1.8.15

La vocazione del romanziere (Georges Simenon)

Il brano è tratto dal volume L'età del romanzo e precisamente dal capitolo Il romanziere, testo di una conferenza degli anni Sessanta del 900, rielaborato per la pubblicazione in volume. Un passaggio merita una piccola riflessione. Non so se indicazione del prete o dell'ufficiale come risposta al “cosa farai da grande?”, davvero corrispondano ai ricordi di Simenon. Di sicuro prete o ufficiale sono le carriere che Julien Sorel considera aperte per la ricerca dell'affermazione e del potere nel celebre romanzo di Stendhal, il cui titolo (Il Rosso e il Nero) allude appunto alla porpora cardinalizia o al colore dell'uniforme nei gradi più alti dell'esercito francese. (S.L.L.)

— Come è divenuto romanziere? Quando, come ha avuto l'idea di scrivere dei romanzi?
Domanda classica, che immancabilmente ci viene posta. Ora, salvo poche eccezioni, la risposta è sempre la stessa. Penso che non avevo neanche tredici anni quando ho deciso che avrei dedicato la mia vita a scrivere. Perché? Non sono in grado di dirlo e sarei stato ancor più incapace, all'epoca, di spiegarlo. Mio padre non scriveva. Nessun parente, nessuno nella cerchia degli amici e dei conoscenti scriveva. Nondimeno ripetevo: «Scriverò...» E dato che non immaginavo che scrivere potesse essere un mestiere, che un'opera letteraria fosse suscettibile di fruttare a un uomo abbastanza per vivere, annunciai ai miei: — Voglio diventare prete o ufficiale!
Non hanno mai capito questo dilemma. Perché prete o ufficiale? Cento volte mi hanno posto questa domanda alla quale rifiutavo fermamente di rispondere. Per il motivo, mi affretto a confessarvi, che il mio desiderio di scrivere mi pareva, se non una cosa vergognosa, per lo meno uno di quei sogni di cui non è concesso parlare. Prete o ufficiale. Vedevo il curato della mia parocchia passeggiare nel giardino del presbiterio a passi lenti leggendo il breviario. Vedevo gli ufficiali andare e venire nella città, a cavallo o a piedi, a ogni ora del giorno. Avevano quindi tempo libero, gli uni e gli altri. La professione, l'abito anche, conferiva loro una sorta di nobiltà che, nella mia mente, ben si accordava con il ruolo dello scrittore. Infine, considerazione più ingenua: avevano le mani pulite, nessuno di loro era costretto a svolgere lavori pesanti suscettibili di far venire i calli e i dolori alle mani.
Poi sono venuti gli anni del collegio. Come tanti, ho scritto versi esecrabili. Come tanti ho anche fondato, in terza, un giornale ciclostilato, che ha avuto solo due numeri e che ha rischiato di farmi espellere dalla scuola. Inutile aggiungere che esso era irriverente nei confronti dei professori. Se vi do questi particolari senza interesse, è perché ho letto, come tutti, la vita della maggior parte dei romanzieri di una volta e non ne ricordo uno che faccia eccezione alla regola: tutti hanno provato, a un dato momento, il bisogno di fondare un giornale e di punzecchiare i loro maestri. Tutti hanno rischiato di essere espulsi dalla scuola e credo che alcuni di loro lo siano stati effettivamente.
Non pretendo che questa sia una condizione sine qua non, un segno indispensabile di vocazione, e non vorrei scoraggiare quegli aspiranti romanzieri che, sui banchi del collegio, non avessero fondato un giornale.
Tuttavia mi chiedo se questa non è un'indicazione. Ciò non rivela forse una necessità di ricreare a proprio piacimento dei personaggi osservati? Poiché, in quel genere di giornali, non troviamo quasi mai delle idee sviluppate. Altri studenti ne pubblicano alcuni in cui si dibattono questioni filosofiche o politiche. Ma questi non diventeranno romanzieri. Ciò che caratterizza il futuro romanziere, penso, è il suo bisogno istintivo di ricreare degli esseri, o se si preferisce un termine più pretenzioso, di lavorare l'impasto umano. Perciò raramente esiste un modello di buona condotta. Per creare la vita, non occorre forse anche assorbirla attraverso tutti i pori? Per saper maneggiare gli uomini, per ricostruire degli uomini non occorre forse essersi immischiati frequentemente con loro? Da qui, quasi necessariamente, una terribile fame, un terribile appetito di vita, di vita sotto tutte le forme, un bisogno di immergersi nell'umano fino alla nausea.
A diciassette anni, costretto a guadagnarmi da vivere, divenni reporter. Perché? Non lo so. Non avevo mai letto un quotidiano. Non avevo nessuna idea della politica. Non sarei stato capace di dire quali partiti si affrontassero nella cittadina in cui vivevo. Tuttavia, il giorno in cui dovetti cercare un lavoro, entrai molto naturalmente, stavo per dire fatalmente, nel corridoio oscuro di un quotidiano e bussai alla porta del direttore...


da L'età del romanzo, a cura di Marie-José Hoyet Marsigli, Lucarini, 1990

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