10.9.14

Indro Montanelli. La prima vita e la prima volta (Giovanni De Luna)

Indro Montanelli è morto cinque anni fa. Prima di morire, in occasione delle elezioni del 13 maggio 2001, dichiarò di votare per il centrosinistra. La reazione della destra fu furibonda: quella scelta fu considerata contronatura, «mostruosa» quasi come quella degli industriali in questo 2006. Apparentemente, gli insulti partiti soprattutto dalle televisioni di Berlusconi erano tutt'altro che immotivati. Se destra e sinistra hanno ancora un senso, Montanelli era certamente un uomo di destra. Lo era per le sue idee e per i suoi comportamenti.
A restituircene i tratti salienti è ora un libro eccellente di Sandro Gerbi e Raffaele Liucci (Lo stregone. La prima vita di Indro Montanelli, Einaudi, 2006) che, raccontandone benissimo «la prima vita» (quella che si conclude nel 1957 con la morte di Longanesi), ci accompagna attraverso la straripante quantità di articoli scritti da Montanelli, li confronta con i suoi ricordi, ne fa risaltare la coerenza ma anche le contraddizioni e gli errori.
Il termine del 1957 è molto mobile; il libro infatti funziona così: tutte le varie tappe della carriera del giornalista e della sua biografia vengono efficacemente raccontate: la guerra d'Etiopia, la guerra civile spagnola, la seconda guerra mondiale, la guerra fascista 1940-1943, poi la Resistenza, l'arresto a parte dei tedeschi, la complicata fuga in Svizzera e, infine, la guerra fredda e il suo coinvolgimento nella rivolta ungherese del 1956. Ma tutte queste «fasi» hanno appunto sedimentato articoli, ricordi e polemiche che si sono trascinate negli anni, praticamente fino alla morte. Liucci e Gerbi ne seguono il filo senza interrompere il racconto al 1957; così è ad esempio per il «diverbio» con Angelo Del Boca sull'uso dei gas in Etiopia da parte dei fascisti: sempre negato da Montanelli che però, alla fine, davanti alla schiacciante documentazione offerta dallo storico, fu costretto a confessarsi sconfitto e a riconoscere con grande onestà intellettuale la fondatezza delle ragioni dell'avversario.
Il libro è così una biografia per molti aspetti compiuta ed è in grado di sbalzare nitidamente i contorni di quella destra che Montanelli incarnava, «conservatrice e altera, sobria e meritocratica, colta e pessimista, scettica e ironica, elegante e rigorosa, laica e non bacchettona, diffidente della societè di massa e dei suoi umori e malumori». Al di là di una terminologia così efficace, a me pare che la destra di Montanelli possa essere ancorata ad alcuni elementi squisitamente culturali, tutti riconoscibili all'interno della sua inclinazione a riflettere sulla storia: l'antiantifascismo; l'indulgenza verso il Mussolini «buonuomo» e verso il fascismo, - di cui negava il carattere totalitario -, che poteva definirsi una specie di «afascismo»; un'interpretazione buonista della legislazione antisemita italiana; il giudizio positivo sul franchismo; un marcato fastidio per l'antifascismo militante e la Resistenza coniugato con l'appoggio incondizionato agli italiani «che erano stati alla finestra», con l'attenzione non solo per i «morti sulla montagna» (i partigiani) ma anche «per quelli che erano morti in cantina», gli italiani che avevano subito passivamente la guerra.
Il Montanelli del dopoguerra apprezzava gli «apoti» di Prezzolini e ne condivideva il disprezzo per gli italiani, la sfiducia nel loro senso civico, nella loro moralità pubblica. «Gli italiani amano la dittatura: a) perché così ogni italiano sa come comportarsi; b) perché può permettersi di crearsi una piccola zona franca di anarchia e corruzione a suo esclusivo vantaggio. La ragione per cui il fascismo non produsse mai campi di concentramento è dovuta alla congenita propensione italiana a lasciarsi corrompere dalle donne, dal vino e dal denaro....i comunisti italiani sono pericolosissimi perché incorruttibili»: a riferire queste esternazioni montanelliane era l'ambasciatrice americana Clara Luce. Esagerazioni dell'ambasciatrice, ossessionata dall'anticomunismo? No, perché Montanelli riproponeva gli stessi temi in pubblico, nei suoi scritti, che in quegli anni attribuivano a tutti gli italiani un'unica comune militanza in quello che lui chiamava «il partito della pacchia», «una gigantesca matassa di compromessi che soprattutto promette quello che più piace agli italiani: il diritto per tutti coloro che alla sua ombra riescano ad agguantare una qualche autorità, di poterne abusare».
Questa lettura del carattere degli italiani sfociava in un pessimismo intellettuale, temperato da una dimensione esistenziale che - per sua fortuna - non indulgeva alla tristezza: il risultato, come suggeriscono Gerbi e Liucci, era la sua «tendenza a obnubilare il dramma sotto il disincanto e, talora, il sarcasmo», la sua ostinazione a chiudere i conti con il passato, anche il più feroce, nel segno di una rassegnata indulgenza e nell'incrollabile fiducia che tanto non sarebbe mai cambiato niente e che lo stato delle cose presenti, pur «turandosi il naso», restava sempre il migliore dei mondi possibili.
Vedeva negli italiani gli stessi difetti che scandalizzavano gli azionisti; ma mentre gli uomini come Parri o Rosselli se ne indignavano, Montanelli di quei difetti quasi si compiaceva, guardando con sospetto a ogni progetto pedagogico che volesse «rifare gli italiani». Fu così uno spettatore attento e partecipe, ma restìo a un «impegno» diretto; con due eccezioni, due occasioni in cui il suo attivismo si impennò bruscamente: la prima, negli anni della guerra fredda, quando, ossessionato dal pericolo comunista, si dedicò a un improbabile progetto golpista; la seconda quando «scese in campo» contro Berlusconi. Prese in prestito proprio dagli azionisti che non amava («rispettava» molto di più i comunisti) la categoria interpretativa del fascismo come «autobiografia della nazione» applicandola a Berlusconi; nell'esperienza di Forza Italia precipitavano tutti quei tratti di familismo amorale, insofferenza per le regole, sovversivismo dei ricchi che Montanelli aveva sempre osservato e descritto con il suo stile distaccato: questa volta, per l'ultima volta prima di morire, il distacco si tradusse in sdegno, il disincanto in impegno.


“La Stampa”, 1° aprile 2006  

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