26.9.14

Il destino della Sicilia da Crispi a Mussolini (Valerio Castronovo)

Francesco Crispi
"Noi edificheremo la Società nuova... Io veggo la Sicilia quale fra non molti anni potrà essere: io la veggo ai fianchi e per lo mezzo rigata dalle vie di ferro... e fra gli aranceti, gli oliveti e i vigneti, da tutte le alture e da tutte le valli, veggo le nuove strade dei comuni e delle province a discendere e salire su quelle, siccome rivi... E le città e le terre fin sui corsi dei monti si rifanno tutte e si abbellano mettendosi quasi un nuovo abito. Acquedotti, ospedali, opifici, scuole, teatri, piazze e fontane, camposanti e ville, e signorili palagi, bellissimo di tutti quello del Comune; sino alla casa del popolano soleggiata, ariosa, eretta ed allegra".
Così profetizzava il futuro dell'isola Luigi Mercantini, autore dell'Inno di Garibaldi, parlando a Palermo nel giugno 1871 all'inaugurazione della stazione ferroviaria al molo. L'enfasi poetica aveva certamente preso la mano all'oratore.
Ma, tolti gli svolazzi di rito, sulla sostanza del discorso erano allora in molti a credere. A dieci anni dall'unità di Italia, si respirava in tutta l'isola un clima di grande fervore e animazione. Nell'ambito della società meridionale, divenuta più forte e compatta di quanto non fosse al tempo dei Borboni, la borghesia non solo era riuscita a superare lo smarrimento e la paura che l'avevano paralizzata all'indomani della rivoluzione garibaldina, ma cominciava anche a trarre beneficio dalla vendita dei beni ecclesiastici e demaniali, nonché dalla costruzione di porti e ferrovie. E la classe dirigente siciliana costituiva una sezione forte dei ceti emergenti del Sud.
Il liberismo economico aveva spalancato ai proprietari terrieri le porte del mercato nazionale; sui produttori di zolfo - minerale d'importanza strategica per il saldo dei nostri conti con l'estero - stava piovendo una autentica pioggia d'oro; fra la borghesia commerciale e imprenditrice era diffusa la speranza che lo sviluppo dei traffici col Levante, (propiziato dall'apertura dell' istmo di Suez), avrebbe apportato vantaggi non secondari anche all' economia locale. Non è perciò sorprendente che nell'isola si coltivassero arditi progetti di sviluppo e che si giungesse ad avanzare la candidatura delle deputazioni meridionali alla direzione della vita pubblica nazionale: tanto più in presenza di un uomo come Francesco Crispi, l' astro maggiore della Sinistra.
In effetti, il voto siciliano (come, in parte, quello di altre regioni del Sud) alle elezioni del novembre 1874, che ridusse i margini di stabilità della maggioranza parlamentare, suonò come una campana a morto per la Destra e fu all'origine, due anni dopo, della caduta dei moderati. L'avvento della Sinistra al potere non venne quindi considerato in Sicilia soltanto come una rivincita nei confronti di precedenti governi che - per giustificare la repressione dei tumulti contro le tasse e i provvedimenti eccezionali di pubblica sicurezza enunciati nel 1874 da Minghetti - avevano evocato, a proposito dell'isola, l'immagine desolata e allarmante dell'Irlanda, mostrando così di volerla mortificare ed umiliare.
La "rivoluzione parlamentare" del marzo 1876 venne vissuta dai siciliani anche come l'inizio di una nuova fase politica, in cui il Mezzogiorno avrebbe posto le basi di un rapporto diverso col resto d'Italia e rimosso le sue secolari condizioni di inferiorità e di arretratezza.
Nasceva così la "questione meridionale". Proprio dalla Sicilia, del resto, era scaturita - con l'inchiesta parlamentare del 1875 e le indagini di Franchetti e Sonnino - la prima scintilla del dibattito che da quel momento avrebbe opposto, sullo sfondo del divario fra il Sud e il Centronord del paese, quanti invocavano per il riscatto del Mezzogiorno una politica riformatrice e di intervento pubblico e quanti invece ritenevano che, per sanare le piaghe e i mali locali (a cominciare dal brigantaggio e dalla delinquenza), bastassero il rigore delle leggi e le misure di polizia; meglio se applicate col ferro e col fuoco.
La prospettiva di fare della Sicilia un avamposto della causa meridionalista e insieme un centro propulsivo di iniziativa politica nazionale, durò per quasi un ventennio. Ma alla fine fu affossata proprio da colui che per primo le aveva dato voce, rendendosene il più autorevole interprete. Fu infatti Crispi (in coincidenza con l'opera di rafforzamento delle istituzioni statali di cui fu uno dei principali protagonisti) ad assecondare quasi tutte le iniziative che promossero sino agli inizi degli anni Novanta una crescita eccezionale della società e dell'economia siciliane (basti pensare alla ventata di prosperità cui concorsero sia lo sviluppo dell'agricoltura, sia la nascita di un grande impero finanziario e industriale come quello dei Florio). Ma fu poi lo stesso statista agrigentino (come pure successivamente un altro suo conterraneo, il palermitano marchese Di Rudinì) a interrompere bruscamente questa parabola ascendente e a ricacciare così la Sicilia, sul finire del secolo, nell'isolamento e nelle acque stagnanti della reazione, con le repressioni antipopolari e le leggi liberticide, con la "guerra doganale" con la Francia e con la non meno disastrosa avventura coloniale in Abissinia.
