarsi dell’uomo di fronte alle ingiustizie, alla
sopraffazione, alla tracotanza del potere. Per un libertario, e io mi
definisco tale, il Sessantotto ha rappresentato una grande occasione
per rilanciare le idee di libertà e uguaglianza, nella diversità».
Il Sessantotto non è ancora finito. Parola di Faber.
Dal
blog La letteratura e noi,
postato il 28 novembre 2018
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