5.9.14

Il solitario Paul e la fine dei Beatles (Alberto Piccinini)

Paul e Linda nel 1970
La notizia dello scioglimento dei Beatles la diede Paul McCartney, il 9 aprile 1970. Ma bisognava arrivare fino in fondo all'intervista promozionale per l'uscita del suo primo album solista - intitolato significativamente McCartney (niente più Lennon, niente trattino) - per leggerla nero su bianco.
(...) D. Stai preparando un nuovo album o un singolo coi Beatles? R. No (...) D. La tua separazione dai Beatles è temporanea o permanente? Ha a che fare con differenze musicali o personali? R. Differenze personali, differenze nella gestione degli affari, differenze musicali, ma più che altro perché mi diverto di più con la mia famiglia. Temporanea o permanente? Non so davvero. D. In futuro Lennon-Mc Cartney torneranno a essere una coppia di autori in attività? R. No.
Scritto da Peter Brown della Apple, il Q.&A. venne allegato alle copie dell'ellepì destinate ai giornalisti. E il giorno dopo il “Dail Mail” potè titolare senza appello: Paul lascia i Beatles.
Dieci giorni prima McCartney aveva ricevuto Ringo Starr nella sua casa di Cavendish Avenue a Londra. Il batterista gli aveva consegnato una lettera firmata da Lennon e Harrison: «Caro Paul, abbiamo pensato molto a proposito dei Beatles e del tuo album - e crediamo sia una stupidaggine che la Emi faccia uscire due dischi così importanti a pochi giorni di distanza l'uno dall'altro (...) Così abbiamo chiesto all'Emi di bloccare il tuo fino a giugno (...)». Uno era Mc-Cartney. L'altro Let it Be, registrato di fronte alle macchine da presa nel gennaio del 1969, e fermo da più di un anno. Secondo l'idea dello stesso Paul, Let it Be - che si sarebbe dovuto chiamare Get Back - avrebbe dovuto cogliere l'antica energia rock'n'roll dei Beatles, i quali non suonavano insieme in pubblico dal 1966. Ma al di là di quel che si vede nella pellicola di Micheal Lindsay-Hogg - dalla quale furono cancellati gli innumerevoli scontri tra i quattro - fu un massacro personale e psicologico. Musicale persino.
Paul a quel punto giocava da solo. La sua opposizione ai metodi del nuovo manager della band Allen Klein - dallo smantellamento della Apple alle sovraincisioni del produttore Phil Spector sui nastri di Let it Be - si era rivelata del tutto vana. Vano il tentativo di nominare il suocero Lee Eastman nella stessa posizione. I rapporti con Lennon, soprattutto, si erano definitivamente deteriorati. «Voglio soltanto - scrisse McCartney a quest’ultimo in una lettera pubblica del novembre 1971 - che noi quattro ci incontriamo da soli da qualche parte e firmiamo un pezzo di carta nel quale si dice che è finita e che ci dividiamo i soldi». E Lennon, di rimando: «Piantala di giocare a fare il buon vecchio onesto Paul! Le tasse, chi le pagherà?». Sarebbe finita poco tempo dopo. In tribunale.
La lettera di Lennon e Harrison fu la classica goccia che fece traboccare e il vaso. Sentendosi isolato, trattato come un ragazzino, Paul si incazzò moltissimo. Cacciò di casa in malo modo Ringo Starr. Let it Be venne spostato all'8 maggio, McCartney uscì come previsto il 17 aprile. Era un oggetto fragile, pieno di canzoni incomplete, ma beatlesiano dall’inizio alla fine. Nel tempo, venne oscurato dall'ultimo album dei Beatles e dal primo di John Lennon, uscito nel settembre 1970. Lo si ascolta in questi giorni in versione restaurata, ed è come la scoperta di una gemma a lungo dimenticata.
Paul aveva registrato quattordici canzoni completamente da solo, durante le session di Let it Be, con un registratore quattro piste Studer fatto trasportare in gran segreto dagli studi di Abbey Road alla sua casa di Londra. Con un solo microfono, pochi strumenti, senza neppure un mixer per non condividere con nessun tecnico quella che si sarebbe rivelata una terapia di sopravvivenza alla tumultuosa fine della sua adolescenza. In fondo, né il Lennon che cantava «don’t believe the Beatles» e metteva in piedi il suo psicodramma rock con Yoko e la Plastic Ono Band, né Harrison - che a metà del 1970 aveva suonato la chitarra per Bob Dylan nelle session di New Morning - potevano dirsi ancora veramente beatlesiani.
