4.3.19

“Mai fare l'elemosina” - così disse Daniel Defoe (Lucio Villari)

Gli "slums" di Londra in una incisione del 700

Un libro che contenga scritti di Daniel Defoe si compra a scatola chiusa. Il nome dell’autore di Robinson Crusoe, di Moll Flanders, di Lady Roxana, non ha, d’altronde, bisogno di presentazione. Ma, se si volessero paragonare i libri «d’autore» a prodotti commerciali di grande marca, bisogna dire, allora, che, come i produttori di questi ultimi stanno molto attenti alla qualità e genuinità di ciò che vendono, anche gli editori devono rispettare le regole e le precise norme filologiche che gli autori importanti e i loro testi di per sé impongono. Cosa che, in verità, accade quasi sempre. Grande è stata, perciò, la mia sorpresa nello scorrere un volume di saggi di Defoe (Fare l’elemosina non è carità. Dare lavoro ai poveri è un danno per la nazione, in traduzione e cura di Vincenzo Accattatis, Feltrinelli, pagg. 138) che, a parte qualche frammento, non erano mai stati tradotti in italiano.

Tagli a volontà
Il volume si presenta così: cinquantadue pagine di introduzione, settantuno di testo. Una sproporzione evidente, che fa delle pagine di Defoe quasi un supporto al saggio di Accattatis. Ma questo è il meno. I testi di Defoe hanno subito, in questa prima edizione italiana, se non erro, centosettantanove tagli; e trentadue parti di essi vengono date per riassunto. I saggi sono tre, più una breve silloge degli articoli pubblicati su “The Review” tra il 1704 e il 1705. Tutti questi scritti sono stati tagliuzzati, ma il curatore dà conto solo dei tagli operati su uno di essi (il Saggio sui progetti) con una spiegazione tautologica che non spiega nulla: «La ragione per la quale non vengono offerti testi integrali è evidente: non si poteva tradurre in modo completo un testo eterogeneo e composito quale il Saggio sui progetti». Insomma, i prodotti Defoe vanno venduti «sciolti»... Per finire, neanche quella preziosa ancella della filologia o della critica del testo che è la cronologia è stata rispettata; cosicché il Saggio sui progetti, che è del 1692 ma pubblicato nel 1699, è messo qui al secondo posto; La difesa del povero, che è del 1698, al terzo posto; Fare l'elemosina non è carità, del 1704, al primo.
A queste osservazioni si potrà obiettare che con un poligrafo, giornalista e indaffarato agente del governo quale fu Defoe, non si debba poi andare troppo per il sottile; ma è proprio la grande attenzione che il curatore presta a questi testi a rendere esigente il lettore. Non si può infatti affermare che «Defoe può essere considerato uno dei primi progettatori sociali dell’epoca moderna. Bentham e Beveridge si collocano in quella corrente di pensiero che ha in Defoe uno dei primi rappresentanti», e poi escludere dal Saggio sui progetti gran parte delle attendibili statistiche elaborate dall’autore. Così come non avrebbe senso ripubblicare il Piano Beveridge del 1942 senza le numerose tavole che lo illustrano. È anche ad esse che fa ricorso lo storico per capire i meccanismi interni di quel Piano che è tra gli archetipi del Welfare State.
È pur vero, tuttavia, che ciò che interessa Accattatis è lo spirito che anima quel tipico rappresentante del capitalismo nascente inglese che fu Daniel Defoe, più che i numeri da lui sciorinati. E in questo può avere ragione. Dalla lettura di questi scritti non è però del tutto chiara l’intenzione che il curatore vuole attribuire a Defoe di avere immaginato e suggerito forme nuove di previdenza sociale. Certo, la sua idea che l’elemosina non serva a mitigare il pauperismo è abbastanza originale e moderna.
D’altronde il capitalismo inglese nasce proprio sotto gli occhi di Defoe (dalla Banca d’Inghilterra del 1694 alla Compagnia dei Mari del Sud del 1711, alla rapida sostituzione della «classe» degli affaristi, dei commercianti, dei negrieri, degli industriali a quella dell’aristocrazia terriera e del sangue). E Defoe coglie subito la «chiave» del nuovo sistema di rapporti sociali di produzione, che consiste anzitutto nel fare degli individui privi di risorse, dei semplici portatori di «merce forza-lavoro».
In tale quadro i poveri e i disoccupati non possono dunque esistere. Come osserva Accattatis, la tesi di Defoe è che «occorre che i poveri trovino il lavoro da sé, che cerchino e si ingegnino, che occupino posti reperibili sul mercato». Molto spesso, a suo avviso, lo stato di bisogno nasce dall’ozio e dalla pigrizia; solo laddove l’indigenza è dovuta a malattie o infortuni è possibile pensare a una qualche forma di intervento «sociale». Di qui alcuni suggerimenti, quali le Friendley Societies, una specie di «accordo stipulato tra persone allo scopo di soccorrersi vicendevolmente in caso di danno». Ma, avverte subito Defoe, accordi del genere possono essere siglati solo tra coloro «la cui condizione di vita sia, in certo modo, simile e omogenea», come è, ad esempio, il caso dei marinai.
Andiamoci piano, allora, a parlare di «previdenza sociale»; Defoe registra piuttosto l’inizio di quel processo di parcellizzazione sociale e di divisione degli interessi collettivi in interessi individualistici e settoriali che è tipico del sistema economico che, alla fine del ’600, sta per rivoluzionare la società feudale. Un sistema nel quale il denaro comincia a precisarsi come forma astratto-concreta di capitale, di salario, di merce di scambio, di alternativa ad altri valori. «Quanto a me», dice infatti Moll Flanders di un suo corteggiatore, «ciò che mi premeva era il suo denaro e ciò che potevo cavar da lui».
Il riferimento ai personaggi dei romanzi di Defoe è, a questo punto, inevitabile. Essi, con Robinson in testa, non sono altro che una figurazione, quanto mai realistica e penetrante, di quel capitalismo delle origini che, come un toro infuriato, tutto travolge nella sua corsa agli affari, ai guadagni, al «mercato». Perfino l’isola che tenne per ventisette anni prigioniero Robinson Crusoe sarà da questi, dopo la sua liberazione, lottizzata e data in affitto a quanti la abiteranno. Defoe non ha molte sfumature; i suoi eroi non hanno reazioni estetiche.

