7.9.14

Il cuore duro di Italo Calvino (Alberto Asor Rosa)

Un Asor Rosa d'altri tempi in splendida forma, non il “barone delle lettere” né lo storico delle ingegnose formule definitive, ma il critico che saggia, chiama in aiuto i testi, documenta e verifica, ci appresta buone chiavi per rileggere Calvino: la vertigine e la moralità in primo luogo. Una bella, rara pagina di critica militante. (S.L.L.)
Italo Calvino è stato uno scrittore ricco, longevo, molto mutevole, ma anche molto fedele a se stesso. Niente di strano, quindi, che ne siano state date, prima e dopo la morte, definizioni diverse, e anche molto contrastanti, in cui era spesso presente un aspetto singolo di verità, accanto ad approssimazioni ed arbitrii.
Del resto, più di trent'anni or sono, Elio Vittorini, presentando nel risvolto di copertina Il Visconte dimezzato (n. 9 della leggendaria collana dei "Gettoni"), denunciava la difficoltà d'incasellare il giovanissimo "scoiattolo" con queste parole: "Calvino ha interessi che lo portano in più direzioni: la sintesi delle quali può prender forma (senza che cambi né di merito né di significato) sia in un senso di realismo a carica fiabesca sia in un senso di fiaba a carica realistica". E' ovvio che sul primo versante Vittorini avrebbe messo Il sentiero dei nidi di ragno e i racconti di Ultimo viene il corvo e di L'entrata in guerra (quest'ultimo destinato ad apparire di lì a poco), mentre sull'altro lo stesso Visconte, e poi gli altri due romanzi della trilogia degli antenati.
L'alternativa, indicata da Vittorini con quell'efficacissima formula, avrebbe poi accompagnato Calvino fino alle ultime opere. E che l'intreccio tra razionalismo e fantasia costituisca un tratto distintivo permanente della sua personalità, mi pare fuori discussione. L'amore per Ariosto ne è una controprova: anche se, proprio pensando ad Ariosto, sorge il dubbio che la formula vittoriniana sia tanto felice quanto sostanzialmente limitativa. Ma su questo tornerò più avanti. Quello che invece mi ha colpito come un pericolo in molte delle più recenti rievocazioni è la riduzione di Calvino all'immagine di uno scrittore brillante ed elegante, colto e tecnicamente agguerrito, capace, appunto, in virtù delle sue alte doti "professionali", di passare con disinvoltura perfino eccessiva da un registro all'altro della sua ispirazione.
Io Calvino non lo ricordavo così. Sono andato a rileggermi alcune delle sue cose più lontane e alcune di quelle più vicine, e alcuni dei suoi bellissimi saggi. Ed ho riscoperto ancora una volta, ma con più forza, una sensazione che avevo scoperto per la prima volta tanti anni fa, recensendolo in un suo racconto intitolato La speculazione edilizia, e non avevo mai dimenticato, ritrovandola anche nelle sue cose più leggere e vaganti (Le città invisibili, ad esempio): la percezione, dietro l'eleganza raffinata della scrittura, dell'esistenza come di un nocciolo duro, di un elemento di resistenza conficcato nella parte più segreta e profonda della sua natura, non facile da sciogliere né da comunicare, anzi, a dir la verità, talvolta anche parecchio scostante. Che cosa fosse questo nocciolo duro, ho faticato a lungo a capirlo, anche se almeno una volta, leggendo La giornata di uno scrutatore, credo d'essermi avvicinato alla sua comprensione. Oggi non avrei più dubbi al proposito: senza voler togliere nulla alla legittimità delle interpretazioni realistico-fiabesche o fiabesco-realistiche, mi sono persuaso che questo nocciolo duro, questo elemento irriducibile di resistenza, è la natura morale dell'ispirazione calviniana, e che in essa, forse, consiste il vero fattore di continuità, la coerenza complessiva della sua ricerca (da Il sentiero dei nidi di ragno, sì, fino a Palomar), il macigno sotterraneo da cui spiccava il volo la sua fantasia o si dipanava il filo sottile del suo ragionamento. Voglio proporre, insomma, di leggere Italo Calvino come scrittore morale. Intendiamoci: per scrittore morale non intendo affatto quello che suggerisce valori o addita obiettivi; lo scrittore morale non si pone il problema di dire qual è il bene e qual è il male. Chi fa questo è un moralista (in senso riduttivo) o, peggio, un propagandista. Per me lo scrittore morale è quello che si limita a suggerire dei comportamenti e ad additare una linea di condotta: ma, al tempo stesso, affianca alla natura apparentemente limitata del "messaggio" l'inflessibile persuasione che non si può rinunciare alle regole di comportamento né a perseguire con fedeltà e tenacia una linea di condotta, pena l'inabissamento nel magma dell'indistinto e dell'arbitrario. Ricordiamoci che il suo più lontano scritto teorico (risaliamo addirittura al 1955) s'intitola, - e il titolo è già un programma, - Il midollo del leone. C' è da stupirsi, oggi, che le parole di questo saggio non siano risuonate allora così alte come meritavano. Ricordate? "In ogni poesia vera esiste un midollo di leone, un nutrimento per una morale rigorosa, per