26.9.14

Houdini. L'illuminista in catene (Enzo Di Mauro)

La mente di Harry Houdini - come il suo corpo piccolo e muscoloso - non sopportava le catene e le gabbie. Era una mente velocissima e funambolica, riflessiva e potente, bagnata nell'acido della ragione pietosa e compassionevole che ogni cosa spiega e abbraccia. Non la fede, bensì il trucco faticoso e sorridente presiedeva il mondo, per quest'uomo sempre in fuga, oppure l'illusione governava un metodo (uno stile, dunque) costruito sul rigore, la disciplina, la temerarietà, la sfida e l'avventura al servizio dell'altrui incanto e insieme del proprio irriducibile disincanto. Houdini era un maestro, naturale ed elegante, della forma che non tollerava le foorme date, ovvero, intanto, claustrofobiche, virginali, sentimentali, onnipotenti. Le visioni orfiche o misteriosofiche o aurorali del mondo, inoltre, lo immalinconivano e lo irritavano. Difatti venerava la sottigliezza compositiva di Edgar Allan Poe, ossia (insieme a Baudelaire) il cuore dolente, aperto, terribile, indifeso del moderno. Per Houdini la folla era sgomento o attrazione, gelo e tepore.
Edgar L Doctorow, nella prima parte di Ragtime (1975), glorifica e storicizza l'«artista della fuga» e della velocità, il «divo del varietà» (il più grande e generoso di lutti), l'illusionista dalla vita «assurda» capace di accettare «ogni sorta di cattività» solo per poter evadere, come un emblema di quell'avvio di secolo. Lo scrittore americano ama in Houdini l'ebreo proveniente dalla vecchia Europa (era nato a Budapest il 6 aprile del 1874, si chiamava in realtà Erik Weisz), la creatura errante, l'emigrato (sbarcò negli Stati Uniti nel 1878), l'uomo il quale, benché figlio di un rabbino, non ci pensa due volte a sposare la cattolica Wilhelmina Beatrice Rahner (1876-1943) detta Bess, cantante-ballerina, la compagna di tutta la vita, l'unica, se si esclude l'intermittente relazione con la dolcissima Charmian Kittredge, cioè la seconda moglie di Jack London (lei lo chiamava Magie; «non lo dimenticherò mai», aggiungeva nel diario quasi a ogni pagina, sia in vita che in morte del «fuggitivo» e dell'assente da ogni luogo, morte avvenuta il 31 ottobre del 1926). Ma Doctorow, di Houdini, ama lo strenuo illuminismo e, ancora, lo spartachismo della felicità: «II suo pubblico era formato da povera gente - cocchieri, venditori ambulanti, policemen, bambini». Ma anche da Teddy Roosevelt, dallo Zar di tutte le Russie («quando lasci la Russia ti senti come se fossi veramente uscito da una sorta di leggera prigionia», annotò nel diario con la composta ironia di chi è abitualo a evadere da ogni cella) e dall'arciduca Francesco Ferdinando.
Dunque, Houdini scappava sempre. Dalle catene, dalle camicie di forza (e appeso a testa in giù da un grattacielo), dalle casseforti, dalle manette e dalle casse di legno inchiodate e calate nelle acque gelate di un fiume di Detroit. Un dizionario del 1920 include un nuovo verbo, «to houdinize», ossia «liberarsi o districarsi da restrizioni, legami e simili». Voleva beffare la morte e resistere oltre ogni resistenza. Si preparava con meticolosa serietà: «7 gennaio, caspita, fatto un bagno freddo! - 9 gennaio, fatto bagno dieci gradi - 10 gennaio fatto bagno freddo, nove gradi - 16 gennaio, l'acqua è a circa due gradi». Murato e sepolto vivo. Houdini doveva superarsi sempre anche per difendersi dagli imitatori. Capiva, certo, perché aveva conosciuto la povertà.
