10.9.14

Stalinismo. Gli intellettuali e il montanaro (Cesare G. De Michelis)

Ho più di un dubbio su questa vecchia lettura, tagliata con l’accetta, del rapporto tra intellettuali e Stalin. “Posto” nondimeno l’articolo, inserito nel paginone di Repubblica per il centenario del capo sovietico, per alcune curiosità tra lo storico e l’aneddotico che contiene. (S.L.L.)

Sono stato a Mosca la prima volta volta, nell'agosto del 1963, al tempo culminante della “destalinizzazione” kruscioviana, dei “casi” sollevati dalle Memorie di Erhemburg, dall’esordio di Solzenitzyn. Era però anche il tempo delle prime inversioni di rotta: non capivamo dove finissero i residui del «vecchio» stalinismo e dove cominciassero i primi embrioni del «nuovo». Discutevo, allora di tutto questo come potevo e con chi capitava. Una mite e taciturna insegnante un giorno replicò: « Voi non potete rendervi conto di questo. Politicizzati e ben pasciuti, dottrinari e ben vestiti, siete ignari di quel sentimento quotidiano e umano che è la paura: non potete capire che cosa abbia significato uscire dal tunnel ».
Qualche mese fa ha cenato da me una cara amica, dell'Accademia sovietica delle Scienze; s'è parlato ancora, sempre, di questo: con tutto quel che nel frattempo è capitato, dentro e fuori dell'Urss. Ha tagliato corto: « Anche voi, studiosi — più o meno brillanti — di cose russe, come i "nuovi emigrati'', per onesti e intelligenti che siano, non avete il diritto di giudicare di questo. Non ci vivete dentro, giocate con parole che per noi sono pesanti come macigni ».

Raccontini edificanti
E adesso, centenario della nascita di Iosif Vissarionovic Dugasvili, in arte Stalin, rimango maledettamente perplesso a parlare di questo, anche se solo in termini di «cultura». Non sono ben sicuro d'averne il dritto. Lascerò allora da parte i discorsi su « stalinismo e cultura » e cercherò di rendere il senso della cosa.
Michail Vasil'evic Isakovskij è un mediocre e dignitoso poeta, che venticinque anni fa Angelo Maria Ripellino presentava al pubblico italiano come autore «di canzoni che procedono con scioltezza discorsiva»; tra le quali, a noi dovrebbe essere cara almeno una romanza Katijusa, che ha prestato le note con cui è divenuta popolare in Urss al canto partigiano Fischia il vento, urla la bufera. Tra le altre canzoni “orecchiabili e schiette”, Isakovskij fu autore, giusto trent’anni fa, di una poesia meno orecchiabile e sciolta un ode per il 70° genetliaco, A Iosif Vissarionovic Stalin: “Grande guida del popolo sovietico / Voi sarete accanto a noi ovunque e sempre... / Voi ci date forza ed ardimento / Voi siete nostra insegna, verità e sostegno...”. E avanti così per tre ottave, fino a concludere con gaia semplicità: “Grande guida d'un popolo grande / speranza, luce e coscienza della terra tutta”.
Nel 1967 Solzenitzyn rilevò che « molti letterati, oggi, non vorrebbero ripetere certi loro discorsi e libri del 1949 ». Il genere letterario praticato per l'occasione da Isakovskij era comune e diffuso: l'ode encomiastica staliniana (beceramente modellata su archetipi tardo-settecenteschi) ebbe singolare rigoglio per i settant’anni del Piccolo Padre. Senza crogiolarci in scontate e squallide esemplificazioni, ricorderemo solo con Roy Medvedev che «tema favorito dell'arte tardo-staliniana fu l'esaltazione di Stalin»: e che il culmine si ebbe nel 1949 (quando la disposizione servile s'accompagnava agli echi della vittoria in una guerra devastante), talché vi fu chi giunse a proporre di scegliere il fausto genetliaco come inizio d'un nuovo calendario, Giorno del Ringraziamento dell'Anno Uno.
Quell'anno, tra raccontini edificanti ed epistole in versi dalla dubbia aulicità. uscirono due solenni pubblicazioni, che oggi sono rarità bibliografiche: una, dell'Istituto Marx-Engels-Lenin, che rievocava per immagini l’irripetibile biografia del Festeggiato; l'altra, del'Accademia delle Scienze (che dal 1939 lo annoverava quale membro onorario), in cui il fior fiore dell'accademia sovietica celebrava «il suo genio scientifico» in pressoché tutti i campi del sapere (tra le poche discipline neglette la teologia cui pure il giovane Dugasvili aveva dedicato non disprezzabile impegno).
Gli intellettuali che presero parte a quest’orgia celebrativa erano spinti al meretricio culturale più dal timore di restarne esclusi che dalla cupidità di prebende e favori. Stalin, sostanzialmente solitario, non mancava occasione di mettere al posto loro gli «ingegneri delle anime». Si racconta che Aleksej Tolstoj — ex emigrato d'illustre famiglia, che, rientrato in Urss, era divenuto uno dei big del realismo socialista — ad un banchetto subito dopo la guerra alzasse un brindisi in onore di Stalin, proponendogli con commossa adulazione da darsi del tu. Ne ottenne una risposta secca: «Scherzate, signor conte?».