Paul, invece sì. Accese lo Studer e per impratichirsi cantò: «La la la la la lovely Linda/with the lovely flowers in her head». Con tutto il sottile dadaismo del caso, accompagnandosi con la chitarra acustica. Sovraincise sulla seconda pista una chitarra solista e sulla terza tenne il tempo battendo semplicemente con la mano su un libro. Sulla quarta pista, finalmente, aggiunse il basso. 46 secondi. Poi passò a That Would Be Something, un piccolo blues a metà del quale ebbe la buffa idea di imitare con la voce la batteria che non riusciva a suonare come voleva.
«C’è stato un momento in cui hai pensato ‘vorrei che Ringo fosse qui per questo break?’», si leggeva ancora nell’intervista promozionale. Paul: «No».
Momma America fu registrato per terzo. È un sorprendente giro funky per basso e pianoforte che anticipa il miglior lavoro coi Wings. Per errore, nella registrazione finì anche un’improvvisazione blues di chitarra elettrica che non c’entrava niente ma fu ugualmente tenuta nel disco. E così via.
Paul non aveva neppure trent'anni, e quando la fase epica dei Beatles era decisamente finita, il rock andava da tutt'altra parte, aveva cercato a tutti i costi di mantenere in vita la scintilla. Aveva insistito fino allo stremo perché i quattro tornassero a suonare insieme come ai bei tempi, magari presentandosi a sorpresa in qualche pub di periferia: «Potremmo chiamarci Rikki and Red Streak, o qualcosa del genere», diceva. Nessuno gli aveva dato retta.
Stressato e depresso, tormentato dall'insonnia, strafatto di alcol e canne, era disperatamente alla ricerca di una nuova normalità. Con la barba lunga, una moglie che adorava, due bimbette appena nate, si nascondeva quando poteva in una modesta fattoria in Scozia, a Campbeltown, con gli animali e l’orto da coltivare. A volte caricava la famigliola sulla Land Rover e girava le isole scozzesi, confidando di non essere riconosciuto. Quando finalmente li scovarono, Paul e Linda ebberola copertina di “Life”.
George Harrison ebbe qualche parola gentile, niente più. Per John Lennon, caustico e al picco dell'eccitazione da rockstar radicale, Paul era soltanto un «conservatore». Può darsi. Il governo del conservatore Heath si era appena insediato in Inghilterra. Il rock aveva messo da parte il suo ottimismo metropolitano per fuggire nelle dimensioni dei grandi raduni hippy e del folk rock. Non c'era musicista inglese di grido - Fairport Convention, Incredible String Band... - che non avesse deciso di abbandonare la città e di andarsene a suonare in una fattoria di campagna. Nella fattoria di Campbeltown Paul compose le sue prime canzoni del dopo Beatles. E in uno sgabuzzino della stessa fattoria mise in piedi il «Raw Studio» dove i Wings, un anno e mezzo dopo, provarono e registrarono.
Paradossalmente era stato l'ultimo dei quattro Beatles a incidere un album solista. Oltre ai singoli Give Peace a Chance e Instant Karma!, Lennon ne aveva già incisi tre con Yoko Ono, sperimentali e del tutto inascoltabili. Harrison ne aveva seguito le tracce con una colonna sonora mezzo indiana e un folle ellepì per sintetizzatore solo. Ringo Starr, per non smentirsi, aveva dato alle stampe alla fine del marzo 1970 un ellepì di standard anni Trenta e Quaranta, stonati col suo vocione: Sentimental Journey.
McCartney arrivò per ultimo e in punta di piedi, come se non volesse tradire nulla e nessuno. Tirò fuori dai suoi quaderni le canzoni che per un motivo o per l’altro i Beatles non avevano inciso: Junk e Teddy Boy le aveva scritte durante il viaggio in India. Hot as Sun/Glasses risaliva addirittura al 1959. Scelse un piccolo studio di registrazione per rifinire i nastri dello Studer su un 8 piste e qui, incidentalmente, incise Kreen-Akrore, 4 minuti per batteria e coro sporcato da una chitarra elettrica, ispirato a un documentario sulla vita di una tribù di indios brasiliani.
La terapia di McCartney fu infine completata - e non poteva che essere così - agli Abbey Road Studios. Si era prenotato sotto il falso nome di Billy Martin e un giorno di fine febbraio incise in perfetta solitudine, coi cori di Linda e tutta la precisione del caso, Every Night e Man We Was Lonely, ancora beatlesiane. E Maybe I’m Amazed: la prima delle canzoni di «sir» Paul McCartney. Un classico semidimenticato, bellissima ancor oggi.


“alias -il manifesto”, 30 luglio 2011

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