14.3.19

Storia di un impiegato. Il ’68 di Fabrizio de André (Michele Rossi)

Riprendo senza le note - utilissime - da “La letteratura e noi”, il blog fondato da Romano Luperini, il saggio di Michele Rossi su de André e il '68, con la premessa introduttiva. (S.L.L.)


A cinquant’anni di distanza da uno degli snodi più significativi della storia recente, l’editore Solfanelli pubblica il volume Il '68. Costruzione e decostruzione di un mito, a cura di Sandro de Nobile. I sedici saggi compresi nel volume tentano da un lato di ricostruire l’eredità che il ’68 ha lasciato all’interno di particolari settori artistici (la poesia e il teatro), dall’altro di analizzare come il movimento sia stato osservato, metabolizzato e cristallizzato nel racconto dalla stessa poesia, dalla narrativa, dalla canzone d’autore, dal cinema, strumenti fondamentali nella costruzione di un mito che ancora oggi divide, tra esaltazioni, riduzioni e stigmatizzazioni. La redazione, per gentile concessione dell’editore, è lieta di pubblicare il saggio di Michele Rossi dedicato a "Storia di un impiegato". (La letteratura e noi)


Quando all’alba del 30 aprile 1975 le forze della polizia politica travestite da operai dell’elettricità riuscirono a farsi aprire la porta e fecero irruzione in un appartamento torinese ponendo fine alla clandestinità di due brigatisti rossi, tra cui il reggiano Tonino Passaroli (nome di battaglia “Pippo”), compagno di lotta di Alberto Franceschini, Prospero Gallinari e Mara Cagol, che due mesi prima aveva preso parte a una delle azioni più clamorose delle Brigate rosse, l’evasione di Renato Curcio dal carcere di Casale Monferrato, ebbero una bella sorpresa. Mentre il terrorista veniva portato via con le manette ai polsi e con il pugno chiuso esclamava “Mi dichiaro prigioniero politico”, in mezzo all’arsenale teorico e militare del covo (testi di storia, filosofia e teoria politica, materiale di propaganda e pistole di vario calibro) la squadra investigativa scorse diverse musicassette contenenti le canzoni di Fabrizio De André. Se la notizia non provocò stupore negli ex sessantottini, in quanto le idee anarcoidi di cantautore genovese e le sue canzoni grondanti ribellione esistenziale avevano influenzato una parte significativa dei giovani irriverenti e contestatari, i reparti investigativi lo furono probabilmente ancora di meno. Per l’antiterrorismo Fabrizio De André era un delinquente allo stato potenziale, vicino ai sovversivi.
Dalla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, il “sedicente” cantautore era monitorato e sorvegliato come attivista dell’ultrasinistra. Le indagini della polizia sull’attentato dinamitardo avevano puntato subito su un certo Isaia Mabellini, un marxista-leninista «in rapporto – si legge nella scheda segnaletica della polizia – con tale De André Fabrizio, non meglio generalizzato, ligure, universitario a Milano, filocinese, noto cantautore e contestatore». A seguito di questa segnalazione, la questura di Genova, contattata dal Ministero degli Interni per ottenere informazioni in merito all’artista, in una nota dettagliata scriveva: «Il De André Fabrizio, noto cantautore, pur essendo studente universitario fuori corso in giurisprudenza, si interessa di questioni artistiche, provvede alla incisione dei dischi delle proprie canzoni, ha effettuato qualche spettacolo in televisione, ma non appare mai nei pubblici teatri». Cantore dei “santi senza dio”, dei dannati della terra, sofisticato autore di testi poetici per musica che destavano scalpore tra i benpensanti, De André era già una leggenda. Però, bizzarro che possa sembrare, dal vivo non lo aveva ancora visto nessuno. «Gli appassionati avevano imparato ad amarlo – racconta Gino Castaldo nel Romanzo della canzone italiana – nel mistero dei dischi, un artista, nascosto, praticamente invisibile» a causa della sua paura patologica del pubblico. Quando saliva su un palco non solo era incapace di suonare, ma anche di aprire bocca e di muoversi. «Ogni volta che mi trovo di fronte al pubblico l’emozione mi chiude la gola e non riesco più a cantare», confessava. Anche la televisione, salvo rarissime apparizioni, la evitava come la peste. «E questo rappresenta in un certo senso un record – scrivevano i giornali dell’epoca – perché è l’unico cantante italiano di successo le cui serate non siano occupate da esibizioni». Tutto era De André, insomma, all’infuori di un presenzialista. Per il fatto «che nessuno lo conoscesse e che in fondo non si sapesse neanche doveva viveva, si può dire che è stato il primo mito italiano», ha dichiarato anni fa l’autore di Bomba o non bomba.