Lo strambotto di Mandel’stam
Eppure, eppure. Non so se guardare alla pagina tragica e vergognosa dell'infatuazione staliniana esclusivamente in chiave di «ragion servile», sia sufficiente a darne ragione storica. Certo: di fronte a chi, come Mandel’stam per uno strambotto più ironico che «controrivoluzionario» («...Dove solo c'è una mezza conversazione, / ci si ricorda del montanaro del Cremlino... ») ci ha rimesso letteralmente la pelle, non ci sono giustificazioni da avanzare, né distinguo da illustrare. E tuttavia intendere una pagina grandiosamente tragica di questo nostro secolo «ramingo», e tanto più tragica per le masse operaie e popolari che avevano guardato all'Ottobre come inizio e modello della «liberazione del lavoro» (così si diceva una volta), col solo metro della cinica piaggeria, sarebbe semplicistico.
Bisogna allora fare i conti (di nuovo: vorrei evitare i «dialoghi dei massimi sistemi») con quelle forme di stalinismo consapevole e «alto», che pure c'è stato. Prendiamo il caso di Gorkij, che a suo tempo aveva saputo dire la sua in faccia a Lenin. Rimbambimento senile, o forse non anche disperazione d'un vinto? Certamente non semplice tornaconto.
Ma lo stalinismo di Ejzenstein? Cos’altro fu la sua trilogia su Ivan il Terribile se non l'elaborazione filmica più alta, colta e consapevole, d'un tipico mito staliniano? Il grande Ejzenstejn, il regista delle «attrazioni», che portava alla settima arte il meglio della cultura d'avanguardia, non è stato vittima, ma co-autore dello stalinismo culturale. E' spiegabile questo con la logica del servilismo?
Più ancora. E Pasternak? Il Pasternak del Dottor Zivago è divenuto simbolo della libera cultura antistalinista, prima e dopo il fatidico 1953. E' stato anche l'unico, o quasi, che in quei maledetti anni '30 abbia rivendicato l'autonomia dello scrittore, con tutti i rischi che sapeva di correre. Ma Pasternak era allora altrettanto convintamente stalinista; lo era nel senso più autentico, nel senso di guardare a Stalin come incarnazione della Storia: forse un po' hegeliano di destra, ma stalinismo. Non hanno mancato di rilevarlo, con la bonaria condiscendenza che si riserva a un bambino egocentrico e un po' irresponsabile, Il'ja Erenburg e Nadezda Mandel'stam. Tuttavia, chissà che quel suo staliniano candore non sia simmetrico alla «debolezza» che il «montanaro del Cremlino» provava per Pasternak. Hanno detto: perché traduceva poeti georgiani. Sì, ma i poeti georgiani tradotti (Jasvili, Tabidze) non è che nel frattempo venissero trattati con i guanti.
Il vecchio socialdemocratico Georgij Plechanov aveva scritto nel 1885 che, ove si fosse realizzata in assenza di un'ampia partecipazione democratica, la rivoluzione avrebbe portato a un rinnovato dispotismo zarista sotto spoglie comuniste ». E' appunto di fronte a un grandioso «mostro politico» di questo genere, che si sono trovate due e tre generazioni tra le più ricche e vivaci della Russia moderna?


“la Repubblica”, 21 dicembre 1979

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