Monumenti
alti decine di metri, dipinti con decine di personaggi. I mille
artisti del centro Mansudae producono opere gigantesche che trovano
committenti dalla Germania al Senegal
Fuoco e fiamme. E fanti,
elefanti, templi, nella giungla: un dipinto murale lungo più di
cento metri, e decine di migliaia di personaggi che agitano questa
fastosa celebrazione pittorica della capitale dell’impero Khmer
durante il XII secolo. La gloria di Angkor è celebrata nel nuovo,
scintillante museo Panorama: l’ennesima macchina per turisti di
Siem Reap. Tutto made in Cambogia? No. Quello che si trova sotto il
tetto spiovente di questo edificio è interamente made in Corea del
Nord: l’investimento – di almeno 24 milioni di dollari –, la
realizzazione artistica e la gestione. Pyongyang esporta arte, e lo
fa da anni. Questo museo è solo l’ultimo di una serie di lavori
commissionati e realizzati dal colossale Mansudae Art Studio, aperto
e attivo dal 1959 nella capitale della Repubblica popolare
democratica di Corea.
Il Mansudae, che ha una
superficie di 120 mila metri quadrati e impiega circa 4 mila persone
– fra cui un migliaio di artisti –, lavora su due fronti: in
patria, e all’estero attraverso la divisione Overseas Projects.
Tutto, o quasi tutto, ciò che di artistico e architettonico è
creato nella terra dei Kim è pensato e realizzato in questo
perimetro d’arte non lontano dal centro della capitale.
Il Grande Monumento, con
le statue colossali di Kim Il-sung e Kim Jong-il, o l’imponente
gruppo statuario (falce, martello e pennello) che celebra la
fondazione del Partito dei lavoratori della Corea sono i due esempi
più imponenti di queste creazioni. Ed è proprio questo savoir-faire
per le opere ciclopiche che il Mansudae esporta all’estero come
un’eccellenza nazionale. Spesso in Paesi africani, e non di rado
per celebrare qualche presidente devoto al proprio ego: la divisione
internazionale del centro d’arte lavora dal 1970 e ha costruito
negli anni monumenti, stadi e palazzi dal Congo alla Cambogia,
passando per la Namibia, lo Zimbabwe e persino la Germania, che ha
affidato allo studio la riproduzione della Fontana della Favola a
Francoforte, distrutta durante la Seconda guerra mondiale.
Ma la creazione più
celebre del Mansudae in terra straniera è il Monumento al
Rinascimento africano, un gruppo statuario alto 49 metri che domina
Dakar, la capitale del Senegal. Più alto della Statua della Libertà
o del Cristo di Rio, il monumento, voluto dall’ex presidente
Abdoulaye Wade, ha avuto una storia travagliata. Affidato ai
nordcoreani in quanto meno cari della concorrenza, l’opera è stata
attaccata dall’opinione pubblica perché la donna prosperosa e poco
coperta del complesso offende la sensibilità religiosa della
popolazione musulmana. In più, lo stesso presidente è dovuto
intervenire dopo il primo svelamento dei volti delle statue: tratti
somatici troppo asiatici per diventare emblemi della nuova Africa.
Wade ha richiesto e ottenuto un lifting statuario per “africanizzare”
il monumento.
Per i lavori all’estero,
squadre di artisti e operai nordcoreani si installano in loco e
lavorano fino alla realizzazione della commessa. «Gli operai possono
restare nel Paese dove l’opera è in costruzione anche anni. Un mio
amico artista ne è rimasto tre nello Zimbawe». La voce è di Pier
Luigi Cecioni, unico referente dello studio Mansudae per l’Occidente.
Lui però non si occupa dei grandi progetti internazionali, che sono
gestiti direttamente dal governo: il suo compito copre la vendita
(online) e l’organizzazione di esposizioni in Italia di pezzi
d’arte prodotti a Pyongyang.