Lo era di certo per i brigatisti, anche se probabilmente non avevano ben ascoltato i testi delle sue canzoni. O forse sì. Quello che è certo, è che non ne avevano ben compreso il pensiero libertario e anarchico, esplicitato anche nelle interviste che, assieme ai numerosi appunti oggi conservati presso l’Archivio Fabrizio De André dell’università di Siena, costituiscono il cantiere di lavoro deandreiano a cui dobbiamo far riferimento per abbracciare compiutamente la dimensione poetica e visionaria del trovatore genovese.
Il ’68 – confessava Fabrizio De André in una lunga intervista degli anni Novanta - io l’ho vissuto a contatto con questi gruppi di estrema sinistra, partecipando al tentativo di rinnovamento; non li ho seguiti, perché di solito un artista, indipendentemente dall’ideologia, è un coniglio individualista. Mai avrei fatto la lotta armata, ma condividevo quasi tutti quelli che oggi vengono definiti gli eccessi sessantottini, anche perché li avevo quasi promossi, attraverso le mie canzoni. Se alle manifestazioni un autonomo sgangherato iniziava a tirare pistolettate, questo non lo condividevo sicuramente, ma condividevo la rivolta contro un certo modo di gestire la società che non teneva minimamente conto della società stessa. Volevamo diminuire la distanza tra il potere e la società. Abbiamo ottenuto diverse vittorie: pensa solo alla liberazione sessuale, frutto del ’68, purtroppo frustrata dalla paura dell’AIDS, o alla libertà di informazione, che allora non esisteva realmente. Certo, ho anche fatto concerti in mezzo a bombe molotov e lacrimogeni”.
Il Sessantotto era stata una ribellione contro ogni autorità costituita, una rivolta antigerarchica, libertaria e fraterna. Sentendosi padroni del futuro, i giovani desideravano abitare il mondo e volevano l’immaginazione al potere. Cominciata senza bandiere, con le assemblee, le occupazioni e i cortei, la critica dei ragazzi ai sistemi scolastico e universitario si era poi estesa alla società capitalistica, politicizzandosi, con pestaggi tra rossi e neri, tra gli studenti e la polizia. Ben presto la contestazione era uscita dalle aule e aveva invaso le fabbriche. Con gli scioperi del ‘69 a singhiozzo, i cortei interni e gli assalti alle catene di montaggio, la classe operaia aveva rivendicato l’aumento dello stipendio uguale per tutti e ottenuto i primi risultati con lo Statuto dei lavoratori. C’era però chi, come Lotta continua e Potere operaio, sosteneva che le conquiste del riformismo sindacale avevano rallentato la marcia della rivoluzione, e chi era passato alla lotta armata (“Tutto il potere al popolo armato!”). I sogni del Sessantotto si tramutavano così in piombo, con centinaia di persone uccise per ragioni ideologiche, dando vita a un’italica «Spoon River», una Shot river, una collina con morti legati da uno stesso tragico destino.
Ad offuscare la ricreazione assembleare era stata la strategia della tensione che aveva esaurito l’energia del Sessantotto nei crimini della politica occulta. Tutto ebbe inizio con la prima strage, alla Banca dell’Agricoltura di Milano, «il giorno dell’innocenza perduta» come sottotitola il bel libro di Giorgio Boatti. La «strage di Stato», ricordata anche nella dolente Patmos di Pier Paolo Pasolini, ingenerò un senso di paura diffusa, una sfiducia negli apparati dello Stato, che apparve assassino. Questo senso d’insanabile sfiducia nello Stato crebbe ad ogni bomba esplosa (l’attentato del treno del Sole a Gioia Tauro il 22 luglio 1970, il 17 maggio 1973 davanti alla questura di Milano etc.) fino al 1984, quando la tempesta delle stragi si placò lasciando sul selciato 150 corpi dilaniati e 652 sporchi di sangue, assieme alle illusioni di un’intera generazione. Il clima caldo della ribellione si arrestò, così, nella palude dei misteri italiani e la democrazia mostrò il suo cuore di tenebra. Le nostre «lotte non potranno essere nonviolente e legalitarie come vorrebbe il partito se addirittura lo Stato Borghese ha dovuto organizzare la strage di piazza Fontana per fermare l’avanza della sinistra e i bollori dell’“autunno caldo”», gridavano i rivoluzionari passando all’illegalità. Così la pensava anche il “bombarolo-editore” Giangiacomo Feltrinelli, amico di Fidel Castro e guevarista militante, prima di saltare in aria il 14 marzo 1972 mentre si apprestava a sabotare un traliccio dell’Enel per provocare un black out a Milano. Dopo gli “espropri proletari” compiuti per autofinanziarsi, i terroristi rossi influenzati dalle stragi neofasciste e di Stato passarono dai sequestri lampo di dirigenti, sindacalisti e uomini delle istituzioni ai primi morti ammazzati per attaccare “il cuore dello Stato”.
