1.6.16

L'Internazionale di Fortini (Walter Cremonte)

Alla metà di marzo, appena prima dell’inizio di quest’altra guerra maledetta, ad una festa per il tesseramento di Rifondazione a Casa del Diavolo abbiamo potuto riascoltare la chitarra e la voce (e altri strumenti di “improvvisazione povera”) di Paolo Ciarchi.
Paolo Ciarchi è stato uno dei migliori esponenti della nuova canzone politica tra gli anni sessanta e settanta: un pezzo della nostra storia culturale su cui davvero varrebbe la pena ormai di tornare a lavorare più a fondo. L’esibizione di Casa del Diavolo, generosa e coinvolgente, ha riproposto diversi “classici”, compresi alcuni canti della tradizione antimilitarista e pacifista più che mai dolorosamente attuali. Ma il momento più emozionante è stata l’esecuzione dell’Internazionale di Fortini, un pezzo insieme antico e nuovissimo (dato che il testo di Franco Fortini, nella sua stesura definitiva, è del 1994). Si conosce la storia di questa versione, a cui il poeta aveva lavorato a partire dal 1969 (e qualche parte di quel primo progetto si ritrova in una Internazionale proletaria fatta propria da Lotta Continua) fino ad arrivare alla lezione completa realizzata appena prima della morte e consegnata poi dalla vedova, Ruth, a Ivan della Mea, che la incise nella variante “ad una sola voce”. E in questa forma, voce e chitarra, l’abbiamo riascoltata da Paolo Ciarchi, riproposta direi con rigore filologico.
La prima cosa che colpisce è il nuovo ritornello: “Questo pugno che sale / questo canto che va / è l’internazionale, / un’altra umanità. / Questa lotta che uguale / l’uomo all’uomo farà / è l’internazionale / fu vinta e vincerà”. Colpisce la distanza dall’impostazione teorica e sentimentale della vecchia versione del Bergeret (quella che conosciamo tutti): al posto del “futura umanità”, che ci torna automaticamente alla memoria, qui c’è “un’altra umanità”: che significa, da una parte la radicale, irriducibile alterità di questa umanità che si riconosce nell’internazionale; dall’altra, che questa umanità è già qui ora (se la sottrazione dell’attributo “futura” vuol dire qualcosa; in poesia anche la sottrazione ha importanza, almeno quanto l’aggiunta): non è “un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi”, un futuro da conquistare, mettendo magari il mondo a ferro e fuoco... E colpisce la forte sottolineatura dialettica: “fu vinta e vincerà”, che richiama il Brecht amato (e tradotto) da Fortini: “Chi ancora è vivo non dica mai! (...) Chi è perduto, combatta! (...) Perché i vinti di oggi sono i vincitori di domani...”. (Parole che si rileggono volentieri, in tempi, come questi, disperanti). Il senso è: l’internazionale potrà vincere, proprio perché ha perduto (nelle sue forme fino ad ora storicamente date). Ma il punto più nuovo e più alto mi pare che sia nell’ultima strofa: “Noi non vogliamo sperare niente / il nostro sogno è la realtà / da continente a continente / questa terra ci basterà...”.
In questi versi severi, che rifiutano il sogno e ogni illusoria speranza, ogni inganno e auto-inganno, circola qualcosa che richiama alla mente la grande Ginestra di Leopardi (per la quale il poeta Gianni D’Elia ha riformulato l’espressione “comunismo reale”, dove è chiaro che l’aggettivo non ha proprio niente a che fare con quello che la nostra pigrizia continua a pensare): c’è aria, c’è acqua per tutti (è possibile); c’è da mangiare per tutti (è possibile); c’è forse anche un po’ di gioia, da prendere, per tutti (è possibile). Credo che con le parole nuove di Franco Fortini questo canto antico “che va”, così leopardianamente libero da ogni novecentesca volontà di potenza, ci potrà accompagnare ancora.


“micropolis”, aprile 2003

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