27.6.16

Parole chiave. Conflitto (Franco Fortini)

Al tempo della prima Guerra del Golfo (1990) “il manifesto” diffuse come inserto del “quotidiano comunista” che, al tempo, aveva un formato da piccolo tabloid, alcune schede intitolate Le lezioni del Golfo. In ognuna di esse, a firma di un intellettuale di prestigio, compariva la rubrica “Parole chiave”. Nella scheda N.8 Franco Fortini scrive di “Conflitto” e lo fa con la sua capacità di provocazione, spiegando come ci sono certe “paci”, che somigliano alla morte. (S.L.L.)
«Conflitto» sembra essere, come «guerra», il contrario di «pace». Qualcosa di sgradevole e penoso e pericoloso. Conflitto è tra opposti o contrari, urto tra volontà e bisogni.
Ci dicono che l’immagine di «pace» sorge dall’appagamento dei bisogni infantili, da tutto quel che riconduce allo stato fetale o a quello dell’allattamento (sicurezza, calore, indifferenza a quanto è estraneo) mentre l’immagine di «conflitto» è connessa a quella di separazione, mancanza, ricerca, sfida, prova, rischio, sofferenza, crescita, avventura. Non troppo paradossalmente, la pace contiene in sé la tentazione della morte mentre il conflitto implica l’eros, la brama e il desiderio.
Per molte sapienze il conflitto è proprio dell’apparenza, della tremenda scena «teatrale» della realtà mentre solo vera è la pace del Non Essere, il ritorno o il raggiungimento del Nulla. Il conflitto è vissuto allora come male o come necessità transitoria. Le religioni monoteistiche affidano alle funzioni di comando, civili o religiose, la difesa della pace. Sulla forza repressiva si fonda la legge, entro la legge si dovrebbero risolvere i conflitti, chi infrange la legge è nemico della pace pubblica.
Ma accanto e contro l’esperienza di due condizioni simmetriche e antagoniste sta quella della loro inseparabilità. Senza conflitto non si dà il fondamento medesimo della esistenza che dura, il lavoro. Senza la «prestazione» e quel che essa implica (ostacolo, resistenza, usura, sofferenza, consumo) non si dà «piacere». Senza conflitto non si dà riposo o «pace».
Le guerre sembrano tutte eguali soltanto per chi ne guarda le cause immediate e tecniche. E invece sono diverse come la storia delle società e delle parti in conflitto. Chiamare battaglie quelle dei greci, che non duravano (per estenuazione dei combattenti) più di mezz’ora e quelle delle guerre moderne che durano ininterrotte per mesi è un inganno di linguaggio. E così coloro che vogliono demolire o assopire ogni spirito di protesta e di opposizione alle cose-come-stanno vi predicano che ogni contrasto è conflitto, ogni conflitto violenza, ogni affermazione di principio è «antidemocratica», e Viva le tavole rotonde e simili imbrogli.
Presso i cinesi, sorridere all’avversario può manifestare un'ostilità grandissima. Il cerimoniale del duello, fino a meno di cent’anni fa, era una forma culturale di espressione di un conflitto tra individui. L’ironia può essere, come si dice, sanguinosa come una stilettata. La violenza non è negli strumenti impiegati per usarla. E certo le buone maniere sono preferibili, quasi sempre, alle cattive. Quasi sempre: dare della canaglia, ad esempio, è, in date circostanze, una forma di conflittualità «esemplare» ed «educativa» come non lo sarebbero invece un ironico risolino o un rispettoso dissenso.
La storia umana è anche storia di intolleranza e tolleranza, di conflitti e di loro risoluzioni, di contese e di accordi da cui nascono altre contese e altri accordi. Come nella musica o almeno in gran parte di essa. Sono sempre esistiti i tentativi, di individui o di gruppi, di uscire fuori della conflittualità verso la «pace» del nulla, della non-azione, dell’annullamento del desiderio e del confronto; penso al buddismo e alla tradizione mistica occidentale.
E anche le procedure opposte, di chi porta alle estreme conseguenze lo scontro, offrendosi vittima all’avversario: dagli assediati (Numanzia o Masada) che scelgono il suicidio contro la resa, fino ai singoli che rifiutano la vita se offerta in cambio della ritrattazione o del pentimento («questa mia è una verità di cui non si può dare testimonianza se non morto», dice, avviato al rogo, un eretico fiorentino del Quattrocento; e «lei sa, padre, che cosa significhi salvarsi l’anima?» risponde Gramsci prigioniero al prete che gli propone di inoltrare una istanza di grazia a Mussolini).
Ma non ogni conflitto è «il» conflitto, come non ogni guerra è «la» guerra e non ogni pace è «la» pace. V arespinto come un volgare imbroglione chi (e non sono pochi) interpreta i moderni conflitti tra nazioni e potenze come proiezione di conflitti tra «mentalità» o «culture» o «religioni» o «civiltà» (e presto si arriva a parlare di lotta del «bene» contro il «male» e simili rozze e purtroppo sempre efficaci menzogne).
