25.6.16

Margaret Fuller a Roma, un inviato speciale nel Risorgimento (Nello Ajello)

"Le donne italiane sono intellettualmente ad un livello basso, tuttavia sono prive di affettazione... Io sono convinta che saranno madri di stirpe grande e generosa".
A formulare questa profezia "risorgimentale" è, nel dicembre 1847, una donna, e per di più una femminista. Si chiama Margaret Fuller, americana, di professione giornalista. Si trova a Roma da otto mesi, mandata dal suo giornale, il “New York Tribune”, come corrispondente in vista delle sconvolgenti notizie che si preannunziano, e delle quali l'atteggiamento "liberale" di papa Pio IX rappresenta una promessa ghiotta, quasi uno scoop.
Moderna, spregiudicata, legata da un amore intenso ed esigente al suo paese come portatore di spiriti libertari e fautore di diritti civili, Margaret è ciò che oggi si chiamerebbe una "wasp", una "White Anglo Saxon Protestant", con tutte le implicazioni razziali e l'intero corredo di moralismo e di idealismo che il termine può eventualmente comportare. Ha ricevuto un'educazione umanistica. Conosce i classici greci e latini. Da ragazza - ora ha 37 anni - ha imparato il tedesco, l'inglese, l'italiano. È stata fra le proto-femministe del Nuovo Continente, come dimostra il suo libro Woman in the Nineteenth Century, un saggio basilare per il femminismo americano dell' Ottocento. In Italia è arrivata già in possesso di amicizie autorevoli, da Thomas Carlyle a William Wordsworth, da George Sand a Giuseppe Mazzini, conosciuti qua e là per l'Europa, dov'è sbarcata nel 1846. Di Roma l'attira, com'è ovvio, il retaggio storico. Ma ciò che soprattutto l'affascina è il destino di Roma "moderna", che molti sintomi fanno ritenere imminente. Gli italiani le appaiono dotati di un'eccezionale "prontezza di genialità", un "popolo d' artisti" corrotto da "secoli di schiavitù" e tuttavia desideroso di redimersi. Questo popolo - dice Margaret, riferendosi ai romani in particolare - "è capace come poche nazioni e pochi uomini di accendersi di una fiamma pura venendo a contatto con il raggio del sole, della verità e della vita".
A completare la trama di questo libro di Margaret Fuller, Un'americana a Roma: 1847-1849, che ora esce nelle Edizioni Studio Tesi, (a cura di Rosella Mamoli Zorzi, traduzione di Cristina Malagutti, pagg. XLVIII - 384, lire 14.000), non resta che registrare il fervore a volte allucinato con il quale l'autrice vede e commenta gli eventi che si svolsero nella capitale dello Stato pontificio durante i suoi due anni di permanenza: le prime riforme introdotte da Pio IX, le speranze che esse fecero nascere, la successiva delusione con la fuga del pontefice a Gaeta, l'entusiasmante avventura della Repubblica romana e il suo mesto epilogo. Come contorno non meno coinvolgente, gli eventi che si svolgono negli altri Stati italiani, dal Lombardo-Veneto al Regno delle due Sicilie. Nelle diciassette "lettere" che la corrispondente Fuller manda al Tribune, trasmigra verso il pubblico americano un pezzo importante di vita risorgimentale: quel Quarantotto che a un'intellettuale d'indole cosmopolita dové apparire come un melodramma denso di colpi di scena, esaltazioni, disperazioni, atti di generosità, viltà, tradimento. Di questo melodramma, Margaret tende a farsi protagonista più che testimone.
Il sentimento che inizialmente la lega a Pio IX è una fiducia fortemente intrisa di tenerezza. Egli le appare un "padre" dei suoi sudditi. Sul suo volto scorge "non tanto i segni di un grande intelletto, quanto piuttosto quelli della bontà e della nobiltà del cuore e delle simpatie liberali e generose". Il primo semestre delle corrispondenze di Margaret è dominato dalla figura di papa Mastai. Non è difficile, in quel grosso villaggio che è allora Roma, imbattersi, in qualche sentiero di campagna fuori porta, nel vicario di Cristo. "Abbiamo incontrato il Papa, a piedi, che faceva del moto", racconta la giornalista. "Egli abbandona spesso la carrozza ai cancelli per camminare. Cammina veloce, con indosso una semplice tonaca bianca, con ai lati due giovani preti in viola immacolato". La fisionomia di Pio IX "dà l'impressione che nulla che abbia attinenza con il genere umano gli possa essere estraneo. Tali sono i re autentici degli uomini". Ma la parabola del libro, e il tono delle corrispondenze che lo compongono, si adeguano agli eventi, che non sono affatto rosei per quella parte "liberale" cui la Fuller ha impetuosamente aderito. La defezione di Pio IX viene vissuta da Margaret con una passione che trova pochi riscontri nella letteratura risorgimentale a firma straniera. Il suo sdegno esplode nel contemplare "quei giovani eroici che erano scesi in campo con la benedizione" del Papa, "ad alcuni dei quali la sua stessa mano aveva consegnato la croce". Ora, dopo la fuga di Pio IX, i fasti della