«È cominciato tutto per
puro caso», racconta Cecioni a pagina99. «Nel 2005 ero presidente
di un’orchestra di musica classica di Firenze, e una nostra
delegazione era stata invitata in Corea del Nord per un festival.
Quando me l’hanno detto ho pensato ci fosse un errore, doveva per
forza essere l’altra Corea. E invece no». Appassionato di arte,
Cecioni quando arriva sul posto chiede di poter vedere qualcosa della
produzione artistica locale, così è accompagnato al Mansudae. «Un
posto incredibile dove centinaia di artisti, tra i 25 e i 75 anni,
tutti laureati nelle scuole d’arte, lavorano ogni genere di
materiale, si dedicano alle tecniche più diverse». C’è la
pittura coreana tradizionale a china su carta, gli oli, i poster, i
mosaici, il ricamo e la pittura con pietre preziose polverizzate.
Una produzione artistica
standardizzata, un’arte ufficiale quindi? In un certo senso, ma
bisogna essere precisi. «In una realtà come quella nordcoreana che
riflette una società confucianamente ultra-ortodossa dipinta da un
sottile strato di vernice rossa, non si può parlare di arte
ufficiale, perché di fatto l’arte è sempre stata tutta
ufficiale», ci spiega Maurizio Riotto, professore di lingua e
letteratura coreana nell’Università “L’Orientale” di Napoli.
E continua: «L’iniziativa del singolo artista non può essere
considerata. Questo deve inquadrarsi in un gusto ufficiale dal quale
non si può derogare, oggi come cinque secoli fa. In Estremo Oriente,
del resto, ripetere all’infinito uno stesso tema non è mai stato
motivo né d’imbarazzo né di vergogna: semmai, la bravura e
l’originalità dell’artista si rivelano nel modo di trattare un
tema tramandato da secoli».
Per gli artisti del
Mansudae è un onore poter lavorare in questa città dell’arte. Non
per i soldi, in Corea del Nord gli stipendi sono uguali per (quasi)
tutti, né per la gloria. Piuttosto per il senso di collettività
inculcato dalla propaganda: «L’apparato mostra in modo ossessivo
ritratti eroici dei leader. L’immagine culto di Kim Il-sung come
padre benevolo è mostrata per esempio nella visione della “grande
famiglia socialista” in cui Kim Il-sung, e più tardi anche il
figlio Kim Jong-il, il partito, e il popolo coreano sono legati con
un unico cuore e un’unica mente. Sono un corpo solo, membri di una
famiglia unita dal sangue. Sono figure mitizzate e come tali vengono
venerate», spiega a pagina99 Giuseppina de Nicola, coreanista e
antropologa docente del corso di lingua e letteratura coreana alla
Sapienza di Roma.
Anche l’entrata del
Masudae è “sorvegliata” da due immensi ritratti di Padre e
Figlio della nazione. Alcune loro indicazioni hanno direttamente
determinato lo sviluppo della pittura nordcoreana contemporanea. È
stato Kim Il-sung, negli anni ’60, a rendere accettabile la pittura
a olio e negli ’70 a valorizzare il paesaggio come soggetto
pittorico. Il figlio è stato ancora più esplicito: «Un soggetto
deve essere pitturato in modo che il suo significato sia
comprensibile a chi lo guarda». Niente arte astratta o concettuale
in Corea del Nord, quindi. E a sfogliare il catalogo sul sito del
Mansudae Art Studio lo si nota immediatamente: niente avanguardismo,
ma quadri oriental-bucolici, paesaggi urbani e poster che celebrano
il lavoratore e la vita nel “paradiso” dei Kim. Ma tra tutte
queste opere una serie salta all’occhio, per ricordare qualcosa a
noi italiani. Quando agli ottavi della Coppa del mondo di calcio,
allora Coppa Rimet, nel ’66 in Inghilterra ci siamo fatti infilare
da un diagonale di Pak Doo-Ik. Quel giorno è entrato nella loro
storia sportiva e dell’arte. Il titolo è una lezione amara da
ricordare: One can always lose.
Pagina 99, 5 mazo 2016
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