Questo periodo d’estrema fragilità della nostra Repubblica è stato rappresentato in modo originale da un eminente filosofo-giornalista come un triangolo retto, con due cateti (la destra estrema e la sinistra estrema) e un’ipotenusa che li unisce (lo Stato deviato). Una costruzione geometrica animata dalla carne e dal sangue delle persone rimaste uccise, perché «ci furono un’estrema destra e un’estrema sinistra che si contrapponevano usando i mezzi illegali della violenza, delle armi, delle bombe, dei complotti e delle stragi; e c'è un’altra forza che aizza la destra e la sinistra affinché la violenza esploda, organizza misteriosi provocatori, finanzia operazioni clandestine, corrompe e usa le istituzioni dello Stato per alimentare il disordine anziché controllarlo e spegnerlo». Il Sessantotto entrò così in un buco nero dal quale non sarebbe più uscito. La passione della politica - ha scritto un finissimo intellettuale - non ebbe più ragion di essere «perché era stata bruciata, prima dalla strategia occulta di apparati dello Stato; in seconda battuta dalla deriva terroristica. Quella passione, ereditata dalla formazione sessantottesca non esisteva più perché era stata contaminata, e nello stesso tempo quella passione politica non era portata in nessun modo a conciliarsi con la politica politicante del mestiere politico-amministrativo».
Ribelle, “servo disobbediente alle leggi del branco”, senza valori assoluti e credenze dogmatiche ma con una sensibilità libertaria e un innato senso di rivolta ai modi di vita borghesi, Fabrizio dal 1956, quando ebbe ascoltato per la prima volta due 78 giri di George Brassens regalatigli dal padre di ritorno dalla Francia, fu calamitato dalle musiche e dalle idee anarchiche del burbero chansonnier. Quest’ultimo divenne per lui un vero maestro da un punto di vista didattico, ma anche di pensiero e di vita. Ascoltare i suoi dischi equivaleva a leggere Socrate, essendo presenti in essi continui indottrinamenti. «Mi ha insegnato», affermava De André, «che in fin dei conti la ragionevolezza e la convivenza sociale autentica si trovano di più in quella parte umiliata ed emarginata della nostra società che non tra i potenti». Irriverenti verso il Potere e con scavi nel sociale, le canzoni di Brassens trasportavano il giovane Fabrizio in un mondo che in buona misura sentiva essere il suo. «Un vero anticipatore delle tematiche libertarie del Sessantotto», diceva, «quindi è abbastanza naturale che in Italia io abbia messo alla berlina alcuni tabù che vennero poi distrutti dalla ventata del Sessantotto». Negli anni caldi della contestazione, delle voci vocianti “Vietato vietare! Siamo realisti, prendiamo l’impossibile!”, degli scontri violenti in piazza e dei picchettaggi davanti alle fabbriche, il cantautore genovese aveva pubblicato un disco tetro: Tutti morimmo a stento (1968). «È come se De André, di fronte all’energia creativa che sembra sprigionarsi da ogni dove (nel “movimento”, nella società, nella musica, nel cinema, ecc.), ne colga già, non solo i limiti ma, addirittura, i morbi mortiferi che andranno a incancrenire le speranze della sua (e di quella immediatamente successiva) generazione». Due anni dopo, il «letterato che cantava» aveva trasposto la lotta delle classi nell’epoca remota dei Vangeli apocrifi (La buona novella), dando di questi ultimi la lettura moderna del conflitto tra oppressi e oppressori. Egli era convinto, come ebbe modo di precisare più volte, che Gesù Cristo fosse stato il più grande rivoluzionario di tutti i tempi: «quella di Gesù fu una rivoluzione che aveva come obiettivo l’abbattimento di qualsiasi privilegio, di qualsiasi differenza di classe e di ordine sociale in nome della fratellanza che gli uomini dimostrarono, come dimostrano, di non saper mettere in pratica». Sottolineava però che «tra la rivoluzione di Gesù e quella di certi casinisti nostrani c’è una bella differenza: lui combatteva per una realtà integrale piena di perdono, altri combattevano e combattono per imporre il loro potere». E mentre gli estremisti di destra e di sinistra inneggiavano alla lotta armata, De André li irrideva traducendo Mourir pour des idées di Brassens (Morire per delle idee, in Canzoni), uno sfottò contro ogni retorica martirologica.