Repubblica romana sono al culmine. Ma si tratta di un breve tripudio. Nella prosa di Margaret, spesso comiziesca per eccesso di enfasi, si aprono squarci narrativi assai efficaci. Come quando sotto la sua finestra che dà su piazza Barberini - siamo nel marzo 1849 - si organizza la festa di san Giuseppe in stile "repubblicano", con quei cuochi in berretto frigio "di un bel tessuto rosso" che friggono zeppole per la letizia di una torma di clienti. "Roma", conclude Margaret, "ha lo stesso aspetto dei romani, cioè tranquillo come sempre malgrado le preoccupazioni che le tormentano il cuore. Corre voce che Mazzini debba essere nominato dittatore come Manin a Venezia, in modo da provvedere celermente ed energicamente alla guerra. Ave Maria Santissima!... Madonna Addolorata!". Ecco che il nome di Mazzini sovrappone una nota seria e problematica al racconto di questa festa popolare a base di frittelle e copricapi giacobini. Di fronte agli imprevisti che si addensano sulla fragile Repubblica di cui Mazzini è il simbolo, la razionalista Margaret non prova ritegno ad invocare la madonna. Ormai - si direbbe - è una romana onoraria.
Il sogno di Margaret Fuller è, comunque, sul punto di concludersi. Non soltanto a Roma la Repubblica è al tramonto, ma i moti e le speranze suscitati in tutta l'Europa dal Quarantotto si sono spenti. Le corrispondenze al “Tribune” si fanno amare. Mentre le artiglierie del generale Oudinot cannoneggiano Roma non più libera, in un impeto di passionalità la giornalista arriva a desiderare l'olocausto. "Non sarebbe così terribile", scrive, "morire colpiti da una bomba...". Nella ideale galleria "europea" della Fuller, altre immagini si sostituiscono a quella di Pio IX. Avanti a tutti Mazzini, "mente profetica", "grande radicale", "uomo di talento e pensatore eminente". Accanto a lui Garibaldi, che evoca nella sua mente una triade religiosa e mitologica: Gesù, Mosè ed Enea. Poi, eroi negativi, coloro che la Fuller considera i nemici o i traditori degli ideali liberali. Di Gioberti, Margaret dubita: lo considera "un ciarlatano", privo di "vera forza intellettuale". A maggior ragione Carlo Alberto è un maestro del doppio gioco, afflitto da "un'assoluta mancanza di coraggio mentale". Ferdinando II è "un povero, stupido re", Leopoldo di Toscana, "codardo e falso", Luigi Filippo, vittima di un "egoismo spietato", Luigi Bonaparte, il futuro Napoleone III, "un imbecille". Per non parlare del generale Oudinot, fisico affossatore della Repubblica romana.
Dietro l'esaltazione "patriottica" che animò questi anni risorgimentali di Margaret Fuller c'è la sua minuta vita di ogni giorno, l'incontro con la gente, con i posti: la "sua" Roma, piena di vestigia maestose ma insieme colorita e patriarcale. Alla sua sensibilità di donna moderna certe scene sospese fra la tradizione e l'idolatria - come il bacio che i consiglieri pontifici stampano sul piede del Papa - appaiono "disgustosamente abiette". Altre cerimonie, come la vestizione di una suora, accompagnata dal "salmodiare falso e innaturale troppo comune fra i predicatori di tutte le chiese e di tutti i paesi", risvegliano i suoi spiriti di libera pensatrice. L'adorazione del Bambino Gesù all'Ara Coeli le sembra il massimo del paganesimo e la induce ad esclamare: "Bruciate la vostra bambola di legno!".
Anche al di fuori dei riti religiosi, la sua solida infatuazione di Roma - "mai v'è stata una visione", ella scrive, "la cui magnificenza serena potesse rivaleggiare con quella di Roma al tramonto" - cede di fronte alla petulanza dei suonatori di organetto, all'abitudine di tutti a parlare gridando, e alle piogge continue, all'umidità e agli "odori acri" che portò al suo naso il lungo inverno romano 1847-48. In quei mesi Margaret era all'inizio di una gravidanza: nel settembre 1848 avrebbe partorito un bimbo nato dalla sua relazione con Angelo Ossoli, un marchese che intellettualmente non la valeva. La nascita del bambino, lasciato in custodia a una balia, non le impedisce - come s'è visto - di gettarsi nelle vicende politiche. Poi, mentre l'Unità d' Italia si allontana sullo sfondo, l'avventura nostrana della giornalista si conclude nella tragedia. Nel maggio 1850, la nave che trasporta negli Stati Uniti Margaret, Ossola e il loro figlio, naufraga: i tre muoiono. L'epigrafe, in fondo, Margaret se l'era scritta da sè: "Dovunque io vada in futuro, un'ampia parte del mio cuore rimarrà per sempre in Italia. Spero che i figli di questo popolo sempre riconosceranno in me una sorella, anche se non sono nata qui". Era l'ultima corrispondenza spedita al “Tribune” dopo la resa di Roma, il 6 luglio 1849. Una modesta lapide, questa di Margaret Fuller. Forse la più ingenua, fra le tante che ricordano la Repubblica romana.


la Repubblica”, 27 marzo 1986  

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