16.6.16

Storia e memoria. Settimio Gambuli, "A Gaeta a far gavette" (S.L.L. - 1990)

Ho scritto questa recensione nel 1990, quando uscì il libro di Mimmo Gambuli di cui qui si parla. Un libro che trovai molto bello e che ebbi l'onore di presentare in alcuni incontri pubblici. Uno, il più commovente, si svolse a Pietralunga, ove il più importante dei “presentatori” era il parroco partigiano, il famoso parroco che dalla torre campanaria fermò con il mitra i tedeschi per sottrarre i suoi concittadini alla rappresaglia. Il testo apparve su “Cronache Umbre”, la rivista del PCI dell'Umbria, con il titolo La memoria e la storia e con qualche refuso che ho provveduto a eliminare. (S.L.L.)
Settimio Gambuli da giovane
Uno dei più inquietanti segnali di restaurazione del decennio trascorso è stato il "revisionismo storiografico", raramente fondato su una nuova documentazione e metodi scientifici d'indagine, ma fortemente ideologizzato, apologetico nei confronti del capitalismo e celebrativo dei suoi trionfi, feroce con i movimenti di popolo e di massa che nell'ultimo cinquantennio hanno osato contestare l'ordine sociale esistente e contrastare il corso normale delle cose. In questa luce il movimento comunista italiano e il partito nuovo di Togliatti non sono stati che strumenti della politica imperiale sovietica; le lotte degli anni quaranta e cinquanta per la pace, il lavoro e la terra torbide agitazioni manovrate dai comunisti; il sessantotto fucina del terrorismo; il protagonismo operaio degli anni settanta matrice, con il suo egualitarismo, di ogni crisi economica passata, presente e futura.
Da ultimo è toccato alla Resistenza e alla guerra di liberazione. L'estate scorsa, prendendo spunto da episodi marginali e, in genere, da tempo ben conosciuti, su gran parte della stampa quotidiana e periodica, storici d'attacco, tromboni fascisti di Salò e pentiti di ogni genere, si sono scatenati a criminalizzare la Resistenza, a rappresentare i partigiani come sanguinari assetati di vendetta.
Si capisce. Nel momento in cui si vuol costruire una seconda repubblica con un potere di governo concentrato, fondato su un consenso di tipo plebiscitario, ed eliminare lo scandalo della prima, cioè l'influenza nelle sedi della rappresentanza dei movimenti di massa, se ne vogliono prosciugare le sorgenti di legittimazione. Allo stato nato dalla Resistenza si vuol sostituire un potere senza resistenze, senza disturbi al manovratore, tutt'al più sorretto dalla pubblica opinione orientata dai media.
Non so quanto siano in tema queste riflessioni, ma pure tanta amarezza e rabbia mi ha suscitato la lettura del bel libro che Settimio Gambuli ha di recente dato alle stampe per i tipi della Protagon di Perugia, un libro che mi ha appassionato e commosso: A Gaeta a far gavette. E' un'opera senza trucchi, onesta e leale come chi l'ha scritta, che ci restituisce intera la verità di una giovinezza, di una tragedia e di una scelta.

