16.9.14

Bonnefoy: “il mondo è una poesia”. Intervista di Daniela Pasti

Berna 
La faccia di Yves Bonnefoy sprigiona una tranquilla energia. E' una faccia abbronzata, segnata da profonde rughe e decorata da folti capelli bianchi. E' la faccia del maggior poeta francese vivente, e uno dei più importanti poeti contemporanei. Questa mattina a Bonnefoy, che è arrivato apposta a Berna dal Massachusetts, verrà consegnato il Premio Balzan per la storia e critica delle arti (insieme a lui saranno premiati per la storia economica Carlo M. Cipolla, al quale Il Mulino dedica un volumetto di scritti in onore, e Alan J. Heeger per la scienza dei nuovi materiali non biologici), ma a poco valgono le distinzioni fra l'una e l'altra delle sue numerose attività: quella di grandissimo saggista, di critico e storico dell'arte, di sensibile traduttore shakespeariano. L' unità e l'interezza che questo gentilissimo e seducente settanduenne va inseguendo nella rappresentazione del mondo egli l'ha realizzata prima di tutto in se stesso, sotto il segno della poesia.
A questa cenerentola della letteratura egli attribuisce il compito di aprire degli squarci nella rete di rappresentazioni astratte create dal linguaggio e mostrarci, in una percezione fugace ma accecante, la realtà sensibile. In questa chiave alla poesia spetta anche il ruolo di essere propedeutica alla democrazia. Il mondo sarà salvato dalla poesia? La sua voce oggi è tenue, ma tanto più è esile, dice Bonnefoy, tanto più è importante.

"Compito della poesia è di provare a restituirci un rapporto con il mondo che il nostro secolo ha terribilmente impoverito. Nell'antichità, nel Medioevo, nel Rinascimento, non disponevano delle leggi sulla materia scoperte dalla modernità, quelle leggi che analizzano l'essenza delle cose, e il loro posto fra le altre. Ora degli alberi, degli animali e anche degli esseri umani abbiamo solo le rappresentazioni che ce ne dà il pensiero concettuale, che non conosce la realtà dell'individuo. C'è poesia quando, in un modo o nell'altro, questa alienazione è attenuata".

Ma oggi, è stato detto, viviamo nel mondo delle immagini: non è passato a loro il compito di mostrarci la realtà?
"Quella delle immagini è una realtà allo stato bruto, dal di fuori, senza i fremiti e i mormorii che fa la presenza dell' albero, quando siamo vicini a lui, nel suo luogo e anche nella sua durata. La percezione di un oggetto non è semplicemente l'incontro con la sua superficie, nell'irrealtà di un milionesimo di secondo. Fotografare è anche privilegiare la vista, dimenticare che 'i colori, i profumi e i suoni si rispondono' come ricordava Baudelaire. Le fotografie sono meno della realtà: da qui il loro bisogno, per imporsi alla nostra attenzione, di passare i limiti, di forzare i divieti, di mostrare il sangue, la violenza, la morte, in un modo che nessuna civiltà del passato si era permessa: anche le più violente si imponevano nella rappresentazione artistica dei limiti che mostravano che la società riposava su valori condivisi. Un gran pericolo dunque nella fotografia, e un apporto insostituibile. E anche lì il bisogno della poesia. Così considero dei veri poeti i grandi fotografi che lottano contro il loro strumento mentre se ne servono, come Walker Evans o Cartier Bresson".

Come poeta lei è nato con il surrealismo. Poi se n' è allontanato. Pensa che vi fosse in quel movimento una concezione della poesia ancora valida oggi?
"Il sentimento di una pienezza perduta, ma da riconquistare, nell'esperienza del mondo, fu precisamente il pensiero dominante di questo movimento artistico che parlava di surrealtà. Certo, il surrealismo impoveriva questa intuizione di pienezza immaginandola troppo spesso come qualcosa di fantastico, accompagnata da fenomeni incomprensibili alla ragione ordinaria, e per questo motivo me ne sono allontanato".

Quali sono i legami fra poesia e pittura, poesia e architettura?
"Poiché la poesia cerca di ristabilire il contatto con la piena presenza del mondo e degli altri esseri, è naturale che si interessi alla pittura, che è stata così spesso attenta all'apparenza più immediata delle cose, e con dei mezzi che il poeta non ha. Questi impiega parole nelle quali interferiscono i concetti, e i concetti producono i modelli astratti che sempre di più sostituiamo alle presenze reali. Contro queste tentazioni il poeta deve lottare con se stesso. Il pittore invece può evocare direttamente il rosso di una nuvola intingendo il suo pennello nel rosso, al di là delle parole. Eppure bisogna che il pittore continui a guardare a ciò che esiste, invece di rinchiudersi, come avviene così spesso oggi, semplicemente in una riflessione sui segni, semplicemente sul modo in cui i segni possono generarsi o contraddirsi. La funzione della poesia sarà dunque di richiamare il pittore a questo compito. Come facevano gli artisti del Rinascimento, che uscivano anche loro da un tempo - la società cristiana del medioevo - in cui erano i segni a contare e non la realtà naturale. Piero della Francesca, Bellini, Tiziano, hanno reinventato i corpi, la natura vegetale. E fu un bene per la società che poté, di nuovo, disporsi con confidenza ad abitare, poeticamente, una terra reale: come dimostra con forza l' architettura nuova, quella di Alberti, di Brunelleschi, di Sangallo, in cui l'essere umano appare al centro del mondo. Come il Rinascimento fu la reinvenzione, rivoluzionaria, del sentimento della natura, così la nostra arte dovrebbe porsi il compito di reinventare i grandi valori umanisti che assicurarono la verità degli artisti del Rinascimento, da Masaccio a Poussin".


“la Repubblica”, 24 novembre 1995  

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