2.6.10

Vendola: questione democratica e questione sociale.

Domenica 30 maggio Nichi Vendola, in una intervista per “l’Unità”, ha risposto a Paola Natalicchio a proposito della legge sulle intercettazioni attualmente in discussione in Parlamento.

Credo che nessuno abbia proposto con tanta chiarezza un aspetto della normativa in discussione: il suo carattere dichiaratamente classista, il suo essere destinata a proteggere i misteri (ed eventualmente i reati) dei potenti della politica, della finanza, della burocrazia, dell’economia, della magistratura, del’esercito e della mafia. Non una legge ad personam, forse, ma una legge ad personas sì. E ciò spiega anche la prudenza di certe opposizioni parlamentari di centro e di centrosinistra nel contrastare in radice una legge da cui più d’uno, anche nelle loro file, potrebbe trarre motivi di tranquillità e di sicurezza. Riproduco qui ampi stralci dell’intervista per comodità dei visitatori, ma vorrei fare una aggiunta particolare.

In Umbria (come altrove, immagino) a diversi Comuni di sinistra, con il sostegno entusiastico delle destre, è saltato il ghiribizzo di fare installere per strade e piazze telecamere. Un po’per placare la domanda (mediaticamente indotta) di sicurezza, un po’ per stimolare la produzione di sistemi di controllo. Il combinato disposto dei progetti del governo centrale e delle iniziative dei governi locali risulta pertanto essere: “proteggere il Palazzo, controllare i tuguri”. Mi risulta che gli unici a denunciare questo spionaggio sui passanti (senza molte garanzie sull’uso delle registrazioni, magari contro chi protesta o fa volantinaggio) siamo stati noi di “micropolis”, in particolare Maurizio Mori, vecchio trotzkista libertario. Nel frattempo Stefano Vinti, il gran rifondarolo, organizzava assemblee sulla sicurezza, chiedendo controlli e poliziotti in ogni anfratto, come nella Russia di Stalin e Brezhnev. Speriamo che da assessore alle palazzine non pretenda che le costruiscano con incorporate le telecamere per inquadrare la strada (S.L.L.).

Nichi Vendola: «Le intercettazioni? Strumenti pericolosi, perché violano i santuari del potere».

I giornalisti dell’Unità hanno deciso di disobbedire alla nuova legge sulle intercettazioni. Se passerà in Parlamento noi non la rispetteremo. Cosa pensa di questa iniziativa?

«Dobbiamo iniziare a immaginare la diffusione di una pratica di disobbedienza civile a fronte di leggi che hanno un tasso di violenza istituzionale così evidente, così palpabile e così insopportabile. Il punto è uscire dallo schema consueto di una battaglia di opposizione il cui punto fondamentale è l’emendamento. Dobbiamo invece provare a riconnettere il senso di quello che accade nelle istituzioni alla sensibilità del Paese. Abbiamo bisogno davvero di ricostruire un elemento di indignazione nei confronti delle molteplici e organiche aggressioni al diritto di libertà, al diritto di essere informati e a una serie importanti di diritti costituzionali».

Pochi giorni fa lei stesso ha dichiarato che senza questa legge non avrebbe potuto mandare via i suoi assessori dalla vecchia giunta...

«È così. Le intercettazioni telefoniche servono non solo come strumento di contrasto ma anche come strumento di difesa. Certo, vanno usate in maniera ben vincolata e fuori da qualunque abuso. E non c’è dubbio che l’abuso c’è stato in questi anni. Ma sono uno strumento fondamentale, tanto più perché i fenomeni criminali reali hanno un carattere transnazionale e riguardano la criminalità economica e la criminalità mafiosa. Il problema è che in questo paese ormai il concetto di criminalità è applicato solo a tutta la sfera della marginalità sociale. Si sta lavorando alacremente per rimettere in pista il “doppio codice”».

In che senso? Cosa intende per doppio codice?

«Da un lato c’è il codice penale per i galantuomini, cioè i colletti bianchi, i ricchi e i potenti, che sono dentro una specie di ontologica innocenza. Dall’altro il codice per i briganti che oggi sono i nuovi poveri, prevalentemente stranieri, sempre e comunque colpevoli. L’immunità per le classi dirigenti e la criminalizzazione e la colpevolizzazione della povertà. Le intercettazioni non servono a catturare e colpire un clandestino extracomunitario. Servono per andare a vedere cosa c’è dietro la patina di perbenismo, dietro la retorica pubblicitaria che cinge le “magnifiche sorti e progressive” di questa classe dirigente».

Per molti anni, come parlamentare, lei è stato in prima linea nella lotta alla mafia. L’impegno in Commissione antimafia le è costato minacce, è stato messo sotto scorta... Questa legge colpisce anche la lotta alla mafia: siamo davanti a un cambiamento radicale?

«Lo dicono tutti i procuratori antimafia. Lo dice il procuratore generale Grasso. Lo dice l’amministrazione nordamericana, i cui apparati repressivi di intelligence e di contrasto restano a bocca aperta dinanzi al fatto che noi stiamo praticando questa specie di harakiri, cioè l’impedimento al contrasto più raffinato».

Disobbedire però è possibile. E sono con noi in questa battaglia anche personalità del mondo della cultura e dell’arte: Dario Fo, Francesco Guccini, Ascanio Celestini e molti altri. Possono servire a creare un movimento di opinione più vasto?

«A condizione che questa battaglia si connetta con l’altra battaglia: quella per la questione sociale. Lo dico con una battuta: non ci vuole un’intercettazione telefonica per conoscere le intenzioni del ministro Sacconi sullo statuto dei diritti dei lavoratori. Se non si coglie la connessione tra l’attacco ai diritti di libertà, l’attacco ai diritti sociali e l’attacco ai diritti umani che si sono impastati in questi ultimi anni, facendo quel “pane cattivo” del berlusconismo che mangiamo tutti i giorni, la battaglia diventa difficile. Se quella degli strumenti di indagine diventa una battaglia elitaria e autoreferenziale è una battaglia perduta. Dobbiamo farne una grande questione di giustizia sociale.

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