una padronanza della storia". Erano parole che Calvino dedicava alla memoria di Giaime Pintor. Ma ben calviniane, fino al punto da risultare quasi una dichiarazione di poetica, erano le formule, che egli, riconoscendovi l'eredità migliore di Pintor, indicava implicitamente al tempo stesso come sue proprie: "Il rigore di linguaggio, il rifiuto d'ogni compiacenza romantica, il senso della realtà scontata e difficile, la non adesione alle apparenze più vistose, l'avara presenza del bello e del bene, questo è il midollo di leone che Pintor traduttore di Rilke, lettore di Montale, morse dalla civiltà letteraria che l'aveva preceduto, questa è la lezione di uno stile che trasferì nell'azione, nell'intelligenza storica". Rigore di linguaggio, rifiuto di ogni compiacenza romantica, senso della realtà scontata e difficile, non adesione alle apparenze più vistose, avara presenza del bene e del male: quale critico non si sentirebbe onorato di aver trovato per l'arte, anzi, di più, per la personalità di Calvino, definizioni appropriate e calzanti come queste, che il giovane scrittore, nell'additarle operanti all'interno d'un personaggio-simbolo come Pintor, rammentava a se stesso quasi provvisorio bilancio dell'opera già compiuta e impegnativo programma per quella futura? E chi sarebbe in grado di distinguere, all'interno d'ognuna di esse, la componente puramente letteraria dalla professione di fede morale? La letteratura è già, in questo caso, la scelta di una linea di condotta: l'eleganza scaturisce dall'etica, non ne rappresenta la contraddizione. Intrecci di questa natura sono talmente profondi da segnare le radici stesse di una personalità: sono lo "stile di vita", che s'incarna in uno "stile di scrittura". Potremmo dire che ci sono prima ancora che lo scrittore in quanto tale sia venuto alla luce e si sia riconosciuto. Però, è vero anche che possono esserci momenti in cui tali radici vengono più chiaramente allo scoperto e un determinato particolare matura, divenendo riflessione. Ora, io credo che la moralità, e la sua necessità, nascano sempre, non da una situazione di stasi, ma da un conflitto, da una resa di conti, da una stretta storica. Il ragionamento su Calvino diventa anche un pezzo della sua storia. Bisogna risalire molto indietro nel tempo. Sono gli anni fra il 1955 e il 1965. Anni molto importanti: vedono la conclusione, e l' esaurimento insieme, di quanto aveva animato il decennio precedente: il neorealismo e la prospettiva palingenetico-resistenziale. Tutti i giovani scrittori - diciamo, in particolare, quelli fra i migliori della generazione degli anni Venti, - fanno i conti con questa situazione. Pasolini, che sembra ed è così lontano da Calvino, ha a che fare con gli stessi problemi. Ma Calvino ha uno scontro con quella che possiamo chiamare la "crisi della prospettiva" molto più traumatico di quanto non appaia a prima vista. Se si rileggono le sue cose di allora si capisce, per esempio, che egli ha una precisa percezione del fatto che si sta creando una situazione del tutto nuova, e che questa percezione è drammatica. Nella risposta ad un' inchiesta sul romanzo della rivista Ulisse (autunno-inverno 1956-1957), Calvino spiega che lui avrebbe voluto sì, scrivere romanzi di tipo tradizionale, ma che, per l'appunto, non glie n'è venuto di farne neanche uno. E prosegue: "C'è Thomas Mann, s'obietta; e sì, lui capì tutto o quasi del nostro mondo, ma sporgendosi da un'estrema ringhiera dell'Ottocento. Noi guardiamo il mondo precipitando nella tromba delle scale". E' dunque la narrativa stessa, l'idea stessa di racconto, che vengono messi in discussione da questa "vertiginosa situazione". E' la letteratura stessa, che s' affaccia smarrita su di un vuoto, che non sa più come riempire. Da questa vertiginosa situazione si può tentare d'uscire in modi diversi: per esempio, accettando di avvitare il proprio sguardo al corpo che precipita nella tromba delle scale; oppure scegliendo la strada (checché se ne dica) del mimetismo naturalistico-espressionistico alla Pasolini. La mia idea è che da allora - non, dunque, come i più sostengono, da anni recenti - dura la lotta di Calvino per costringere dentro la misura di uno stile rigoroso ed essenziale una situazione avvertita come di vertiginosa caduta: per "mettere un ordine" dentro un cosmo in sé frantumato, produttivo di affascinanti e mortifere suggestioni. La ricerca letteraria procede in lui, a lungo, strettamente affiancata a questa esigenza di rigore morale, che consiste nel resistere alla tentazione della scomparsa o dell' annegamento dell'io. Di fronte alla crisi - crisi epocale, di cui oggi vediamo soltanto le ultime conseguenze - come è accaduto in altre situazioni consimili, anche in un passato remoto, Calvino accentua l'aspetto riduzionistico e al tempo stesso rigoristico della sua scelta morale: il rifiuto, per così dire, delle passioni e il primato della ragione discendono da questa scelta. E' fin troppo facile parlare di