È meglio godersi un
breve, piccante, saggio biografico o percorrere il lungo interessante
iter che una biografia standard, informatissima, ci propone?
Molto dipende da chi
scrive e da chi è l’oggetto della scrittura, ovviamente. Ma
personaggi ardui, verticali come i vittoriani inglesi, tutti d’un
pezzo nelle loro pazzie e nelle loro virtù, anch’esse sospette, è
meglio servirli in piccole dosi: freddi, sepolti sotto una salsa
esotica. Un biografo raffinato come Lytton Strachey cuoce a fuoco
lento un soggetto durissimo, Florence Nightingale (nata nel 1820 a
Firenze, da cui il nome), la segue nella sua lunga vita – morì a
novanta anni –, illustrando le numerose imprese, mosse dalla sua
potente vocazione infermieristica. Ora, Masolino d’Amico sfida il
grande biografo in un saggio ancor più breve del suo, ma che si
avvantaggia di una prospettiva diversa, L’infermiera inglese
(Skira, pp. 92, e13,00). Strachey aveva a disposizione l’ottima
biografia di Edward Cook e una memoria ancora viva di quella che
veniva chiamata la «dama con la lampada», mentre d’Amico si
avvale, oltre agli scritti lasciati da lei, di studi più recenti.
Strachey sferra un colpo da maestro proprio all’inizio: «Tutti
conoscono la popolare figura di Florence Nightingale, la santa donna
che si sacrificava per gli altri… consacrando con lo splendore
della sua bontà il giaciglio del soldato morente… Ma la verità è
un’altra . Un dèmone la possedeva... Così accadde che la vera
Nightingale fosse più interessante di quella leggendaria e anche
meno gradevole».
D’Amico inverte i
termini: la donna leggendaria oggi si rivela funzionale alla nostra
mania igienica e salutista, mentre il suo dèmone, la sua magrezza,
il suo vago misticismo, la sua sessualità ancor più vaga, non ci
provocano. I due ragazzi che ne parlano, i consueti dialoganti di
d’Amico, il giovane De Witt III, americano sempre in cerca di un
soggetto adatto alla televisione, e la sua informatissima fidanzata
Saffron, al momento ricoverata in una clinica svizzera, la inquadrano
con un linguaggio nuovo, agile e disinvolto, entro una visione tutta
attuale della sua frenetica attività riformatrice delle strutture
ospedaliere, militari, della stessa cultura assistenziale di tutto il
paese. L’icona ottocentesca, troppo ovvia, si è esaurita nei primi
film su di lei all’epoca del muto, due lungometraggi, del 1936 e
del ’51, una commedia data a Broadway negli anni trenta, uno
sceneggiato televisivo inglese recente. La sua improvvisa apparizione
nell’ospedale di Scutari (Istanbul), il 4 novembre 1854, dieci
giorni dopo la disastrosa battaglia di Balaclava, con un piccolo
battaglione di infermiere, provvista di una congrua somma di sterline
raccolte dal Times, con cui acquistò le attrezzature elementari per
rimediare alle raccapriccianti condizioni in cui erano ammassati
morti, morenti, feriti, aveva del miracoloso. E gettò luce non solo
sulle responsabilità che portarono a quella disastrosa sconfitta, ma
sull’intera gestione della guerra e dell’esercito. Alla fine
della guerra «si calcolò che in sei mesi il 73 per cento dei caduti
non erano morti in combattimento, ma per malattia».
Quella di Florence
Nightingale fu anche una esasperante battaglia contro l’ostruzionismo
delle gerarchie militari, la macchina amministrativa, le avversità
politiche. Usò per le sue sacrosante battaglie amici e amiche e li
ebbe accanto a sé fino alla fine. I suoi consigli o meglio i suoi
dogmi si rivelarono sempre utilissimi, eccetto quando chiese agli
ospedali militari indiani di tenere aperte le finestre. Ma a causa
del caldo straordinario, tutto era tappato fino a sera, e solo allora
si aprivano le finestre. «Glielo dissero, ma lei non volle sentire
ragioni, e fu inflessibile».
Alias – il manifesto, 5
luglio 2015
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