27.6.16

Inquisizione e Liberazione. Intervista sulla Chiesa ad Hans Küng (Igor Sibaldi)

Hans Küng (Sursee, 19 marzo 1928) è un teologo svizzero assai stimato, che a lungo rientrò nella categoria del “dissenso cattolico”. Con il nuovo papa argentino egli è tornato a sperare in una grande riforma della Chiesa. L'ultima sua iniziativa (del febbraio scorso) è una lettera a Bergoglio con la richiesta di aprire un confronto sul tema dell'infallibilità. La risposta, a quanto lui stesso ha annunciato, non è stata negativa; sembra anzi preannunciare un dibattito aperto. Io qui riprendo una vecchia e bella intervista a “l'Unità” che rievoca il 68 come occasione mancata ed argomentatamente enumera le riforme ecclesiali che il teologo ritiene urgenti. Mi pare di grande attualità, segno che con i papati di Wojtila e di Ratzinger nulla è cambiato nella direzione che Küng avrebbe desiderato. (S.L.L.)

Professor Küng, cosa sarebbe potuto cambiare e cosa cambiò nella Chiesa cattolica durante gli anni della contestazione?
Sarebbe potuto cambiare moltissimo. C'era stato il Concilio Vaticano II, tra il '62 e il '65: e dunque non mancavano le premesse per cfambiamenti tanto importanti quanto necessari... Taluni sostengono addirittura che il Concilio avrebbe contribuito, indirettamente, al nascere della contestazione, io non lo credo. Il Concilio fu ciò che permise alla Chiesa di non ritrovarsi totalmente impreparata dinanzi agli avvenimenti che nel ’68 investirono l’università e la società in generale. Purtroppo in quel periodo la Chiesa di Roma aveva ricominciato a chiudersi ad ogni innovazione: Giovanni XXIII era già lontano. Cosi, alla fine degli anni 60, mentre in tutta quanta la società si assisteva a uno sviluppo nuovo - e indubbiamente molto profondo -, nella Chiesa di Paolo VI si stava invece retrocedendo, tirava aria di restaurazione. Basti pensare all’enciclica Humanae vitae, che uscì appunto nel '68, e dalla quale risultava chiaro che il Papa non comprendeva affatto la situazione. Ciò è tanto più grave se si considerano le indicazioni importantissime che erano venute appunto dal Concilio: come ad esempio l'idea del «popolo di Dio» - che ci avrebbe potuto guidare verso una Chiesa davvero più popolare, più vicina al popolo di quanto non lo era stata la Chiesa istituzionalista preo-conciliare. Sarebbe stata, per i cattolici, una grande possibilità di costruire una Chiesa dal basso, dalla base; e questo allora l'avevano compreso in molti: proprio in quegli anni in America latina stava prendendo forma la teologia della liberazione, nascevano le «comunità di base». E c'erano fermenti analoghi anche angli Stati Uniti, in Europa.

Stai parlando delle «Chiese periferiche», ma a Roma come venne accolto questo moto?
Per il Vaticano fu solamente uno shock le gerarchie romane vi scorsero soltanto un motivo di scandalo, di sgomento, e non invece una chance, come appunto sarebbe stato auspicabile. Fu così, per esempio, anche per l'allora mio collega Joseph Ratzinger, a quel tempo insegnava anche lui qui a Tübingen; eravamo anche amici: Ratzinger nel ’68 rimase terribilmente scioccato quando gruppi di studenti - non di teologia - cominciarono a entrare nelle aule e a interrompere le lezioni. Capitò sia a lui sia a me; e certo anch'io lì per lì, me la presi: protestai contro quelle violazioni della libertà accademica dei docenti... Per me questo genere di incidenti furono un impulso a ripensare in modo nuovo una quantità di questioni; per Ratzinger il contrario: fu a partire da allora, probabilmente, che le sue convinzioni cominciarono a prendere un orientamento nettamente reazionario. Orientamento che poi, in capo a qualche anno, lo portò alla carica che occupa ora: prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede - ovverosia capo di quel che una volta si chiamava Sant'Uffizio, e prima ancora Santa Inquisizione...
Sempre nel 68, insegnai anche a New York; e proprio durante una mia lezione con duemila persone in aula ci portarono la notizia dell’assassinio di Martin Luther King. E vidi di persona quel che successe a Harlem, le immense dimostrazioni di quella sera e di tutta quella notte. Fu una spinta ulteriore: mi obbligò a rendermi conto con sempre maggiore chiarezza della possibilità di un diverso concetto di religione. Luther King per me era un simbolo; il simbolo di una religione non repressiva, di una religione che sa essere non soltanto conservatrice ma anche innovativa, liberatoria - diversa dalla religione tradizionale. Sia chiaro, né la funzione innovativa né quella conservatrice debbono intendersi come esclusive. La religione è e sarà sempre costituita da entrambe, dal loro equilibrio. Ma sta di fatto che se la Chiesa cattolica ha ancora una possibilità, la deve cercare precisamente nel proprio potenziale innovativo e liberatorio: e questo ovunque, dall'Africa del Sud fino alle Filippine e alla Corea. Non ha altra via. E fu in quegli anni, tra ¡1 ’68 e il 70, che molti teologi se ne resero conto, cosi come appunto me ne rendevo conto io. La religione poteva avere -avrebbe potuto avere, e può ancora avere - un impatto essenziale sulla società. In quegli anni, sempre a New York, mi capitò di incontrare il celebre Premio Nobel Gunnar Myrdal, il sociologo. E conversando gli domandai se nel guardare a posteriori alle proprie analisi non si fosse accoro di aver trascurato un qualche elemento importante. E lui appunto mi rispose «Sì, la religione». Proprio cosi mi disse: «La religione. Non mi sono mai reso conto - mi disse – che la religione potesse ancora avere una qualche rilevanza sociale. Pensavo che la religione riuscisse al massimo ad avere qualche effetto nell intimo dei singoli individui... Oggi mi accorgo che c'è molto di più, che la religione può realmente essere una forza sociale».
Oggi anche Giovami Pao lo II dice queste cose, reclama questo diritto d'azione alla religione; ma lo fa in maniera contraddittoria: parla e non realizza, non concreta le proprie parole nella Chiesa. E quei cambiamenti che sarebbero potuti avvenire vent’anni fa sono ancora lì che aspettano. Nel ’68 io stesso elencai tutta una serie di proposte di cambiamento, tutto un programma di riforma pratica, nel mio libro Veracità. E non fu accolta nemmeno una di quelle proposte.

