10.6.16

“Riformista perché rivoluzionario”. Matteotti al di là del mito (Gianpasquale Santomassimo)

La pubblicazione delle Opere di Giacomo Matteotti, curata da Stefano Caretti e patrocinata dalla Fondazione Turati, è giunta ormai al sesto volume (Velia Titta Matteotti, Lettere a Giacomo, a cura di Stefano Caretti, prefazione di Sebastiano Timpanaro, Nistri-Lischi Editori, Pisa, pp. 324, £. 40.000). Nel quasi totale disinteresse della sinistra italiana e della sua cultura. Abituata a riscoprire e rivalutare il superfluo, quest’ultima sembra aver smarrito ogni interesse per ciò che è essenziale e irrinunciabile. E anche la curiosità per i suoi stessi simboli più diffusi. Eppure non si sta parlando di un «bolscevico», ma di un socialista riformista, fondatore in questo paese di quel socialismo democratico a cui gran parte della sinistra dichiara di richiamarsi.
La verità è che Matteotti, come vedremo, può restare simbolo inoffensivo e politicamente corretto solo a patto di ignorare o edulcorare il suo pensiero. Non che il nome di Matteotti sia ignoto agli italiani: ma finisce per essere una via, una piazza, «il Martire» per antonomasia, un simbolo morale di cui pare sia sconveniente approfondire i contenuti politici.
La stessa dimensione del martire, beninteso, non è priva di implicazioni rilevanti. Come ha mostrato il volume dedicato al mito uscito nel 1994, in cui Caretti ha raccolto anche le forme di «devozione popolare» suscitate dall’assassinio: omaggi, scritte anonime, poesie, epigrafi, visioni, «elaborazioni cristologiche». Ma è una dimensione divenuta nel tempo esclusiva e che ha sacrificato lo spessore politico e la portata storica dell’opera di Matteotti. In realtà non si diventava martiri per caso in quel tempo, e il fascismo sapeva scegliere bene le sue vittime.
Dai volumi finora pubblicati - Scritti sul fascismo (1983); Lettere a Velia (1985); Sulla scuola (1990); Sul riformismo (1992); Matteotti. Il mito (1994) - emerge il profilo di un politico coerente e lungimirante, dal percorso ricco di sorprese e di smentite per chi si accontenta di ragionare attorno a formule e slogan. In un ciclo politico e culturale della sinistra che conosce una straordinaria fortuna verbale del riformismo e in cui tutti si dichiarano riformisti, è significativo il disinteresse per una delle pochissime esperienze di un riformismo con la spina dorsale, anticapitalista e antimperialista, che questo paese abbia conosciuto.
L’opposizione alla guerra imperialista è intransigente in Matteotti già al tempo della guerra di Libia. Quando matura l’intervento nella prima guerra mondiale è favorevole all’insurrezione popolare contro la guerra e giudica timida e compromissoria la formula ufficiale socialista del «non aderire né sabotare». Entra in contrapposizione frontale a tutto il mondo dei futuri socialisti liberali, entusiasti per la «guerra democratica». Viene confinato in Sicilia nel 1916 dalle autorità, il più lontano possibile dal fronte, per impedirgli di «minare» lo sforzo bellico. Di qui si oppone a quelli che gli appaiono cedimenti del suo partito in direzione di una «solidarietà nazionale» dopo Caporetto.
Nel breve periodo della sua attività politica (quattordici anni in tutto) Matteotti è legato a una visione 2gradualista” del processo di costruzione del socialismo, che diffida delle scorciatoie demagogiche e del verbalismo rivoluzionario, ma che non per questo è arrendevole o conciliante. “riformista perché rivoluzionario”, come amava definirsi non concede nessuna apertura di credito alla classe dirigente che pone costantemente sotto accusa nella sua quotidiana attività di organizzatore e di polemista. Di fatto nella situazione italiana del primo dopoguerra, Matteotti denuncia proprio il venir meno di una dei presupposti di fondo del riformismo classico, cioè l’esistenza di una borghesia disposta a «rispettare le regole del gioco». Il fatto che essa «per difendere il suo privilegio esce dalla legalità e si arma contro il proletariato» distrugge alla radice l’idea stessa di democrazia, che viene percepita come «vuoto inganno» dalle classi lavoratrici.