stoicismo, ma non se ne può fare a meno. Nel 1960 all'interno, significativamente, del saggio intitolato Il mare dell'oggettività, Calvino polemizza con l'amico Citati, il quale aveva dichiarato la "fine dello stoicismo", per essere venuti meno "i demoni romantici, i gorghi irrazionali contro cui quella tradizione aveva preso forza". Invece, obietta Calvino: "Rieccoci, Pietro Citati, sulla riva di un gorgo, tale da mettere a prova scafi ben più saldi dei nostri; un gorgo privo stavolta d' aloni tragici o demoniaci ma più difficile da attraversare che una distesa di sabbie mobili". E allora, ecco riemergere le istanze di fondo, a cui una tradizione culturale "stoica" poteva legittimamente ricollegarsi: "un ideale stilistico e morale di ostinazione volontaria, di riduzione all' essenziale, di rigore autocostruttivo". Anche qui, quale invidiabile precisione terminologica in queste definizioni, che, per voler essere generali, non smettono d' essere l'autoritratto vivente della sua prosa! La giornata d'uno scrutatore, il romanzo (o racconto lungo) del 1963, può piacere o non piacere a confronto di opere maggiori dello stesso Calvino, ma andrebbe sicuramente giudicato come un momento essenziale della sua evoluzione. E non tanto perché il protagonista mostra d'aver appreso ormai fino in fondo la lezione stoica del suo autore ("Amerigo, lui, aveva imparato che in politica i cambiamenti avvengono per vie lunghe e complicate, e non c'è da aspettarseli da un giorno all'altro, come per un giro di fortuna; anche per lui, come per tanti, farsi un'esperienza aveva voluto dire diventare un poco pessimista. D'altro canto, c'era sempre la morale che bisogna continuare a fare quanto si può, giorno per giorno; nella politica come in tutto il resto della vita, per chi non è un balordo, contano quei due principi lì: non farsi mai troppe illusioni e non smettere di credere che ogni cosa che fai potrà servire"). Quanto perchè in quest'opera Calvino, immerso nel recinto del Cottolengo, si scontra per la prima volta e, direi, irrimediabilmente con quel limite insormontabile di ogni ragione e di ogni operare umani, che è la natura, o, meglio, il mistero biologico, che sta alla base della nostra esistenza. Quando lo scrittore arriva a percepire questo confine, questo limite dell' umano operare, il suo pessimismo - per riprendere una distinzione famosa - da storico si fa esistenziale, il suo sorriso molto, molto più amaro che in passato. Mi limito ad osservare che tra La giornata di uno scrutatore e Palomar corre una linea retta (trovo incredibile che la critica unanime - a meno che vi siano eccezioni che non conosco - abbia salutato in Palomar la nascita del personaggio autobiografico calviniano, quando nella Giornata e nella Speculazione edilizia l'identificazione fra autore e protagonista era già così clamorosamente avvenuta). Ogni morale stoica ha un che di gretto e di chiuso, a cui neanche Calvino è sfuggito. Il rifiuto delle passioni, il rigore delle scelte possono diventare avarizia dei sentimenti, tentazione del non concedersi, una troppo facile liquidazione di tutto ciò che non rientra nello schema aristocratico in termini di affetti, movimenti e rivolgimenti. Questa è la parte secca del nocciolo duro. Ma, dentro la ricerca letteraria (non fuori di essa, voglio dire, ma proprio dentro le sue strutture costitutive, e perfino dentro il suo stile), l' "ostinazione volontaria", la "riduzione all' essenziale", il "rigore autocostruttivo", il sentimento virile "dell'attrito con il mondo" producono la morale più perfettamente laica che la cultura letteraria italiana contemporanea abbia mai prodotto, e cioè più coerentemente antideologica e antireligiosa che si potesse immaginare in un paese come questo. A me piace pensare, sulla base di questa constatazione, che la coppia di opposti: "favoloso realismo" e "realistica favola", siano veramente una cosa sola: la duplice rifrazione di uno stesso sguardo, quando, posandosi su di un universo rigorosamente umano, lo vede cangiante come un arcobaleno ma anche, al tempo stesso, solido ed incrollabile come una pietra. Da questo punto di vista Palomar è la coerente conclusione di un percorso. E' vero che, a rileggerlo oggi, vi si coglie un impressionante presentimento di morte. Ma questo senso del limite della natura (e persino della ragione) umana è proprio di ogni grande, autentica esperienza laica. Quello che importa non è l' inevitabile - e umano - trasalimento di fronte al grande mistero che avanza, alla linea d' ombra che tutto tende ad abbracciare. Quello che conta è l'ostinato rigore della ricerca, perseguito fino alla fine. Ancora una volta sullo sgomento dell'individuo e sulla sua tentazione di annullamento, ha prevalso il dovere dello sguardo e dell'ordine: ricercatore curioso e paziente, fino all'ultimo.


“la Repubblica”, 1 dicembre 1985  

1 commento:

giuseppe castronovo ha detto...

Una bella pagina di analisi letteraria.
Complimenti per la scelta

statistiche