In Veracità. Per il futuro della Chiesa (lo pubblicò in Italia Queriniana, Brescia nel 1969), Küng proponeva alla Chiesa di Roma innanzitutto un «esame di coscienza sincero», un'aperta ammissione di tutti gli errori che il Vaticano aveva consapevolmente commesso per amore di posizioni istituzionali (i cedimenti «nei confronti del fascismo, del nazismo, degli ebrei, del problema razziale, della guerra, ecc.»). Dopodiché, il programma di «riforma pratica» avrebbe dovuto articolarsi, secondo Küng, nei seguenti termini: «... discussione invece che denuncia, comprensione invece che inquisizione, comunione invece che scomunica, espansione spirituale invece che frustrazione spirituale. Dialogo invece che dettato pontifìcio, critica invece che censura, apertura invece che segreto, fiducia nella verità invece che condanna di eresia... Nella Chiesa il potere gerarchico deve lasciare il posto al servizio ecclesiastico, il dispotismo clericale alla guida spirituale, la ristrettezza di vedute all’apertura nei confronti di ogni realtà, la paura della libertà al coraggio dell'impegno, la sfiducia alla collaborazione sincera». Sono cose che dopo d’allora Küng tornò a ribadire in molte sue pubblicazioni.

Professor Küng, lei crede che la Chiesa cattolica abbia imparato qualcosa da quell'occasione mancata? Che le «sia servita di lezione”?
Non penso che il Vaticano abbia imparato gran che, se non eventualmente a chiudersi sempre più ermeticamente in se stesso. Prenda ii nuovo codice di diritto canonico promulgato nel 1983: è un documento che dimostra nel modo più evidente come le autorità vaticane non abbiano imparato nulla da quel che avvenne ventanni fa. E questa chiusura, questo rifiuto di comprendere divengono sempre più caparbi, per effetto di quella forte polarizzazione che si ha oggi nella Chiesa cattolica tra tendenze conservatrici e tendenze innovative. Una polarizzazione che incominciò appunto Allora, nel '68...

Quali ne furono le vere cause?
Paura e potere. Sono due cose che vanno di pari passo, nella curia romana. Le autorità vaticane avevano e hanno paura di movimenti come quelli che vi furono allora, e ne hanno paura perché ciò che importa alle autorità vaticane non è tanto ciò che farebbe Gesù oggi quanto piuttosto ciò che esse possono ancora fare per conservare il proprio potere. Questa è la loro preoccupazione fondamentale. E appunto perciò da allora in avanti c’è stata, da parte della curia romana, soltanto una continua controffensiva. Con la nomina di vescovi conservatori, in America e altrove; questa «politica del personale» fu una delle armi principali della restaurazione post-conciliare. Con il rifiuto costante di concedere maggiori poteri ai vescovi in Europa. Con il rifiuto di concedere ai sacerdoti la libertà di sposarsi. Con il rifiuto di concedere alle donne maggiori possibilità d'azione nella Chiesa. Con il rifiuto di ammettere ai sacramenti i divorziati. E altro ancora. Tutte queste cose miravano soltanto a preservare la struttura medievale, controriformista e antimodernista della Chiesa di Roma. E il Papa attuale è in tutto e per tutto su questa linea. E un Pio XIII, per così dire. Ed è inevitabile che con simili presupposti la Chiesa continui a. trovarsi ingarbugliata in contraddizioni interne: Giovanni Paolo II parla di rispetto per i diritti dell'uomo; e intanto non li rispetta affatto, lui per primo, dentro la sua Chiesa; reclama la lìbertà per la Polonia, e però non vuole che vi sia libertà in Nicaragua.
Ed è altrettanto inevitabile, oggi, che la religiosità contemporanea distolga lo sguardo dalla Chiesa di Roma e si orienti verso altre forme religiose: le sette, le religioni asiatiche. E che l'impegno di tanti credenti trovi altre vie per esplicarsi, fuori dalla Chiesa: nei movimenti per la liberazione delle donne, o nei movimenti ecologici e via dicendo. Tutte queste energie potrebbero bensì trovar posto, essere reintegrate in una Chiesa rinnovata e rinnovata appunto nella direzione che indicò il Concilio: in una Chiesa aperta alla discussione e all'azione; in una Chiesa in cui vi fosse una collaborazione autentica costruttiva, tra il Papa, l'episcopato e una collaborazione critica tra vescovi e teologi, per un superamento delle tensioni e delle polarizzazioni... Non vedo perché non dovremmo avere tutto ciò. Non c'è, oggi, una vera ragione per la quale noi cattolici non possiamo incominciare a procedere tutti insieme nel senso della teologia della liberazione adattata, ovviamente, alle particolarità di ogni singolo paese... Probabilmente ci riusciremo, prima o poi. Ma ci vuole un cambiamento.

L'Unità, Sabato 23 Aprile 1988

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