Era stato mendicante, sciuscià, strillone, equilibrista, trapezista, contorsionista, fattorino, commesso, operaio. Nella lunga gavetta in locali miserabili incontrò Buster Keaton, divenendone amico. Poi fece l'aviatore (andò in volo, per primo, in Australia), lo scrittore, l'attore (tra gli altri con Méliès), il regista, il collezionista d'arte. La biografia di Massimo Polidoro (Il grande Houdini, Piemme) è ricca di particolari, onesta, appassionante, epica quanto basta. L'autore si sofferma sulle fatiche immense alle quali il «mago» si sottoponeva. Ecco una lettera del 1901 all'amico medico: «Sono 11 anni che ogni giorno, immancabilmente, devo sopportare gli stessi sforzi; i miei nervi sono tutti consumati e io non mi sento tanto bene: le preoccupazioni e le tensioni perpetue cominciano a farsi sentire e ho paura che se non mi riposo tra poco sarò distrutto». Da due anni il successo di Houdini era diventato internazionale. L'Europa lo aveva accolto come una divinità, da Parigi a Mosca. Gli si chiedono imprese impossibili. Nel 1916, la settantaduenne Sarah Bernhard lo implora di farle ricrescere la gamba amputata. Harry non ha parole. Ormai è sicuro almeno di una cosa: il mondo è un manicomio pieno di ingenui creduloni e di ciarlatani.
Polidoro si sofferma a lungo sull'incontro cruciale di Houdini con sir Arthur Conan Doyle, avvenuto a Londra nel 1920. L'illusionista ammirava l'intelligenza analitica e il disincanto del celebre personaggio creato dallo scrittore inglese. Baker Street è un sogno, Sherlock Holmes un modello oppure un siero, una medicina contro i veleni dell'irrazionalismo. Ma Conan Doyle, che aveva perduto il figlio Kingsley in guerra, ormai credeva ciecamente allo spiritismo e, in Houdini, cercava conferme circa la propria fede nell'occulto e negli ectoplasmi. Conan Doyle, annota Houdini nel diario, «era dolce e gentile come nessun altro mortale cui sono stato vicino». Conan Doyle, da parte sua, credeva che l'illusionista fosse in grado di smaterializzarsi. Gli scrive: «La mia ragione mi dice che lei ha questo meraviglioso potere, perché non ci sono altre alternative». Houdini ne resta affranto. Nel 1922, lo scrittore si reca in America per una serie di conferenze e porta all'amico alcune foto di ectoplasmi. Houdini esegue un giochetto per bambini, cioè fìnge di staccarsi la falange del pollice per poi riattaccarsela. La moglie di Conan Doyle quasi sviene, il consorte rimane sbalordito. «Non essendogli mai stati insegnati gli artifici dell'illusione - annota Harry, intenerito e sconsolato - approfittare della sua fiducia e ingannarlo era la cosa più semplice del mondo». Conan Doyle rassicura l'amico. «Nessuno può ingannarmi». Il rapporto tra i due, rispettoso e ambiguo, finirà per guastarsi quando la battaglia di Houdini contro i medium si farà senza quartiere. A un certo punto, Houdini definirà Conan Doyle «una minaccia per l'umanità».

Quando Houdini muore (nel 1926), lo scrittore (che gli sopravvive di quattro anni) riconosce di averlo ammirato «immensamente». George Bernard Shaw, in una sua ideale classifica, accosta l'uomo sempre in fuga, ormai evaso per sempre dalla vita, a Sherlock Holmes e non certo al credulone Conan Doyle. Girò voce che in punto di morte, rivolto alla moglie, Houdini avrebbe detto: «Non preoccuparti. Se ci sarà una maniera di evadere, io la troverò». Se veramente pronunciata, questa frase fu l'ultimo e supremo respiro di una consolazione e di una compassione che sentiva di dovere alla donna amata.

alias - il manifesto, 7 aprile 2001

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