«Le parole di De André, pur se anacronistiche rispetto a quanto stava succedendo nella società italiana, e occidentale in genere (a una prima lettura, né Villon né Brassens né lo stesso De André sembrano dire “qualche cosa” dei tempi che stanno per cambiare), hanno invece un effetto dirompente per chi, attraverso la scuola e la televisione, assorbita la cultura dell’“Italia che lavora”, andava a messa e si divertiva con il Festival di Sanremo, il Carosello e le imitazioni di Alighiero Noschese in tv». I giovani ribelli rimanevano fortemente attratti dai contenuti e dal linguaggio lirico e realistico insieme usato da De André, «una empatia che avrà un ruolo non indifferente nella costruzione di un immaginario collettivo anticonformista e spregiudicato in quei giovani borghesi acculturati che iniziano a credere in una loro funzione storica nel rivoluzionamento della società dei padri». Ammetteva il cantautore: “Intorno al 1966 c’è stato un momento in cui ho influenzato la mia generazione. Dal 1968 in poi direi di essere stato io influenzato dalla mia generazione esplosa in quegli anni, un po’ più giovane della mia. […] Ho interpretato spesso quello che la gente voleva sentirsi dire in certe situazioni, fino a quando la realtà non ha cominciato a superare questo bagaglio culturale e artistico, polveroso e stantio”.
Nel 1972, a cinque anni di distanza dal Sessantotto (fatto non secondario perché, come l’autore stesso annotava, «il pesce attraverso l’acqua non vede l’acqua. Bisogna sapersi distaccare dalle cose per vederle bene») e nella fase nascente del terrorismo rosso, De André si fermò a riflettere, attraverso la storia simbolica di un colletto bianco, sulle cause che avevano generato la violenza politica e trascinato uomini e donne nel gorgo del terrorismo. La figura dell’impiegato, l’eroe della sconfitta e dell’abiezione remissiva, timoroso di compiere una scelta di campo netta e decisa, in pieno clima sessantottino era già stata tratteggiata con una comicità dell’eccesso iperbolico da un suo amico fraterno che lavorava presso l’Italsider, faceva cabaret in piccoli teatri e scriveva canzoni con lui (Carlo Martello che ritorna dalla guerra di Poitier e Il fannullone): Paolo Villaggio. Il ragionier Fantozzi, «vittima delle peggiori vessazioni, spesso provocate dalla sua totale goffaggine e inettitudine», aveva fatto la comparsa in quarantotto raccontini pubblicati sulle colonne del settimanale «L’Europeo», riuniti in volume nel 1971. Fantozzi (definito dall’io narrante «fondamentalmente un frustrato») cade in terra innumerevoli volte e non smette mai di ferirsi, scottarsi, bagnarsi con la pioggia che scende dalla «nuvola dell’impiegato» soltanto per lui. Se, a causa degli sfortunati inconvenienti, non riesce mai a raggiungere gli obiettivi è perché sono quelli promessi a tutti dalla civiltà del benessere, cui l’Italia pensa di essere finalmente arrivata. L’ideologia di Fantozzi, qualora ne avesse una – ha precisato un decano degli studi letterari –, «sarebbe di natura anarchica, nutrita di antiautoritarismo totale».
Faber, compagno di scorribande di Paolo (era stato lui a dare a Fabrizio quel soprannome, in omaggio ai pastelli che amava) in via Pré e in via del Campo, pensò di raccontare a suo modo la storia di un appartenente alla classe sociale emblema del conformismo, a cui lui stesso, figlio di una famiglia benestante genovese, apparteneva. Leggendo da giovanissimo Stato e anarchia (1873) di Bakunin, aveva appreso l’importanza di essere «nemici di ogni autorità perché il potere corrompe sia coloro che ne sono investiti che coloro i quali devono soggiacervi. Sotto la sua nefasta influenza gli uni si trasformano in despoti ambiziosi e avidi, in sfruttatori della società a favore della propria persona o casta, gli altri in schiavi». Sposando l’ideale anarchico di Proudhon, Malatesta, Fabbri e Kropotkin si era affrancato dai preconcetti e da tutto ciò che è sovrastruttura, aprendosi un orizzonte di libertà. Nel gennaio del 1972 De André aveva confidato al settimanale «Oggi» l’intenzione di produrre un «disco sull’anarchismo» e di essere al lavoro da tempo «per incontrare quelle persone che l’anarchismo l’hanno vissuto da vicino». Era fortemente attratto dall’anarchismo perché «come ideologia politica negativa è senz’altro la più onesta di tutte, anche perché gli anarchici hanno sempre pagato di persona», puntualizzando però che il suo voleva essere «un discorso essenzialmente poetico e umano: anche se è chiaro che nella dinamica degli avvenimenti ci sarà della politica e della violenza perché gli anarchici non è che gettassero caramelle, gettavano bombe».