1. La costruzione della memoria
Gambuli partigiano e combattente della liberazione, viene da una lunga militanza politica e da un lungo impegno giornalistico ed è certo consapevole delle reticenze e degli inganni della memoria: sa bene che essa non è tanto registrazione quanto rappresentazione. Proprio per questo non ha voluto scrivere un libro di storia o di ricordi personali. Ha scelto invece la forma del romanzo, della fiction, per trasferire sulla pagina l'esperienza che considera fondante della sua identità e messaggio da trasmettere a quelli che verranno.
Il libro ha una struttura molto particolare. Si immagina che alcuni combattenti antifascisti, detenuti a Gaeta per aver rumorosamente contestato il principe Umberto, luogotenente del regno, approfittino di quegli ozi forzati per scrivere la loro storia. Il libro non sarebbe che la trascrizione del memoriale dopo lungo tempo ritrovato.
L'"invenzione" del manoscritto può apparire ingenua, primitiva e convenzionale: basta ricordare I Promessi Sposi. Lo stesso Gambuli esplicita la letterarietà della sua scelta intitolando la prima parte Il manoscritto trovato in Calabria, che fa il verso al "Manocritto trovato a Saragozza" di Potocki o anche al Memoriale ritrovato a Sant'Elena dello pseudo-Napoleone. Tuttavia il ricorso a questo antico espediente risulta in Gambuli originale e straordinariamente pregno di significati. Per esempio disvela uno dei meccanismi del ricordare: nei movimenti collettivi la memoria è sempre collettiva, non ci sono quasi mai ricordi individuali, il ricordo del compagno è anche il mio ricordo, si imprime nell'immaginazione con gli stessi colori vividi dell'esperienza diretta. Uno è l'estensore materiale del manoscritto, ma la memoria non è mai la sua, è quella di tutto il gruppo.
Con la trovata del "memoriale di gruppo" Gambuli ci ha forse esemplificato efficacemente quanto sociologi e psicologi storici hanno difficoltà a farci comprendere sulla costruzione della memoria storica, ci ha fornito un modello di genesi della coralità epica e comunicato la sua integrità intellettuale. Egli sembra dire al lettore: a combattere sulle montagne e nella palude io c'ero, c'ero quando fischiammo il principino, c'ero nel carcere a Gaeta, ma non voglio venderti questa storia come reale nei minimi particolari; ci sono, com'è normale, involontarie censure, attenuazioni ed esagerazioni, spostamenti cronologici, ma questa non vuol essere la vicenda come è accaduta, ma come i compagni ed io ce la siamo rappresentata nella nostra comune memoria, allora e dopo, nei periodici incontri, nelle cene, nelle bevute.

2. La storia
L'invenzione del manoscritto influenza anche la distribuzione della materia nelle varie parti del libro, permettendo all'autore di intrecciare i tempi della vicenda per mantenere viva la curiosità e l'attenzione del lettore. E gli riesce, come ha detto Saverio Tutino presentando il volume a Città di Castello, lo stesso effetto di "suspense" di un racconto poliziesco. L'appendice di documenti posta alla fine del libro serve non solo a riconnettere la verità della memoria con quella degli archivi, ma contribuisce anche a "sciogliere" i nodi che la narrazione aveva accumulato.
Il procedere quasi labirintico della narrazione rende assai difficile un'esposizione sintetica dell'intreccio, tuttavia richiamare al lettore la traccia principale del racconto mi pare cosa utile. La vicenda si sviluppa nell'arco di due anni o poco più, tra gli ultimi mesi del '43 e la fine del '45. Tre sono gli scenari fondamentali: i monti, le valli e i paesi tra l'Umbria e la Toscana dove un gruppo di giovani, provenienti in maggioranza da Città di Castello, combatte la guerriglia partigiana; le paludi della Padana dove essi, inquadrati nella divisione Cremona del ricostituito esercito italiano, danno il loro contributo alla totale liberazione dell'Italia dal nazifascismo; il carcere di Gaeta, ove sono reclusi dopo la condanna per i fischi al principe Umberto.
Già nel primo momento di questa terribile e generosa avventura, pur tra persone che hanno compiuto una precisa scelta di campo, è difficile capirsi, collegarsi, coordinarsi. Nei gruppi partigiani convivono estrazioni sociali, convinzioni, orientamenti e aspettative molto diversi, sulle montagne c'è perfino un gruppo di combattenti jugoslavi. È difficile stabilire un dialogo dopo che la dittatura e la sua retorica ufficiale avevano costretto e abituato al silenzio, è difficile ritrovare autonomia e responsabilità dopo l'esperienza in un società e in un esercito che richiedevano solo passività ed obbedienza. Contro queste difficoltà e contro quelle materiali, gravissime, si erge una diffusa solidarietà. I mezzadri e le loro famiglie proteggono quei ragazzi con la loro assistenza: essi ottengono alloggio, cibo, informazione, trovano perfino il modo di fantasticare d'amore. Il gruppo di Montebello, così detto da luogo del suo primo insediamento, conosce così la tragica esperienza della morte e la gioia dell'impresa riuscita, esaltandosi nelle prove di coraggio, trepidando nella fuga, smarrendosi a volte di fronte all'ignoto. Dopo i tanti pericoli i partigiani possono rientrare nelle loro città liberate.
Ripartono pochi mesi dopo, inquadrati nella divisione Cremona, persuasi che questo sia il loro dovere. È una integrazione molto tormentata quella in un esercito "regolare" ove alcuni non pochi ufficiali e graduati sono avvezzi alla disciplina cieca e all'ottusità burocratica, ma pure riesce. E dopo nuove prove, nuove morti, nuove battaglie ed avventure, giunge la vittoria. Eppure i segni, che intravedono qua e là, di restaurazione del vecchio ordine li spingono a disturbare la festa del principino. Ne segue il carcere, ne seguono nuove conoscenze e consapevolezze, quella soprattutto che in galera e nel carcere militare finiscono solo i poveracci, mentre molti tra i responsabili del disastro italiano stanno riacquistando influenza e potere.
Questa la sequenza cronologica degli eventi, ma essa è del tutto insufficiente a restituire il tono generale del libro. Ad esso infatti danno un contributo decisivo i tantissimi personaggi, principali e di contorno, tra loro diversissimi. Pur nella comunanza degli ideali e dell'impegno ognuno di loro porta dentro la storia del movimento la sua storia particolare, le sue esperienze e le sue speranze. La coralità della narrazione non stempera le individualità in una massa indifferenziata, la grandezza di un popolo compattamente proteso verso la liberazione e la libertà non si esprime nell'annullamento delle differenze ma nella loro valorizzazione.