Costoro, nella migliore delle ipotesi, dilatano a livello mondiale l’esistenza e la rilevanza certo realissima dei conflitti inconsci degli individui e fingono di non vedere che ogni cozzo di interessi e passioni traspone, sì, anche quelli sedimentati o rimossi negli individui e nei gruppi umani ma che nelle società moderne tanto le strategie del piccolo negoziante quanto quelle delle grandi potenze assegnano un’importanza sempre minore ai motivi e agli interessi non formulabili in forma razionale.
Quando il generale Schwarkopf ordina di sventrare diecimila iracheni non lo fa perché da piccolo la mamma gli negava il seno o il padre lo minacciava di busse; tanto più che egli è probabilmente un uomo di buon cuore, pronto magari ad adottare un orfano di quegli iracheni e amante della musica popolare dell’Arkansas o della lirica trovadorica o dell’allevamento dei criceti. Lo fa perché non sarebbe a quel posto ove non fosse stato selezionato ai suoi compiti da un sistema complesso di cui fanno parte industriali, economisti, storici, psicologi, sociologi, uomini politici, insomma, tutta una cultura.
Che poi quel complesso sistema abbia bisogno anche di truccare le proprie motivazioni ora evocando paure (e rassicurazioni) infantili («Il nemico è un orco sanguinario e pazzo e ognuno può contribuire a distruggerlo infilzando spilli in una sua effigie per poi tornare a mangiare il tacchino e la torta di mele con mamma, moglie e figli nel Giorno del Ringraziamento») ora fornendo argomenti solo apparentemente più realistici («vogliamo il petrolio») ma altrettanto menzogneri o parziali - tutto questo ci dimostra che «la pace» è una parola vuota e consolatoria se non si definisce bene a quale conflitto, a quale lotta o guerra si opponga. Si opponga, appunto. Negare un conflitto equivale a istituirne un altro.
«La vita dell’uomo sulla terra è un servizio militare», «Io sono venuto a portare la spada»: Chi ha detto queste frasi è la medesima bocca che ha detto: «Beati coloro che si adoperano per la pace». Credo non ci sia nessuna contraddizione. La prima frase riconosce che la conflittualità (tra «bene» e «male», fra «giusto» e «ingiusto») e la sua sofferenza è costitutiva, come la sua gioia, dell’essere umano e del suo fondamentale bisogno di conservazione e riproduzione, ossia di «lavoro». La seconda ci avverte che il latore di consapevolezza è anche latore di conflitti. La terza vuol dire che i facitori di pace sono coloro che, accrescendo la cerchia dei rapporti, dei temi e delle ragioni di non-conflitto, spostano la frontiera degli inevitabili e fecondi conflitti, inducendo sempre più ampie alleanze e sempre più precisamente definendo e chiamando per nome i nemici, trasformandoli prima in avversari, poi in collaboratori necessari e preziosi. Ogni individuo, ogni classe, ogni società è «pacifica» all’interno della cerchia del proprio «fuoco di bivacco» ma non può non avere sentinelle poste a difesa della fraternità e della solidarietà, sempre minacciate da «dentro» come da «fuori»; al limite il «nemico», come diceva Leopardi, sarà identificato nella nostra condizione di esseri naturali, nella «natura» che ci destina alla scomparsa individuale e, in prospettiva, della specie.
Oggi e subito il «nemico», quello contro cui è necessario non solo conflitto ma guerra, è tutto quello che propone false mete, false coscienze, false solidarietà, false paci; e che, per un esempio, nega di fatto, a colpi di parole o di leggi o di capitali o di missili, l’uguaglianza dei diritti - e la finale identità umana - fra i privilegiati e i «dannati della terra».
Però, con un’aggiunta: la lotta per quella uguaglianza non può non implicare conflitto contro chi opprime e asservisce altrui. Nessuna peggiore ingiustizia che fare le parti eguali tra diseguali, insegnava don Milani. Per questo la lotta contro chi organizza il consumo di una spropositata parte dei beni della terra a favore di una minoranza cosiddetta «civilizzata» può non essere «giusta» ma è necessaria. Ancora una volta il conflitto è un «male» per un «bene» e per un bene non garantito. Così l’uomo mosse armato di bastone contro l’alce o il bufalo, sapendo la sofferenza cui si esponeva o che infliggeva, nella speranza di sopravvivere alla fame. Bisogna scegliere.

Le lezioni del Golfo, n.8, supplemento a “il manifesto”, senza indicazione di data , ma 1990

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