L’esito di questo percorso, dopo un anno e mezzo di tormentato lavoro anche a causa della crisi sentimentale che stava attraversando (era pieno di sensi di colpa per aver lasciato la moglie, mentre il rapporto tormentato con la nuova compagna, che compare nel disco sotto le mentite spoglie della donna del bombarolo ed è la stessa della canzone Giugno ’73, era alla fine), è il «modernissimo e visionario» Storia di un impiegato (Produttori Associati), inciso su vinile nell’ottobre 1973. Quarto concept album della sua carriera, prodotto come i due precedenti da Roberto Dané, era composto da un’Introduzione con sonorità, a voler esprimere il “duello” interiore nel protagonista, che sembrano prese da un film di Sergio Leone e da otto brani scritti assieme a due marxisti convinti, Fabrizio Bentivoglio e Nicola Piovani.
Il cantastorie genovese racconta la parabola di un trentenne che con la «faccia usata dal buonsenso» conduce una vita umbratile e silenziosa, chiusa nel lavoro impiegatizio e regolata dalla monotonia delle più semplici abitudini giornaliere («contavo i denti ai francobolli/ dicevo “Grazie a Dio” “Buon Natale”»/ mi sentivo normale», La bomba in testa). Questa esistenza senza luce è accesa un giorno dall’ascolto quasi distratto di un canto di lotta del ’68 parigino, allorché il travet «sull’onda d’urto del Maggio francese, si sente colpire dal pungiglione rivoluzionario e programma di assestare una sciabolata mortale al Sistema». L’atmosfera violenta del Sessantotto, con le «barricate», i «feriti», le «granate», le «pantere» della polizia che «mordevano il sedere» ai giovani contestatori massacrati sui marciapiedi e le automobili incendiate, è rievocata nella Canzone del maggio, ripresa dalla Chacun de vous est concerné (1968) di Dominique Grange, all’epoca appartenente a un’organizzazione illegale maoista e ricercata dalla polizia. «Se il fuoco ha risparmiato/ le vostre Millecento/ anche se voi vi credete assolti/ siete per sempre coinvolti» (ripresa con alcune varianti alla fine di ogni strofa), canta con l’inconfondibile timbro pastoso Faber, a voler a dire: anche chi in quelle giornate è rimasto chiuso in casa per paura è ugualmente coinvolto negli avvenimenti; nessuno può chiamarsi fuori dalla degenerazione della società di cui ognuno è un’espressione.
Questo tarlo interiore si trasforma in un’ossessione. Scatta nell’impiegato la volontà di liberarsi «da tutte le privazioni a cui è stato costretto, ma non riesce a pensare di poterlo fare insieme agli altri perché il potere lo ha consciamente isolato secondo il dettame del divide et impera». Avendo mancato l’appuntamento con la grande contestazione, ora che la realtà in cui vive lo ha segnato irrimediabilmente, il trentenne crede di poter recuperare il tempo perduto prendendo una tragica scorciatoia che lasci il segno: il battesimo del fuoco. «C’è solo posto per la vendetta e la presunzione di potercela fare da solo, di risolvere con un gesto solitario tutti i problemi che lo incatenano al posto di lavoro»». Sogna di autoinvitarsi al «ballo mascherato delle celebrità» dove si sono dati convegno in una sorta di bolgia dantesca i miti della cultura borghese, sulla falsariga di Desolation Row di Bob Dylan tradotta da Francesco De Gregori e rifinita e inclusa da De André in Volume 8 (1975). Al ballo danzano archetipi contrapposti: Cristo profeta di pace e Nobel inventore della dinamite, Edipo e Maria Vergine, la Pietà e la Statua della Libertà, Nelson e Bonaparte. Il colletto bianco getta la bomba della «novità» e assiste «agli effetti dello scoppio su coloro che per anni ha rispettato, gli hanno fatto paura, gli hanno imposto il comportamento. La sua liberazione è totale, alla fine; dopo aver assistito all’agonia di tutti e del padre e della madre, si libera anche dell’amico che gli ha insegnato a ribellarsi, rendendo così all’individualismo di cui è vittima il tributo definitivo». Questo gesto, più che terroristico, rimanda metaforicamente «alla necessità di una consapevole metamorfosi in vista della rivolta: essere “d’un’altra razza”, bombaroli, significa portare sempre con sé il coraggio di cambiare».