Matteotti è del tutto immune dal fascino della Rivoluzione russa, e la sua condanna non è basata sulla invocazione di princìpi astratti e dottrinari ma sulla constatazione concreta e realistica della impossibilità di costruire il socialismo «senza l’autonomia e l’autogoverno delle classi lavoratrici». L’episodio del gennaio ’21 ha un carattere quasi simbolico, e di amara sottolineatura di un paradosso e di un limite che sta sullo sfondo dei dibattiti della sinistra. Partecipa a Livorno al congresso di fondazione del partito comunista, dove dovrebbe parlare in rappresentanza della corrente riformista, ma preferisce abbandonare subito i lavori, non appena giunge notizia dei sanguinosi incidenti di Ferrara e dell’assalto delle squadre di Balbo alle organizzazioni operaie. Una scorta armata fornita dai comunisti lo aiuta a raggiungere incolume Ferrara e a tentare di organizzare una resistenza popolare.
È una scelta di priorità che solo Matteotti sembra percepire con chiarezza in quei mesi. Di fronte al fascismo è il primo politico che comprende la sua novità e la sua torbida complessità, la sua essenza di reazione moderna, e anche la possibilità di contagio in tutta Europa che l’esperienza italiana dischiude. Non l’estremo sussulto di un capitalismo destinato a spegnersi. Non un governo borghese che vale l’altro, come scrivono quasi tutti i comunisti e i socialisti al tempo della marcia su Roma. Non una breve parentesi destinata a richiudersi in maniera indolore. È un nemico nuovo e pericoloso che va contrastato e sconfitto in termini unitari e, anche, energici. Nei termini di lotta armata che la situazione richiede.
Nell’ultima lettera a Turati, poco prima dell’assassinio, sosteneva la necessità di «prendere, rispetto alla dittatura fascista, un atteggia mento diverso da quello tenuto fin qui... Lo stesso codice riconosce la legittima difesa. Nessuno può lusingarsi che il fascismo dominante deponga le armi e restituisca spontanea mente all’Italia un regime di legalità e libertà...». La raffigurazione, ancor oggi predominante, di Matteotti nelle forme di un profeta disarmato e che predica la non violenza di fronte alle squadre fasciste prende corpo solo nei meccanismi di costruzione del mito postumo del martire. Matteotti paga con la vita la sua denuncia delle violenze e delle illegalità che hanno assicurato la vittoria del fascismo nelle elezioni del 1924. Il suo assassinio interrompe un percorso di cui nessuno può ipotizzare compiutamente gli esiti e priva l’antifascismo del suo leader naturale.
Anche da questo carteggio emerge quella immagine di civiltà, pulizia e onestà di sentirnenti che spesso colpisce nei carteggi familiari dell’antifascismo. Nel caso di Matteotti è anche parte integrante, risvolto privato di una costruzione paziente e tenace, dal basso, di una alternativa di società e, al tempo stesso, di unasocietà alternativa che avverte come la vera essenza del riformismo italiano.
«Pare che tutti abbiano piacere della sconfitta in pieno del socialismo – scrive alla moglie nel 1922 -; eppure non ne rimangono sconfitti i difetti, ma la civiltà medesima”.

I conformisti che vogliono ad ogni costo convincerci che il fascismo era un regime normale, sotto il quale non si stava poi tanto male, che alla fine veniva accettato da tutti, dimenticano – o ignorano del tutto – quale cammino democratico il fascismo aveva interrotto con la violenza, quanti pensieri aveva impedito di pensare, a quante alternative di maturare.

"il manifesto", 18 luglio 2000

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