Gli "slums" di Londra in una incisione del 700 |
Un libro che contenga
scritti di Daniel Defoe si compra a scatola chiusa. Il nome
dell’autore di Robinson Crusoe, di Moll Flanders, di Lady
Roxana, non ha, d’altronde, bisogno di presentazione. Ma, se si
volessero paragonare i libri «d’autore» a prodotti commerciali di
grande marca, bisogna dire, allora, che, come i produttori di questi
ultimi stanno molto attenti alla qualità e genuinità di ciò che
vendono, anche gli editori devono rispettare le regole e le precise
norme filologiche che gli autori importanti e i loro testi di per sé
impongono. Cosa che, in verità, accade quasi sempre. Grande è
stata, perciò, la mia sorpresa nello scorrere un volume di saggi di
Defoe (Fare l’elemosina non è carità. Dare lavoro ai poveri è
un danno per la nazione, in traduzione e cura di Vincenzo
Accattatis, Feltrinelli, pagg. 138) che, a parte qualche frammento,
non erano mai stati tradotti in italiano.
Tagli a volontà
Il volume si presenta
così: cinquantadue pagine di introduzione, settantuno di testo. Una
sproporzione evidente, che fa delle pagine di Defoe quasi un supporto
al saggio di Accattatis. Ma questo è il meno. I testi di Defoe hanno
subito, in questa prima edizione italiana, se non erro,
centosettantanove tagli; e trentadue parti di essi vengono date per
riassunto. I saggi sono tre, più una breve silloge degli articoli
pubblicati su “The Review” tra il 1704 e il 1705. Tutti questi
scritti sono stati tagliuzzati, ma il curatore dà conto solo dei
tagli operati su uno di essi (il Saggio sui progetti) con una
spiegazione tautologica che non spiega nulla: «La ragione per la
quale non vengono offerti testi integrali è evidente: non si poteva
tradurre in modo completo un testo eterogeneo e composito quale il
Saggio sui progetti». Insomma, i prodotti Defoe vanno venduti
«sciolti»... Per finire, neanche quella preziosa ancella della
filologia o della critica del testo che è la cronologia è stata
rispettata; cosicché il Saggio sui progetti, che è del 1692
ma pubblicato nel 1699, è messo qui al secondo posto; La difesa
del povero, che è del 1698, al terzo posto; Fare l'elemosina
non è carità, del 1704, al primo.
A queste osservazioni si
potrà obiettare che con un poligrafo, giornalista e indaffarato
agente del governo quale fu Defoe, non si debba poi andare troppo per
il sottile; ma è proprio la grande attenzione che il curatore presta
a questi testi a rendere esigente il lettore. Non si può infatti
affermare che «Defoe può essere considerato uno dei primi
progettatori sociali dell’epoca moderna. Bentham e Beveridge si
collocano in quella corrente di pensiero che ha in Defoe uno dei
primi rappresentanti», e poi escludere dal Saggio sui progetti
gran parte delle attendibili statistiche elaborate dall’autore.
Così come non avrebbe senso ripubblicare il Piano Beveridge del 1942
senza le numerose tavole che lo illustrano. È anche ad esse che fa
ricorso lo storico per capire i meccanismi interni di quel Piano che
è tra gli archetipi del Welfare State.
È pur vero, tuttavia,
che ciò che interessa Accattatis è lo spirito che anima quel tipico
rappresentante del capitalismo nascente inglese che fu Daniel Defoe,
più che i numeri da lui sciorinati. E in questo può avere ragione.
Dalla lettura di questi scritti non è però del tutto chiara
l’intenzione che il curatore vuole attribuire a Defoe di avere
immaginato e suggerito forme nuove di previdenza sociale. Certo, la
sua idea che l’elemosina non serva a mitigare il pauperismo è
abbastanza originale e moderna.