Ma la rivolta dell’impiegato, ahimé, serve solo a fornire al Potere una nuova maschera e un’ennesima legittimazione. Nel Sogno numero due il giudice, servo del Potere, lo ringrazia di aver eliminato i vecchi residui che davano fastidio al Potere stesso («per quello che hai fatto/ per come lo hai rinnovato/ il potere ti è grato») e lo informa che il suo gesto non è altro che la ricerca del potere personale («E se tu la credevi vendetta/ il fosforo di guardia/ segnalava la tua urgenza di potere»). Il bombarolo viene accolto tra coloro che contano e dispongono della libertà altrui, come tutti i rivoluzionari che, una volta preso il potere, cessano di essere tali per diventare amministratori. Ecco l’insegnamento ricevuto: chi non gode di pieni diritti civili è pronto a fare una rivoluzione, ma conquistati i diritti viene colto dall’irresistibile desiderio di toglierli agli altri facendone degli schiavi.
All’impiegato non resta che identificarsi e sostituirsi al più potente tra i simboli che voleva distruggere: quello paterno. La mimesi è perfetta: «Ho investito il denaro e gli affetti/ banca e famiglia danno rendite sicure,/ con mia moglie si discute l’amore/ ci sono distanze, non ci sono paure» (La canzone del padre). L’interpretazione di questo testo ce la fornisce lo stesso autore, riflettendo anni dopo sull’origine della lotta armata: “A questo punto si era capito che le persone deluse dal fatto che la rivolta era fallita, che non era diventata una rivoluzione vera, che non era cambiato nulla, fuoriuscite dai partiti che avrebbero dovuto rappresentare la sinistra, si erano armate. Il che equivale dire allo Stato, levati da questa poltrona che mi ci voglio sedere io, che è poi quello che ho cercato di dire ne La canzone del padre. Il terrorismo è stata la vera esagerazione: il ’68 che ho vissuto io era un’epoca ricca di fantasia, e ha fatto del bene. Le BR no, se avessero vinto loro oggi staremmo peggio”.
La canzone del padre è una freccia pungente lanciata verso i promotori delle istanze rivoluzionarie («Lottavano così come si gioca/ i cuccioli del maggio era normale/ loro avevano il tempo anche per la galera», canta nell’Introduzione), perché, secondo il cantautore, la ribellione deve essere sempre un atto singolare. Come ha sottolineato Federico Premi in un bel libro sul «pensatore anarchico» De André, «la rivolta come egli la intende, non è esteriore, ma individuale, interiore: non è cioè una rivoluzione sociale (che di fatto non produce se non un semplice ricambio di potere), bensì una rivolta esistenziale, del tipo di quella proposta da Max Stirner». Come difatti sosteneva il filosofo tedesco nell’Unico e la sua proprietà (1845), letto da Fabrizio all’età di diciannove anni, la rivoluzione mira a una nuova organizzazione, mentre la ribellione ci porta a organizzarci da soli. Vicino all’Unico stirneriano, De André preferisce al noi, sottinteso dal concetto di classe che si ribella, l’io o tutt’al più la somma di tanti io che si mettono assieme per il raggiungimento di un obiettivo. Conseguentemente, quella dell’impiegato si rivela essere una rivolta «romantica, disperata». Il sogno si trasforma in un incubo, perché affiorano in lui ricordi e paurose realtà che gli fanno capire «che in qualunque modo è un uomo finito, senza possibilità di recupero, che i suoi gesti saranno sempre individualisti, tesi al proprio bisogno personale e che salendo la scala del potere non si sfugge comunque alla propria condizione di isolamento e di angoscia». Aperti gli occhi, decide in un momento di ebbrezza di affrancarsi da ogni «ginnastica d’obbedienza» («mi sveglio ancora e mi sveglio sudato, /ora aspettami fuori dal sogno/ ci vedremo davvero/ io ricomincio da capo», Il bombarolo). «Si comporta da anarchico e manda tutti a quel paese», chiosava De André. Ponendosi in antagonismo ideologico rispetto al Potere («io son d’un’altra razza/ son bombarolo»), il «trentenne disperato/ se non del tutto giusto/ quasi niente sbagliato» progetta con estrema lucidità un gesto anarchico individualista: un attentato vero al Parlamento per ammazzare gente vera. Si illude però delle proprie abilità di bombarolo e tutto finisce in una tragicommedia: l’ordigno da lui preparato esplode prima del previsto, facendo saltare in aria un’edicola di giornali.
