23.6.16

I giardini perduti della mia terra (Dacia Maraini)

Da Bagheria al mare era tutta una distesa verde, verde di ulivi e di agrumi. In Sicilia l’agrumeto si chiama giardino. Come il giardino del Paradiso, un luogo non legato al denaro ma al piacere. Un segno divino, un terreno capace di dare gioia, godimento spirituale, non solo nutrimento. Se oggi vado da Villa Valguarnera a Palermo vedo semplicemente asfalto, palazzi, cose orribili: i giardini sono scomparsi.
Non che mi consoli, ma penso che questa trasformazione riguardi tutta l’Italia, tutte quelle zone che erano particolarmente adatte alla coltivazione, degli agrumi come dei pomodori, e che hanno cambiato destino. Questo perché nel Dopoguerra si è puntato in maniera sbagliata all’industria. Si è pensato che l’agricoltura dovesse essere sostituita dall’industria, ed è stata una catastrofe.
Basta vedere come si è ridotta Gela con il petrolchimico – catastrofe ambientale e sociale - basta vedere le tante fabbriche abbandonate e lasciate lì. Abbandonare l’agricoltura è stata quasi una colpa. Ma io non sono pessimista: si può rimediare, la terra è sempre la terra. Si può sempre migliorare un panorama, si può riconvertire un territorio, si può eliminare l’orrore dei fabbricati industriali. Piantando alberi, tornando a dare importanza ai fiumi. L’essere umano ha capacità straordinarie. Si può, si deve tornare indietro, ma per far questo bisogna cambiare la cultura del Paese, la mentalità, lo sguardo sulle cose. Bisogna capire che si deve tornare alla terra, che quello è il nostro specifico, che è inutile cercare di fare cose che non ci appartengono.
La Sicilia a che cosa è destinata? All’agricoltura, alla bellezza dei suoi beni monumentali, alle sue tradizioni, alle sue chiese, al turismo organizzato bene, non di massa. Turismo come cultura, come sviluppo della specificità. Mi vengono in mente i pomodorini di Pachino, un sapore meraviglioso. Li fanno pure i cinesi, ma in nessun posto del mondo hanno il sapore che hanno in Sicilia.


La Stampa, 2 aprile 2016

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