15.9.14

Il Kaputt di Curzio Malaparte (Raffaele Liucci)

A mio modo di vedere Liucci nell'articolo che segue ha ragione e ha torto. Ha ragione nel fatto che Malaparte (il quale morì dichiarandosi comunista filocinese e lasciò in eredità alla Cina di Mao le sue proprietà) in Kaputt e nell'altro libro importante del dopoguerra, La Pelle, rappresenta la tendenza di molti italiani all'autoassoluzione, sulla base del principio “tutti colpevoli, nessun colpevole”; ma ha torto nel giudizio sulle qualità letterarie dello scrittore. La sua verve, la sua visionarietà, la sua sentenziosità brillante, a mio avviso, funzionano ancora. Il punto è che si legge pochissimo. Ma questo è un altro discorso... (S.L.L.)
Curzio Malaparte (1898 - 1957). Il vero nome era Kurt Erich Suckert
«Io ho perso l'abitudine di agire. Sono un italiano. Non sappiamo più agire, non sappiamo più assumere alcuna responsabilità dopo venti anni di schiavitù. Ho anch'io, come tutti gli italiani, la schiena spezzata. In questi venti anni abbiamo speso tutta la nostra energia per sopravvivere. Non siamo più buoni a nulla. Non sappiamo che applaudire». Quando, nei primi mesi del '44, Curzio Malaparte (1898-1957) avvia la stesura finale di Kaputt è un uomo stanco e sempre più disincantato. Ha passato tre anni scorrazzando per l'Europa, inviato di guerra del «Corriere della Sera», in Serbia, Croazia, Romania, Polonia, Russia e Finlandia. Se confrontiamo i taccuini delle sue peregrinazioni con le pagine di Kaputt, scopriamo che egli riprende diversi incontri, aneddoti ed episodi, ma poi li giustappone, li dilata, li reinventa, in una cornice ormai compiutamente letteraria. Pubblicato nell'ottobre '44 da un minuscolo editore napoletano, Kaputt otterrà subito un clamoroso successo e sarà tradotto nelle principali lingue straniere. Ora viene riproposto da Adelphi, in una nuova edizione a cura di Giorgio Pinotti, corredata da una nota filologica che, fra le righe, prende severamente le distanze dalla versione accolta nel "Meridiano" Mondadori curato da Luigi Martellini (1997).
Ma ha ancora senso, oggi, leggere Malaparte e in particolare Kaputt, probabilmente il suo libro più smagliante? Forse sì, ma non tanto per le qualità narrative, quanto per il valore documentario, per la capacità d'intercettare lo spirito di un'epoca. Sia chiaro, Kaputt resta un'opera pregevole, l'autore non è «soltanto un giornalista» (come si autodefiniva Montanelli), ma un autentico scrittore, dall'indubbia potenza visionaria. Una luce fredda e crepuscolare irradia le sue pagine e annichilisce ogni parvenza di vita. Infinite distese innevate. Fiumi gelidi e vorticosi. Notti bianche e inospitali. Un paesaggio che sembra animato soltanto dalle ombre di corpi sofferenti e mutilati. Ebrei squartati e appesi agli uncini come vitelli nelle macellerie di Bucarest. Torme di cani massacrati dai calci dei fucili tedeschi. Membra di prigionieri russi divorate dai loro disperati compagni. Teste di cavallo che emergono dalla superficie di un lago ghiacciato. Soldati rimasti senza palpebre, bruciate dal freddo, e costretti a dormire con gli occhi spalancati. Fieri e maestosi salmoni dilaniati dalle bombe degli invasori. Per giungere a una delle pagine più note, allorché il dittatore croato Ante Pavelic offre allo scrittore toscano una zuppa di ostriche viscide e gelatinose: «È un regalo dei miei fedeli ustascia: sono venti chili di occhi umani».
Qui sorgono le prime perplessità. Se all'epoca, in un'età pre-televisiva e per molti versi ancora pre-cinematografica, le immagini plasmate dalla penna di Malaparte potevano stupire e catturare i lettori, oggi quelle stesse immagini ci sembrano inevitabilmente goffe e obsolete. Come accade dinnanzi a certi film horror, non proviamo né paura né angoscia, ma soltanto uggia e sazietà, in assenza di qualsivoglia tensione drammatica. Malaparte, in effetti, non pare dotato d'un senso del dramma, che presuppone una curiosità non convenzionale verso gli altri: resta troppo diffidente ed egola-trico per coltivare simili aperture. Così sembra che l'incendio dell'Europa, le spaventose stragi di civili, i campi di prigionia e di sterminio, i milioni di profughi e deportati, tutto ciò sia avvenuto per un solo motivo: perché Malaparte potesse raccontarlo ai lettori, in un libro elegante e virtuosistico, ma dai contorni laccati.
I suoi incontri con alcuni dei protagonisti di quegli anni (Pavelic, Costanzo Ciano, Filippo Anfuso, Hans Frank, governatore della Polonia), benché riferiti in forma di dialogo, sono in realtà dei monologhi ingessati, nei quali i vari interlocutori recitano da ventriloqui dello scrittore toscano. Sino a scadere nel caricaturale, ad esempio quando Oswald Mosley, il leader del fascismo inglese, si presenta a Malaparte con una copia della Technique du coup d'Érat, chiedendogli una dedica sul frontespizio.
Cosa rimane, dunque, di Kaputt? Con il senno di poi, potremmo considerarlo soprattutto una straordinaria fonte per gli studiosi di storia della mentalità. Questo romanzo, infatti, insieme alla Pelle (1949), che ne rappresenta il seguito in terra partenopea e che sarà anch'esso riproposto da Adelphi, riverbera i sentimenti della "zona grigia". Ossia di quel vasto e maggioritario segmento della società italiana ch'era stato agnostico o fascista e che ora, sgretolatosi il mito mussoliniano, subiva obtorto collo la Liberazione e la nascita della Repubblica. Come mai Malaparte era così congeniale a questi italiani? Perché dipingendo la guerra con il pennello intinto nell'orrido e nel mostruoso, in realtà la destoricizzava, annegando le ragioni e i torti dei contendenti in un indistinto gorgo sanguinolento. La guerra era specchio d'un male metafisico indecifrabile. E se tutti n'erano stati in qualche misura vittime, non c'era nessun colpevole. Un balsamo tonificante, per la cattiva coscienza d'un paese già principale alleato di Hitler. 
Malaparte aveva la rara capacità d'entrare subito in sintonia con l'Italia profonda, di lisciarne il pelo e di solleticarne le corde più sensibili. Credeva davvero in quel che faceva e diceva? Forse sì, forse no. Nessuno, probabilmente, sarà mai in grado di sciogliere il dilemma. Di certo, in una pagina di Kaputt egli aveva tracciato, di sé e del proprio paese, un ritratto impudico: «È di gran moda, oggi, far la puttana, in Italia. Tutti fanno la puttana. Il Papa, il Re, Mussolini, i nostri amati Principi, i cardinali, i generali, tutti fanno la puttana, in Italia. È sempre stato così, sarà sempre così. Ho fatto anch'io la puttana, per molti anni, come tutti gli altri. Poi quella vita m'è venuta a schifo, mi sono ribellato, son finito in galera. Ma anche finire in galera è un modo per fare la puttana. Anche far l'eroe, anche pugnare per la libertà è un modo di far la puttana, in Italia. Anche dire che questo è una menzogna, un insulto per tutti coloro che sono morti per la libertà è un modo di far la puttana. Non c'è scampo».

"Il Sole 24 ore Domenica", 21 giugno 2009  

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