Per la nuova edizione Adelphi del
Pasticciaccio di Gadda
(dicembre 2018), una recensione sintetica che propone come chiave
una sorta di omologia tra racconto, struttura e lingua, “il caos
raccontato con il caos”. Utilissime le notizie sulla genesi
travagliata del capolavoro gaddiano. (S.L.L.)
Campione senza rivali fra
i romanzi del modernismo italiano e della letteratura italiana tout
court del secondo Novecento torna in libreria Quer pasticciaccio
brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda, a cura di Giorgio
Pinotti per Adelphi. Da qualche anno a questa parte la casa editrice
milanese sta provvedendo alla ristampa delle opere dell’ingegner
Gadda, con nuovi apparati critici, forti anche degli scandagli
effettuati nell’Archivio Liberati (anche in questa occasione non
mancano i carotaggi di Pinotti: da leggere le sue introduzioni o
clausole critiche come veri e propri romanzi-nel-romanzo).
Gadda iniziò a scrivere
il suo giallo programmaticamente “conandoyliano” intorno alla
fine della seconda guerra mondiale, ne pubblicò alcuni tratti sulla
rivista “Letteratura” e, poi, come molti suoi altri lavori –
cantieri aperti che, per la maggior parte, sono stati consegnati a
noi impossibili da chiudere – lo lasciò andare, tuttavia senza
abbandonarlo mai. Tant’è che in seguito, stretto al muro dagli
editori, dalle difficoltà di campare (perché, attenzione, Gadda è
uno scrittore scapigliato, un bohémien senza la bohème, uno
scrittore che ha patito disagio e precarietà, che fino alla
vecchiaia ha vissuto d’anticipi, di debiti, in ristrettezze,
scrivendo sotterraneamente, sempre con la valigia pronta a
traslocare, tra stanze in affitto, pensioni, pigioni, romitaggi
amicali), insomma, in una situazione dalla quale era, come di
consueto per lui, difficile uscire, riprese il suo romanzo giallo e,
in un clima di perpetua guerra psicologica con l’editore Livio
Garzanti, diede finalmente alle stampe Quer pasticciaccio brutto
de via Merulana nel 1957. Immediato successo di pubblico (15.000
copie in 6 mesi di vita), un Gadda ormai sessantenne inopinatamente
ritratto nelle cronache mondane, premi letterari e fama che mai aveva
avuto: difficile uscirne illesi e difatti il nostro ne uscì depresso
e insterilito. Con il Pasticciaccio, infatti, si chiude
l’attività creativa gaddiana, interrompendo quella che, nelle
intenzioni dell’autore, era soltanto la prima puntata di un giallo
in due volumi.
Impossibile comunque
chiudere l’architettura entropica che cresceva in un arcipelago
sempre più eterogeneo e centrifugo, una fuga terrestre, una
pericolosa china verso l’informale, a meno di non voler essere
incoerenti. Un pasticciaccio-giallo, la dinamica del mistero della
conoscenza in una Roma mai così caput mundi come ora e mai più così
magnete di destini, politica, con l’ombra del “Predappiofezzo”,
cioè Mussolini, a minacciare lo spazio e il tempo. Siamo nel 1927 e
al 219 di via Merulana, nel “palazzo degli ori”, un orrendo
delitto – anticipato da un “rubalizio degli ori” del giorno
prima, ai danni della vedova Menecacci, anziana ereditiera veneta con
più di una fantasia di stupro – chiama il detective don Ciccio
Ingravallo, “comandato alla mobile”, a indagare. La vittima è
Liliana Balducci, signora dell’alta borghesia romana, figlia di
quei “pescecani” che durante la prima guerra avevano accumulato
notevoli fortune: il capitalismo, si sa, è una maledizione. Liliana,
vittima prim’ancora che di un coltellaccio diabolico di un disturbo
narcisistico (messo a fuoco nel laboratorio di Eros e Priapo:
Gadda infatti iniziò a comporre quell’altra sinfonia apocalittica
negli stessi anni del Pasticciaccio di “Letteratura”); il
suo cadavere viene ritrovato sgozzato, cruentemente raffigurato come
un Rembrandt, prima di Bacon, come un tocco di carne da farne
scempio, in una scena di un lirismo melodrammatico assoluto,
ineguagliato. L’indagine di don Ciccio sarà irradiazione,
diffrazione, diramazione, scoppio di piste ed epistemologie:
s’intreccerà con il furto subito dalla contessa, con i carabinieri
e soprattutto con l’extra muros delle campagne romane, dove la vita
ribolle infernale e calda, dionisiaca e istintiva.
Gadda narra il caos con
il caos: l’enigma insolubile della “ragione del mondo”,
vorticosamente stritolata da una specie di “depressione ciclonica”
(così anche nel libro più puramente filosofico del Gran Lombardo,
ovvero la giovanile Meditazione milanese), dalla serie delle
“concause” che hanno avvoltolato il filo d’Arianna della realtà
fino a renderlo un “gomitolo” o meglio ancora, uno “gnommero”,
raccontato con una lingua che è essa stessa gemmazione
dell’incontrollato: Roma è Babylon: il diapason gaddiano rammenta
la proliferazione dei linguaggi che affollano questo terminal delle
anime; sotto la Roma eterea della ricca borghesia brucia la cenere di
una romanità/umanità selvaggia e incoercibile, felice di essere
carne da cannone mussoliniano – è sempre lui, il “Kuce” di
Eros e Priapo – che trova il suo habitat nella campagna laziale:
l’ecologia di Albano Laziale, del Divino Amore ecc. è già
deflagrazione dei sensi e del Male, che per Gadda, è anzitutto
allontanamento dal Bene della ragione. Le piste che porteranno
Ingravallo e i colleghi carabinieri (fra i quali il motorizzato
Pestalozzi, protagonista di un sogno del “topazio” ancora oggi
memorabile per pirotecnia onirica) in una discesa ctonia fra
elettricisti farabutti, marchettari, servette, donne-demoniche
saranno destinate a chiudersi con il più celebre finale della
letteratura italiana contemporanea, in quella che Gadda stesso
chiamava “apocope drammatica”, ovvero in una sostanziale assenza
del colpevole.
L'Indice, marzo 2019
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