Arrestato e rinchiuso in carcere, il fallito giustiziere scrive una lettera alla fidanzata in cui mette a nudo le sue frustrazioni. Si rende conto, nel dirle addio, che il lavoro nella società è sinonimo di schiavitù e morte (quest’ultima espressa metaforicamente dalla sfioritura della sua interlocutrice immaginaria) e che il conformismo borghese li ha cambiati tutti e due, rendendoli prigionieri dei padroni e del Potere (Verranno a chiederti del nostro amore, in cui vengono ripresi alcuni versi da Le plat pays di Jacques Brel). Esorta quindi l’amata a non lasciarsi scegliere, ma finalmente di scegliere lei.
Siamo all’epilogo (Nella mia ora di libertà). Figlio scartato della borghesia, l’ex impiegato passa dall’io al noi, che non è una forzatura in senso marxista, come la collaborazione ai testi con Bentivoglio potrebbe far supporre. Come è stato osservato, «pur mantenendo al centro della propria scala di valori l’individualità e la libertà dell’uomo, il cantautore pone un limite naturale a questa libertà nel momento in cui rischi di ledere quella altrui», e il noi finale è il segno di una ribellione collettiva portata avanti in nome di una necessità comune che si accorda a una somma di egoismi stirneriani. Non era forse questo l’insegnamento dell’amato Brassens?
“Detesto il gregge – affermava lo chansonnier francese -, ma questo non ha niente a che vedere con i necessari sforzi collettivi. Se ho bisogno degli amici che mi aiutino a spostare una pietra, li chiamo. Non siamo stronzi se ci uniamo per trarre in salvo degli uomini sepolti in una miniera. Ma rifiuto il gruppo o la setta irreggimentata, e nessuno riuscirà a convincermi che si pensa meglio quando mille persone urlano la stessa cosa”.
Abbandonata la routine impiegatizia e l’esasperato individualismo, l’ex travet apprende ora «un sacco di cose/ in mezzo agli altri vestiti uguali». Prende pienamente coscienza della realtà dell’inganno del Potere, ovvero che è un’illusione pensare di poter sostituire ai poteri cattivi dei poteri buoni (ripresa da La centrale idroelettrica di Bratsk del poeta russo Evgenij Evtušenko, là dove il cosacco Stenka Razin, che aveva capeggiato la rivolta dei contadini, prima di essere giustiziato esclama che «non ci sono buoni zar») perché ogni gesto di violenza individuale diretto contro il Potere è solo un fatto estetico e non risolve nessun problema. All’interno del carcere apprende «la meraviglia/ verso la gente che ruba il pane» perché «è un delitto/ il non rubare quando si ha fame», ma soprattutto la dimensione collettiva della protesta: un nuovo modo di sentire il contatto con gli altri, di pensare e di gestire la propria persona. Così, in una sorta di sciopero dell’ora d’aria, i carcerati decidono di tenersi separati dalle guardie, facendole sentire prigioniere del loro stesso ruolo, e ogni individualità collegata alle altre riprende il ritornello della Canzone del maggio («venite adesso alla prigione/ state a sentire sulla porta/ la nostra ultima canzone/ che vi ripete un’altra volta/ per quanto voi vi crediate assolti/ siete per sempre coinvolti»), affinché coloro che sono fuori dalla casa circondariale li possano sentire e possano agire di conseguenza. Sta qui la chiave di lettura di questo concept album: non bisogna credere «nella rivoluzione come mezzo di elevazione al potere delle masse», perché «la rivoluzione potrebbe essere controproducente quasi come il gesto sconsiderato del “bombarolo” anarchico frustrato ed isolato moralmente e politicamente». Originalissima l’intenzione di fare di Storia di un impiegato un’allegoria del Sessantotto, dell’infrangersi del sogno circa la possibilità che una rivoluzione possa portare a una nuova società. L’errore commesso fu semmai quello di voler rinchiudere nella forma canzone un saggio politico-sociale.
De André non rimase soddisfatto del disco. “L’idea era affascinante – sbottò Faber all’amico biografo Cesare Romana – dare del Sessantotto una lettura poetica. Invece è venuto fuori un disco politico. Hai presente Fo, o Pasolini? Sai quanto amo entrambi, ma hanno dei momenti in cui l’analisi prevale sulla fantasia, mentre un artista non dovrebbe mai rinunciare alla sua percentuale di diritto al mistero. Ecco, a me è successo qualcosa di simile. E ho fatto l’unica cosa che non avrei mai voluto fare, spiegare alla gente come deve comportarsi”.