Alla lunga, i contadini non si mostrarono più disposti a pagare, sottomettendosi ai peggiori soprusi, i costi che la politica crispina aveva finito coll' addossare loro per assicurarsi l' appoggio della grande proprietà meridionale alla costruzione di una stabile unità nazionale; nè videro nella "terra promessa" in Africa un' adeguata valvola di sfogo alla loro miseria endemica. Nello stesso tempo le regioni più avanzate del Nord - auspice Giolitti - fecero capire che non avrebbero barattato la guida del paese con la garanzia di un ordine malfermo imposto dall' alto e una manciata di commesse statali. Da allora, come osserva Francesco Renda nel suo secondo volume della Storia della Sicilia, che va dal 1870 al 1943 (Sellerio, pagg. 456, lire 40.000), il divario nel rapporto tra lo sviluppo della Sicilia e quello nazionale si sarebbe aggravato anzichè ridotto. L' afflusso nel primo decennio del Novecento di valuta pregiata, frutto dei sudati risparmi di tanti lavoratori emigrati oltre Oceano, contribuì ad ampliare nell'isola l'area della piccola proprietà coltivatrice, ma non bastò a rilanciare l' economia siciliana.
Su un altro versante la Sicilia fu teatro in quegli anni di grandi lotte del movimento contadino, socialista e cattolico; ma quando queste lotte (così come l'avanzata dei partiti di massa determinata dal suffragio universale maschile) parvero sul punto di spezzare il predominio della classe baronale, sopraggiunse il fascismo. A proposito del quale il libro di Renda fornisce, come del resto per il periodo precedente, alcune interpretazioni di particolare vigore ed equilibrio critico. Assai istruttive - non foss'altro per capire le matrici di quel complesso intreccio di interessi privati, complicità politiche e violenza organizzata che si trova in questi giorni al centro dell'attenzione col processo di Palermo - sono le pagine dedicate dallo storico siciliano alle vicende della mafia nel ventennio fascista. La lotta all'"onorata società", intrapresa da Mussolini nel 1925, fu innanzitutto un'operazione politica di stabilizzazione del regime in Sicilia. Da un lato, si voleva tagliar corto alle beghe interne al movimento fascista locale ed eliminare qualsiasi forma d' appoggio che potesse venire agli ultimi residui della vecchia destra moderata da alcuni "pezzi da novanta"; dall'altro lato, si mirava ad ottenere il plauso della "gente perbene" che non si occupava di politica ma voleva solo la restaurazione dell'ordine.
Fatto sta che, pur con qualche eccezione, il regime fascista mostrò col tempo di adoperare il guanto di velluto nei riguardi dei proprietari e dei notabili in odore di mafia, e il pugno di ferro nei confronti dei contadini sospettati del medesimo reato. Col risultato che, sotto il pretesto di combattere la mafia, fu posto il bando ad ogni principio legale e si diede luogo spesso ad una spietata caccia alle streghe, o meglio all'instaurazione di un regime permanente di polizia tanto assoluto quanto arbitrario, che finì per colpire assai più in basso che in alto, senza per questo metter fine realmente alla spirale della criminalità comune. I "pesci grossi", sfuggiti alla rete o riusciti a riparare in America, costituirono un sistema mafioso di opposizione clandestina al fascismo, pronti a rialzare la testa alla prima occasione favorevole: tanto che, caduto il regime, la mafia, rinsanguata da molteplici collegamenti internazionali, risorse più forte e pericolosa di prima.
Al fascismo bastò insomma l'estromissione della mafia dal controllo delle istituzioni locali, per pensare di averla debellata una volta per tutte. Alla stessa logica, tipica di un regime totalitario, obbedì l'allontanamento della proprietà terriera dalla gestione del potere politico, che parve dovesse annientare le basi dell'economia latifondistica. Anche in questo caso non mancarono novità e segnali positivi: la regolamentazione collettiva dei rapporti di lavoro non lasciò più in balia della legge della domanda e dell'offerta (sempre favorevole ai ceti possidenti) la determinazione dei salari bracciantili. E delle misure di assistenza e previdenza sociale, appannaggio in passato dell'aristocrazia operaia sindacalizzata del Nord, vennero ad usufruire anche le masse contadine. Ma l'indirizzo autarchico favorì, con l'espansione della produzione cerealicola, gli interessi dei grandi proprietari; e "l'assalto al latifondo" lanciato in extremis, nel gennaio 1940, se non fu un gesto di amicizia del regime verso i maggiori possidenti, non intendeva tuttavia rappresentare l' inizio di un'autentica riforma agraria che, insieme all'appoderamento, contemplasse anche l'espropriazione delle terre incolte.
A questa operazione, orchestrata in modo tale che sortisse i massimi effetti demagogici, il duce volle accoppiare un'altra iniziativa capace di suscitare uguali risonanze e aspettative fra i siciliani: un'adunanza oceanica degli uomini di cultura che, sotto la regia di Bottai e di Giovanni Gentile, celebrasse i "grandi nomi dell'isola", in spirito di continuità con i fasti dell'antica Trinacria e in funzione del nuovo ruolo che il fascismo intendeva assegnare alla Sicilia: quello di "centro geografico" del "secondo Impero" di Roma, verso cui convogliare con maggior intensità le "energie dello Stato". Da Crispi a Mussolini, accantonate le esigenze di modernizzazione e di elevamento civile, il cerchio si chiudeva così, ancora una volta, con il miraggio di un "grande destino mediterraneo" sorretto dalle armi e alimentato dai rubinetti della spesa pubblica.

La Repubblica, 14 febbraio 1986  

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