3. Personaggi e paesaggio
Queste individualità trovano una espressione compiuta nel modo di raccontare di Gambuli. Egli è un narratore nativo, tradizionale. Gli sono del tutto estranee tecniche e modalità che esprimano la scomparsa del soggetto. Questa sua vocazione propriamente narrativa ricorda per molti aspetti il grande realismo ottocentesco. I personaggi, ad esempio, sono solitamente messi in scena con un ritratto, un ritratto fisico, che ce li fa quasi vedere, e un ritratto psicologico-morale. Centrale è po, in tutto il libro, l'attenzione alla fisicità dell'esistenza, al vedere, al sentire, al mangiare, al toccare, al fare l'amore o al desiderare di farlo. Sono quasi tutti giovani gli attori del dramma e la loro gioventù si effonde in una irrefrenabile vitalità, quasi una sfida alla morte che li circonda e li sovrasta. Non voglio togliere al lettore il gusto di scoprirli nel libro e di ricordarli: Gamo, il narratore, Livio, il saggio, Nannone, estroso e ribelle, il calabrese, il ladro, il tenente Rigo e tantissimi altri, che, con pochi tratti e qualche esemplare episodio, Gambuli ci fa quasi incontrare e conoscere da vicino, nella loro pienezza umana. Una cosa vale qui la pena di ricordare: non è un libro piagnucoloso e opprimente, nel libro si ride e si fa ridere, perché - come ci spiega Gambuli - la risata o anche il sorriso sono l'antidoto all'angoscia, il sale della razionalità, l'incoraggiamento alla tolleranza. C'è una paginetta di riflessione che proprio al ridere nelle diverse età della vita e nelle diverse circostanze dell'esperienza Gambuli dedica: è il punto di un acuminato spirito di osservazione e di una grande finezza psicologica. Ci sono, nel romanzo, altre paginette di psicologia e moralità, quella ad esempio sul coraggio e la paura, o quella sulla giustizia e la pietà, che ci trasmettono una sapienza non appresa dai libri, ma maturata nella ricchezza del rapporto tra uomini.
Un altro elemento, che potrebbe apparire retrò, mi ha colpito e sorpreso, la compiutezza dei paesaggi, la cui precisa descrizione apre molti dei brevi capitoli di cui il libro si compone. C'è nel narratore un amore viscerale per monti e valli, alberi e animali, inverni e primavere, assolutamente privo di intellettualismo, che ci riporta alla civiltà contadina, al suo nativo ambientalismo che nutre di sé chi l'ha appreso fin dai primissimi anni di vita, quali che siano poi i luoghi ove la vita lo conduce.