Lavorare a questo album costò a Fabrizio molta fatica e angoscia perché calarsi nell’impiegato era stato come calarsi in se stesso. Aveva già fatto una scelta di rottura nei confronti dell’ambiente familiare borghese di provenienza, ma «probabilmente su di lui pesa[va] ancora molto, tanto da doverlo affrontare e liquidare per poter andare finalmente libero per la sua strada: [aveva] bisogno insomma di chiarire a se stesso l’inutilità e persino il ridicolo della cultura individualista da cui arriva[va]».
È come se mi fossi strappato via qualcosa che mi apparteneva – confessava De André –. Prima il borghese che diventa anarchico, e questo è normale, mi è accaduto naturalmente, negli anni. Ora l’individualista che diventa collettivista: e questa sì, che è stata una bella fatica. Come farsi da solo la psicoterapia”.
Considerato il lavoro discografico più controverso e tormentato di De André, bersaglio di pesanti e taglienti accuse (giudicato scarsamente impegnato dalla sinistra, fazioso e ambizioso dalla destra), rimase però «una memoria a fuoco nelle coscienze di tanti giovani dell’epoca, che su quel disco sognarono che fosse possibile, se non fare la rivoluzione, almeno dare una scossa elettrica al potere». Un disco rabbioso, romantico e coraggioso, che rappresenta «un pezzo di storia» ed «esprime un’epoca» in vertiginoso mutamento, come le idee dello stesso autore. Due anni dopo Faber, difatti, constatò l’impossibilità della ripulsa collettiva. «Se Storia di un impiegato riaccendeva bagliori sessantotteschi, Volume VIII è la sconfortata consapevolezza di come la spinta propulsiva, le utopie generose del Sessantotto siano sopravvissute, tutt’al più, a se stesse, senza riuscire a diventare patrimonio di tutti, o siano morte». Nel disco successivo (Rimini, 1978) De André verificò la fine delle sassaiole contestatarie, del sindacalismo agguerrito e l’avvento del moderatismo di sinistra. Quando il segretario della CGIL Luciano Lama tenne un comizio alla Sapienza di Roma (la «Little-Big-Horn») occupata dal movimento del ’77 invitando alla moderazione («capelli corti generale ci parlò all’università/ dei fratelli tute blu che seppelliscono le asce») e venne violentemente contestato («ma non fumammo con lui, non era venuto in pace»), Faber aveva rafforzato la sua opinione sulla presunta connivenza dei sindacati con il potere: «a un dio fatti il culo non credere mai» (Coda di lupo). I sogni rivoluzionari si incagliarono come la London Valour (la tragedia navale avvenuta nel ’70 davanti agli occhi indifferenti dei genovesi), costretti a fare i conti con i nuovi politici in voga («macellaio mani di seta») che creavano tensioni sociali per poi distribuire munizioni alla gente intenta a coalizzarsi «contro ogni sorta di naufragi e di altre rivoluzioni», ad inseguire cioè il proprio individuale orizzonte di salvezza (Parlando del naufragio della “London Valour).
La borghesia, insomma, aveva stravinto e la democrazia si stava manifestando per quello che era realmente: una oligarchia. Gli italiani, perso «il senso della propria dignità», negli anni Ottanta vivevano, affermava amareggiato De André, «in una specie di limbo, dove nessuno aveva più voglia di protestare, figuriamoci poi di ribellarsi». Nella Domenica delle salme (Nuvole, 1990) riassunse esemplarmente la passata stagione dell’impegno politico nella figura del «poeta» e «carbonaro» Renato Curcio, che ancora lotta e spera, mentre, evaporato il dissenso e rimaste le ceneri dell’ideologia, la «vibrante protesta» del popolo assopito e muto si riduce a un frinire di cicale, emblema del menefreghismo collettivo.
Lo chansonnier genovese rimaneva tuttavia dell’idea che il Sessantotto non fosse una storia da raccontare come si raccontano le cose concluse, perché non è era finito. «Che cosa intendi dire?», gli chiese Luciano Lanza durante un’intervista. Lui risoluto replicò: «Non considero il Sessantotto soltanto come un periodo storico definito, un crogiuolo di idee innovatrici: è una categoria dello spirito. È il perenne risvegliarsi dell’uomo di fronte alle ingiustizie, alla sopraffazione, alla tracotanza del potere. Per un libertario, e io mi definisco tale, il Sessantotto ha rappresentato una grande occasione per rilanciare le idee di libertà e uguaglianza, nella diversità». Il Sessantotto non è ancora finito. Parola di Faber.

Dal blog La letteratura e noi, postato il 28 novembre 2018

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