Cinque giganti
Il romanziere e il saggista dunque si incontrano e Defoe può tranquillamente scrivere nel 1704: «Non occorrono leggi per cercare di procurare lavoro ai poveri, occorrono invece leggi per costringere i poveri a lavorare»; dove il lavoro viene perfettamente definito come uno strumento di sfruttamento e non come un mezzo di liberazione e di miglioramento. Sembra di sentire il presidente della Confindustria italiano Angelo Costa, che nel 1946 dichiarava: «Non è il lavoro che deve andare in cerca degli uomini, ma sono gli uomini che devono andare in cerca del lavoro»; filosofia, questa, che provocherà la grande ondata di migrazioni interne degli anni ’50 e ’60 dal Sud al Nord, con le conseguenze che ben conosciamo.
La protezione sociale è, quindi, ben altro; è quella del Piano Beveridge, dove, con un linguaggio alla Defoe — ma ben lontani da lui — ci si propone «di attaccare i cinque giganti: la Miseria..., la Malattia..., l’Ignoranza...; lo Squallore, che sorge soltanto con una distribuzione senza ordine dell’industria e della popolazione; e l’Ozio». E dove è pure proclamato a chiare lettere un principio che per il capitalismo è una vera e propria eresia: «Il Piano di Protezione Sociale è soprattutto un metodo di redistribuzione del reddito».

“la Repubblica”, ritaglio senza data, ma 1982

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