14.6.16

I ricordi di Vito Laterza. Quegli insulti a don Benedetto (Nello Ajello)

Riprendo qui un ampio stralcio memorialistico da un'intervista del 1997. (S.L.L.)
Vito Laterza
Roma - Dal mese scorso, rinunziando alla carica di consigliere delegato, Vito Laterza ha deciso di ridimensionare la sua funzione al vertice della casa editrice. Un vertice che occupava dal 1951. Quarantasei anni tutti da raccontare. In quel 1951 si stava chiudendo, per la casa barese, una lunga stagione impersonata da Benedetto Croce come suggeritore e arbitro culturale: il filosofo sarebbe morto l'anno successivo. Spettò al venticinquenne Vito cominciare da capo. Senza il grande patriarca. Il primo passo consisté nel riprendere i rapporti con la sinistra democratica che, negli ultimi tempi, il filosofo aveva allentato. I "libri del tempo" furono la prima sigla del nuovo corso. E non mancarono i personaggi simbolici. Uno fu Gaetano Salvemini. "Lo incontrai nel 1950", racconta Laterza, "a Firenze, dove studiavo. Abitava in via Sangallo, in una cameretta d'affitto piena di ritagli di giornali buttati per terra: un tappeto di carta stampata. Era rientrato di recente dall'esilio americano, e teneva un corso universitario. Era, per noi giovani, un padre mitico che tornava. Lavoravo, allora, a un saggio su Rousseau e Kant. Già laureato, non ero ancora in casa editrice. Informai il vecchio professore dei miei studi filosofici...". Parlare di filosofia con Salvemini? Era come intrattenere Croce sulla matematica. "Lo so bene. Ma allora non lo sapevo. Gli esposi le mie tesi su Rousseau e Kant. Mi esibii in una specie di lezione. Mi parve d' aver fatto colpo".
Com' era, il Salvemini "retour d'Amérique"? "Meno mefistofelico di come era apparso nelle foto giovanili. Gli si era imbiancata la barba, il volto gli si era addolcito. L'accento di Molfetta aveva resistito alla trasferta americana. Mentre io parlavo, era stato in silenzio. Solo uscendo ricordai di aver letto di recente un suo articolo sul Ponte. Si riferiva ai primi del Novecento. Era uscita l'Estetica di Croce, subito celebrata come opera geniale. Lo storico di Molfetta raccontava di essersi precipitato a comprare il volume. Dopo dieci pagine non ne poteva più. Chiuse il libro. La sua separazione dalla filosofia, da ogni filosofia, era stata definitiva. Per non reagire alla mia lezione su Kant, mezzo secolo più tardi, compì, dunque, uno sforzo di benevolenza. Non gli interessava quello che gli dicevo, ma la passione che ci mettevo dentro. Capii allora com'è fatto un vero maestro". Poi vennero i rapporti editoriali fra Salvemini e la Laterza. "Nel 1952 pubblicai il Mussolini diplomatico. Era già apparso in inglese, concepito per i lettori americani. Salvemini mi affidò il dattiloscritto originale e mi diede carta bianca per il lavoro di editing che lo rendesse adatto ai lettori di casa nostra. Non interferì mai. Questa sua mancanza di prosopopea accademica è per me restata memorabile. Pubblicai poi La rivoluzione francese e le Lettere dall'America. Quando mi mandò, pensando di riunirli in volume, una serie di articoli usciti sul “Mondo” in difesa della cosiddetta 'legge truffa' del 1953, io gli dissi di no. Ero in disaccordo sulla tesi e forse (se ci ripenso oggi) sbagliavo. Quel rifiuto mi costò molto in termini emotivi. Ma Salvemini reagì benissimo. Conservo ancora una lettera in cui mi ringraziava del consiglio: hai ragione, è meglio non farne nulla". Un Salvemini inedito. Travestito da nonno benevolo... "Conservava, all' occorrenza, le sue asprezze. Tenne a Bari una conferenza su Giovanni Giolitti, in cui addolcì i giudizi feroci che gli aveva dedicato da giovane. Ma dopo la conferenza, a cena, Salvemini attaccò con violenza Tommaso Fiore, meridionalista e latinista, che, essendo iscritto al partito di Nenni, aveva aderito al Fronte popolare. Poi si passò a parlare di Benedetto Croce. E qui una requisitoria anti-crociana di Salvemini. Impetuosa, clamorosa, veemente. La scena si svolgeva in una vecchia villa di famiglia, in cui noi Laterza accoglievamo i visitatori illustri, Croce prima di ogni altro. Era come parlar male di Cristo in chiesa".