4. La scrittura
Un altro elemento decisivo della straordinaria comunicatività del libro di Gambuli è la scrittura, il cui tratto fondamentale è la semplicità. Non che lo scrittore non sia in grado di maneggiare un periodo complesso: ci sono qua e là saggi di una frase più articolata e complessa. La semplicità di Gambuli è il frutto di una scelta, è frutto di una volontà e di una ricerca. Nulla è più difficile della semplicità, ha scritto qualcuno: Gambuli ha appreso bene, forse anche per la sua lunga militanza, quest'arte; a verificarne la portata è l'equilibrio che egli riesce a realizzare nella sua lingua tra elementi letterali ed elementi dialettali. Senza scadere nel pittoresco e nel folclorico, senza togliere nulla alla fruibilità e godibilità del suo racconto per il lettore che umbro non è, egli intesse la sua narrazione non solo di vocaboli, ma anche di stilemi, proverbi, espressioni legate ai luoghi e alle persone, alla terra e al popolo, che conferiscono alla semplicità del suo scrivere una pienezza sensuale, frutto di una popolarità non populistica. Qualcuno ha rimproverato all'autore la presenza in alcuni luoghi del romanzo di elementi di "politichese" o di "giornalesco": io non li ritengo fuori posto. Sono anche questi gerghi parte di una lingua viva: il loro uso estremamente parco e temperato non inficia la lingua usata nel libro, ma la rende più ricca di articolazioni e di spessore. Un'altra sorprendente capacità equilibratrice Gambuli rivela nell'articolare piano del dialogo e piano del racconto: non c'è una decisa preponderanza dell'uno sull'altro, come c'è un scelta "classicistica" nel non differenziare troppo il livello espressivo dei due momenti. Ci sono difetti, cadute? Era inevitabile per uno scrittore non professionista, ma si tratta di elementi marginali di una scrittura che aderisce fortemente alla "cosa" che Gambuli vuole comunicare.

5. Il messaggio
Gambuli lo dice esplicitamente: il suo libro vuol essere un messaggio soprattutto diretto alle nuove generazioni, a quelle che della Resistenza conoscono quasi soltanto le retoriche commemorazioni ufficiali, che la svuotano del suo significato umano e la danneggiano allo stesso modo delle falsificazioni criminalizzatrici. La lettura di A Gaeta a far gavette mi ha riportato alla mente una vecchia poesia di Luca Canali; del 1965, La resistenza impura. Così essa recita: "agli uomini senza ambizione politica, /senza particolari dati di impegno, senza relazioni influenti, / cioè senza possibilità di scampio o di scampo, / che caddero oscuramente, / mossi da elementari bisogni e da elementari ideali. / A questi uomini che in morte come in vita / non ebbero mai nè chiesero quartiere, / e di cui la storia, che pure di essi soprattutto / si nutre, disperde prudentemente le tracce".
Il libro di Gambuli è dedicato a uomini di questo tipo, quelli che caddero e quelli che non caddero, che seppero compiere una scelta radicale, senza attendersi ricompense e carriere e che, nell'Italia repubblicana, riscattata soprattutto dal loro valore dalla vergogna fascista, tornarono dignitosamente alla loro quotidiana fatica di vivere. Ai giovani questi uomini trasmettono un messaggio di responsabilità. Non è possibile lasciare ai capi, ai politici, ai generali la determinazione della sorte comune, occorre che ognuno si faccia carico dell'impegno di salvaguardare la giustizia, la libertà e la pace. Ieri, nell'Italia straziata dalla guerra, oggi in un'Italia e in un mondo dilaniato da guerre, razzismi, ingiustizie, criminalità, droga, è compito dei giovani resistere contro il male.

“Cronache Umbre” - Dicembre 1990

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