D’altronde il
capitalismo inglese nasce proprio sotto gli occhi di Defoe (dalla
Banca d’Inghilterra del 1694 alla Compagnia dei Mari del Sud del
1711, alla rapida sostituzione della «classe» degli affaristi, dei
commercianti, dei negrieri, degli industriali a quella
dell’aristocrazia terriera e del sangue). E Defoe coglie subito la
«chiave» del nuovo sistema di rapporti sociali di produzione, che
consiste anzitutto nel fare degli individui privi di risorse, dei
semplici portatori di «merce forza-lavoro».
In tale quadro i poveri e
i disoccupati non possono dunque esistere. Come osserva Accattatis,
la tesi di Defoe è che «occorre che i poveri trovino il lavoro da
sé, che cerchino e si ingegnino, che occupino posti reperibili sul
mercato». Molto spesso, a suo avviso, lo stato di bisogno nasce
dall’ozio e dalla pigrizia; solo laddove l’indigenza è dovuta a
malattie o infortuni è possibile pensare a una qualche forma di
intervento «sociale». Di qui alcuni suggerimenti, quali le
Friendley Societies, una specie di «accordo stipulato tra persone
allo scopo di soccorrersi vicendevolmente in caso di danno». Ma,
avverte subito Defoe, accordi del genere possono essere siglati solo
tra coloro «la cui condizione di vita sia, in certo modo, simile e
omogenea», come è, ad esempio, il caso dei marinai.
Andiamoci piano, allora,
a parlare di «previdenza sociale»; Defoe registra piuttosto
l’inizio di quel processo di parcellizzazione sociale e di
divisione degli interessi collettivi in interessi individualistici e
settoriali che è tipico del sistema economico che, alla fine del
’600, sta per rivoluzionare la società feudale. Un sistema nel
quale il denaro comincia a precisarsi come forma astratto-concreta di
capitale, di salario, di merce di scambio, di alternativa ad altri
valori. «Quanto a me», dice infatti Moll Flanders di un suo
corteggiatore, «ciò che mi premeva era il suo denaro e ciò che
potevo cavar da lui».
Il riferimento ai
personaggi dei romanzi di Defoe è, a questo punto, inevitabile.
Essi, con Robinson in testa, non sono altro che una figurazione,
quanto mai realistica e penetrante, di quel capitalismo delle origini
che, come un toro infuriato, tutto travolge nella sua corsa agli
affari, ai guadagni, al «mercato». Perfino l’isola che tenne per
ventisette anni prigioniero Robinson Crusoe sarà da questi, dopo la
sua liberazione, lottizzata e data in affitto a quanti la abiteranno.
Defoe non ha molte sfumature; i suoi eroi non hanno reazioni
estetiche.
Cinque giganti
Il romanziere e il
saggista dunque si incontrano e Defoe può tranquillamente scrivere
nel 1704: «Non occorrono leggi per cercare di procurare lavoro ai
poveri, occorrono invece leggi per costringere i poveri a lavorare»;
dove il lavoro viene perfettamente definito come uno strumento di
sfruttamento e non come un mezzo di liberazione e di miglioramento.
Sembra di sentire il presidente della Confindustria italiano Angelo
Costa, che nel 1946 dichiarava: «Non è il lavoro che deve andare in
cerca degli uomini, ma sono gli uomini che devono andare in cerca del
lavoro»; filosofia, questa, che provocherà la grande ondata di
migrazioni interne degli anni ’50 e ’60 dal Sud al Nord, con le
conseguenze che ben conosciamo.
La protezione sociale è,
quindi, ben altro; è quella del Piano Beveridge, dove, con un
linguaggio alla Defoe — ma ben lontani da lui — ci si propone «di
attaccare i cinque giganti: la Miseria..., la Malattia...,
l’Ignoranza...; lo Squallore, che sorge soltanto con una
distribuzione senza ordine dell’industria e della popolazione; e
l’Ozio». E dove è pure proclamato a chiare lettere un principio
che per il capitalismo è una vera e propria eresia: «Il Piano di
Protezione Sociale è soprattutto un metodo di redistribuzione del
reddito».
“la Repubblica”,
ritaglio senza data, ma 1982
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