Ernesto Rossi
Ernesto Rossi, allievo prediletto di Salvemini, divenne un "laterziano" fra i più autorevoli. "Ho pubblicato nove suoi libri. Il più fortunato fu I padroni del vapore, cui seguì uno storico dibattito fra l' autore e il presidente della Confindustria Angelo Costa. Con Rossi ci vedevamo spesso, sia a casa sua in piazza Jacini, sia nella sede del “Mondo”. Era molto legato a Luigi Einaudi, alla cui lezione accoppiava la passione polemica di Salvemini. Fu lui a curare il volume di Einaudi Il Buongoverno, che pubblicammo nel 1954. Einaudi diede una scorsa al testo e lo approvò. Gli portammo la prima copia al Quirinale. Con me e Rossi c' erano le nostre mogli, Ada e Antonella. Restammo a cena. Ricordo gli occhi azzurri e un po' gelidi di donna Ida, gentildonna compitissima e distaccata: una vera presidentessa. Lui era rimasto un professore. Esaminò il libro con la devozione che si riserva a un classico. Gli piacque. Seppe metterci a nostro agio".
Laterza editore meridionale. Fra gli scrittori del Sud e sul Sud i personaggi pittoreschi non dovevano mancare. "Il più sorprendente era Carlo Levi, torinese e meridionalista. Affascinante. Travolgente. Sorprendente anche negli abiti, sempre mezzo soffocato da enormi cravatte di lana d'angora. Lo rivedo a bordo della barca di San Nicola, durante l'omonima festa barese. Si divertiva come un ragazzo. Non era un nostro autore, legato com'era alla Einaudi, ma fu lui - insieme con Manlio Rossi Doria - a rendere possibile il 'caso Scotellaro' , narratore contadino. Rocco Scotellaro era stato sindaco di Tricarico, ma restava un ragazzo del popolo, con una sua singolare eleganza plebea. Studiava alla scuola di agraria, a Portici, con Rossi Doria, appunto. Il suo primo libro, Contadini del Sud, ebbe un buon successo. Dopo la sua morte improvvisa (causata, sembra, da esalazioni di carbonella nella sua stanzetta di studente a Portici), pubblicammo un abbozzo di romanzo, L'uva puttanella. Era una letteratura priva di mediazione. Levi ne era entusiasta, io stesso confidavo in quel 'filone' . Ma i letterati più avvertiti scuotevano il capo. Ricordo che Calvino mi disse: è una via senza uscita. Forse, aveva visto giusto".
Fra gli autori della Laterza ce n'è uno un po' sorprendente: Brancati. "Aveva scritto per Anna Proclemer una commedia, La governante. Protagonista era una lesbica. L'editore di Brancati, Valentino Bompiani, non volle pubblicarla, e lo scrittore si rivolse a me. Gli risposi che non stampavo opere di fiction. Avrei potuto pubblicarlo se avesse accompagnato a quel copione un saggio sulla censura democristiana".
Il libro s' intitola, infatti, Ritorno alla censura. E di veramente memorabile c'è il saggio iniziale. Caustico, sferzante, pessimistico. Di quel pessimismo che connota gli illuministi siciliani. Che si ritrova in Sciascia. "Nel 1956 Leonardo Sciascia venne a Bari a tenere una conferenza. Aveva pubblicato su “Nuovi Argomenti” un racconto sul suo paese, Racalmuto. Un ritratto d' ambiente. Ci accordammo perché ne ricavasse un libro. Si chiamò Le parrocchie di Regalpetra. Ebbe una buona accoglienza. Eravamo d' accordo che, in avvenire, Sciascia ci avrebbe dato tutti i libri di argomento saggistico. In realtà non se ne fece nulla, benché conservassimo rapporti di grande cordialità. L' uomo era schivo, modesto, ombroso. Io non sono mai andato a trovarlo a Palermo. Forse non feci abbastanza per vincere la chiusura del suo carattere".


“la Repubblica", 8 agosto 1997

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