Se ancora oggi li si
osserva sotto la lente dell’incompiutezza, gli anni 30 del cinema
italiano sono invece il laboratorio in cui, in incognito, si aggirano
i protagonisti delle fortune del dopoguerra. Il genere comico a
esempio era stato nel trentennio precedente filiazione diretta del
palcoscenico, qualche volta con mezzi più sontuosi rispetto a
varietà e caffè-concerto. La necessità di un rinnovamento di
moduli ed esperienze filtra con il trascorrere degli anni man mano
che aumenta, in Blasetti, Zavattini, Bragaglia o Steno, la
consapevolezza di dover cercare nel linguaggio cinematografico la
possibilità di far ridere il pubblico. Di questo affascinante
periodo di progetti e esperimenti ci racconta un bel libro di
Alessandro Faccioli, Leggeri come in una gabbia. L'idea comica nel
cinema italiano (1930-1944), ed. Kaplan.
In Italia «c’era solo
la corsetta di Ridolini», tanto per dire alla Mattoli quanto esiguo
fosse lo spazio di una strada cinematografica verso la risata. Se le
possibilità economiche dei produttori avevano da tempo attirato i
nostri migliori talenti comici dal varietà al set, pochi erano stati
i tentativi di distaccarsi da quel fortunato modello spettacolare.
Ecco allora il sovrabbondare di gag e di lazzi lasciare sguarnito il
racconto filmico. L’interesse di scrittori, umoristi, patiti della
maschera declinata verso l’assurdo delle avanguardie era già nei
primi anni 30 assai forte, guidato dal culto di Ettore Pretolini.
Attorno al quale il cinema si genuflette reverenziale con il Nerone
(1930) di Blasetti e Cortile e Il medico per forza
(1931) di Campogalliani. Restava insomma fuori dalla commedia
l’osservazione della vita quotidiana, le difficoltà degli
italiani, la sproporzione tra la realtà e la grancassa del regime
che proprio a partire dalla metà degli anni 30, con l’avventura
imperiale, alzava ancora di più il tiro. Va da sé che anche i film
dei primi anni 30 fossero sostanzialmente appannaggio degli attori,
tutti o quasi, sottolinea Faccioli, di derivazione regionale. I quali
«dovendo capitalizzare al massimo il proprio lavoro senza peraltro
aver molto tempo per prepararsi, con incoscienza e spontaneità
trasferiranno in blocco questi saperi, aggiornandoli davvero poco,
per adattarsi in fretta e furia a un medium a loro virtualmente
ancora sconosciuto, mai dal primo istante congeniale». Ridere al
cinema in Italia fu dunque anzitutto un lento e graduale processo di
appropriazione del mezzo. E se gli anni 30 sono stati il tappeto
lungo il quale questo tentativo si è manifestato, quasi sempre
ricordando i film di Righelli, Malasomma, Mastrocinque, Borghesio, si
parla di occasioni mancate, di battute a vuoto, di smarrimenti. Con i
grandi esempi fomiti dalla triade Chaplin, Keaton e Lloyd a
frastornare ancora di più la giovane critica e a depistare umori e
progettualità dei nostri sempre estemporanei produttori.
D’altra parte a rendere
avventurosi e cruciali questi anni è la presa di contatto con
umoristi e scrittori satirici che si stavano dando da fere sul
Bertoldo, Marc’Aurelio e Becco Giallo: Metz, Marchesi, Steno,
Campanile, Fellini, Guareschi, Zavattini forniranno l’ossatura del
cinema futuro, quello risorto fuori da Cinecittà a partire dal ’44.
Tampinati dalla censura che li obbligava a slalom meticolosi, questi
stessi, se con un braccio si addestravano ad adattare gag e giochi di
parole al grande schermo, dall’altro proprio da questo traevano
maggiore ispirazione, scherzando sui divi dell’epoca e i loro
costumi disinvolti e sui divi d’oltreoceano, immaginati dalla
scrivania di casa, come faceva Zavattini nelle Cronache di
Hollywood.
Se il cinema comico in
Italia nasce nel ’39, con Imputato alzatevi! (di Mattoli,
con Macario) e Animali pazzi (di Bragaglia, con Totò), ciò è
il frutto di una coscienza se non altro dei generi, così come si
stavano codificando sulla spinta di Luigi Freddi, il duce della
cinematografia. Sospinta dalla scelta autarchica e dal divieto di
importare film Usa, dopo il 39 inizia finalmente a svilupparsi una
produzione differenziata secondo i modelli hollywoodiani. Il
problema, una volta eletti Macario e Totò a marionette ideali, non è
più scegliere la storia e le gag, ma una scrittura filmica diretta
verso la realtà. Aspettando la fine della dittatura.
“alias il manifesto”,
25 febbraio 2012
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