Nei primi anni Novanta la rivista “Giano. Ricerche per la pace”, diretta da Luigi Cortesi, inserì nelle proprie pagine la rubrica “Lessico”, cercando di dare senso alle parole che al tempo si incontravano con il movimento della pace, impegnato dopo la fine dell’Urss nel contrastare il progetto unipolare di dominio del mondo intrapreso da Reagan e continuato da Bush padre, che, come ognuno può vedere, ha prodotto danni incalcolabili, in primis agli stessi Stati Uniti. Riprendo qui, con lievi rimaneggiamenti, la voce Fondamentalismo, curata da Alfonso Maria Di Nola, marxista e antropologo di grande spessore, a lungo collaboratore de “il manifesto”. Nonostante il tanto che è avvenuto dopo (i talebani, l’11 settembre, le guerre in Afghanistan, in Iraq e in Libano, Hamas ed Hebzollah), il testo mi pare tuttora utilissimo a comprendere di che cosa stimo parlando (S.L.L.).
La crescita delle realtà storiche e culturali, che vengono comprese sotto il termine generico di Islam, ha comportato la proliferazione aggressiva di un linguaggio giornalistico troppo spesso impreciso e improprio, che, del resto, sottende non soltanto formali anomalie lessicali, ma travisamento dei dati concreti che soggiacevano alle parole. Basti pensare che in tutti questi anni di inevitabili rapporti con le molteplici presenze islamiche, i nostri giornali continuano a discutere della gihad al femminile, laddove il termine in arabo è maschile (un po’ come se gli arabi parlassero della papa e del guerra).
Questa arbitraria trasformazione di genere di un sostantivo, ormai cristallizzata e consolidata, potrebbe restare soltanto uno strafalcione lessicale e rivelare unicamente la superficialità di quanti rifiutano di prendere conoscenza degli istituti di universi culturali sui quali quotidianamente discutono. Ma ben più gravi situazioni meritano l’attenzione dello studioso e del lettore comune. Il rapporto di ostilità e di emarginazione con molta parte del mondo arabo ha fatto esplodere nel linguaggio corrente una confusa costellazione terminologico-concettuale, quella enucleata intorno ai lessemi fondamentalismo-integralismo-estremismo, per rappresentare correnti, atteggiamenti scelte ideologiche e politiche arabe e, in genere, musulmane. Si è, quindi, tenuti ad una definizione più attento di tale terminologia, come tentativo di precomprensione storico-logico dei dati cui esse si riferisce.
La prima osservazione antropologica da avanzare – indipendentemente dai legittimi giudizi di valore sui dati indicati con i termini – sta nel dovere di costatare che, utilizzando la costellazione indicata (fondamentalismo-integralismo-estremismo), siamo vittime o intenzionali portatori di una ideologia etnocentrica che qui si rivela nell’indebita e incongrua applicazioni semantiche nate e nutrite all’interno della cultura occidentale, a statuti culturali radicalmente diversi. Sempre a titolo di premessa va tenuto presente che la nostra è una cultura empirico-tecnologica, espressa in modelli settorializzati e fra loro incomunicabili, che correntemente si riflettono nella schizofrenia culturale di una conflittuale compresenza dell’adesione a schemi di conoscenza razionale del mondo e a fantasmi persistenti di un piano religioso-mitico di matrice arcaica.
L’Islàm, con altre civiltà, si inserisce in quella categoria di culture che l’antropologia francese di Poirier e Balandier indica come “globali” o “integrate” o anche con il termine di économie sacralisée. Vale a dire che nell’Islàm, o almeno nella prevalenza delle sue forme storiche anche attuali, il mondo delle umane fatiche, delle lotte, dell’economia non trovano una reale cesura dal mondo della trascendenza o, se si vuole, dall’invadente presenza di Allah e del suo messaggio. Il che significa che Occidente e Islàm esprimono il loro essere attraverso due codici radicalmente diversi ed incomunicabili; e che il dato storico in cui ci si imbatte da almeno un secolo sta nella permanente erosione occidentale del sistema ideologico “globale” e “integrato” dell’Islàm quasi che la democrazia, nata da un lungo travaglio della rivoluzione borghese, possa essere artificiosamente applicata a una società che non ha attraversato le varie fasi storiche che hanno portato alle divisioni classiste occidentali.
Insomma nell’attuale situazione è anche da individuare un preciso processo di ripulsa di quelle forme “democratiche” che si sono costantemente associate al colonialismo culturale dell’Occidente. alle spalle di questa ribellione coesiste, naturalmente, un interesse della classe clericale alla conservazione della propria funzione direzionale all’interno di una società deteriorata dal sottosviluppo economico.
Questa premessa consente di entrare, forse con migliore orientamento, nella selva terminologica della quale abbiamo parlato. “Fondamentalismo" è un lessema colonialistico occidentale che applica alla società musulmana (umma), estremamente complessa, una qualità propria dei cristianesimi di matrice anglo-americana.
Fin dai principi del Novecento, nelle dinamiche della realtà religiosa americana e inglese si delineò un movimento che, per sintesi, si suole indicare come Fundamental Church o Fundamentalism, movimento decisamente reazionario e conservatore che respingeva da un lato la proliferazione parassitaria dei culti cattolici, e da un altro optava per un cristianesimo “integralista” fondato sulla Bibbia ed ostile a tutte le acquisizioni della scienza contemporanea (i Fondamentalisti hanno ottenuto in diversi momenti e in molte scuole la soppressione della teoria evoluzionistica sull’origine della specie). Questo fondamentalismo, che tuttora investe l’assoluta maggioranza delle confessioni religiose in Usa, trovò il suo ardente rappresentante in Ronald Reagan, il quale vedeva , secondo l’interpretazione letterale della Bibbia, il mondo spaccato in una dicotomia Cristo-Diavolo, nella quale il rappresentante del diavolo era addirittura il patetico Gorbaciov che ora gli stringe la mano. Mezzi televisivi imponenti, per quanto squallidi e barbarici, hanno diffuso per decenni questo messaggio negli Usa e sono arrivati in Italia attraverso i movimenti “missionari” americani.
Nell’Islàm la determinazione scientifica del termine è estremamente incerta. In senso generale, perché, essendo l’Islàm cultura di tipo globale o integrato, il carattere dell’integralismo ha una connessione diretta con le stesse radici del messaggio profetico di Muhammad, il quale non ammette altra fondabilità dello Stato politico se non quella della legge religiosa (sharia). Ma nei secoli l’Islàm ha avvertito profonde scosse nel suo rapporto con le democrazie occidentali (fino al punto che il fiqh, il diritto, ha superato talora il problema di una non fondabilità di un diritto internazionale fra gli Stati islamici). Al momento attuale molti paesi islamici avvertono la sostanziale delusione dei tentativi di applicazione della teoria democratica alla condizione attuale dei credenti. Quella teoria è vista come lo spettro coloniale, come il fantasma creato dai dominatori. E perciò fondamentalismo diviene un itinerario, per noi incomprensibile, di totale recupero dell’identità storica nel seno del Corano e delle scuole da esso derivate.
In questo senso il fondamentalismo, direttamente connesso al messaggio del Profeta, diviene anche “integralismo”, come tentativo di riacquisizione di una propria identità nel mondo e nella radicalità della propria cultura. E si tratta di un integralismo ben distante da quello consueto nel mondo occidentale: l’integralismo, per esempio, dei La Pira e dei Fanfani, che vivevano nel delirio di una rifondata res publica cristiana, ora proiettata nei disordinati sogni di Giovanni Paolo II; o l’integralismo del dominium mundi proclamato recentemente dal Pentagono.
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