SANREMO — Ci sono
stati, finché visse, tre Calvino. Il Calvino delle prime opere,
Sentiero del nidi di ragno, Ultimo venne il corvo,
Fiabe italiane, Mareovaldo. Pavese gli aveva trovato
una immagine folgorante: uno scoiattolo della penna, la cui astuzia è
di arrampicarsi sulle piante più per gioco che per paura. È il
Calvino favoloso, libero, giocoso, del personaggi picareschi che si
muovono, nei loro viaggi, in un multicolore universo di storie
popolari.
Poi abbiamo avuto il
Calvino della trilogia I nostri antenati. L’elemento
immaginoso mutava registro, le fiabe prendevano più aspetto di
allegorie come nei romanzi dell'illuminismo settecentesco, i picari
del nostro tempo o della tradizione fiabesca popolare lasciavano il
posto a baroni rampanti, visconti dimezzati, cavalieri inesistenti.
È venuto poi, ultimo, il
Calvino delle storie che si piegano su sé stesse, a riflettere sul
processo genetico della loro invenzione. Storie a scatola cinese, in
cui il viaggio — e per Calvino il racconto ha sempre la forma
metaforica del viaggio — diventa spesso un gioco dell'ars
combinatoria, che intreccia possibili percorsi, com'è appunto nel
Castello dei destini incrociati. È il Calvino che più ha
trovato fortuna presso gli specialisti di semiotica, i letterati, gli
universitari. O anche, per certi romanzi, in chi è curioso di
scienza, perché le Città invisibili, le Cosmicomiche,
o Palomar, attingono molto dall’arsenale dell’immaginario
scientifico.
E ora, che è iniziato il
viaggio di Calvino nelle interrogazioni della memoria storica, quale
immagine di lui comincia a prender forma dall’indagine critica, a
entrare in dialogo con quelle preesistenti, e a porsi da termine di
confronto per quelle che verranno? Una prima messa a fuoco è venuta
dal Convegno nazionale di studi su Italo Calvino, che si è svolto il
28 e il 29 novembre, indetto dal Comune, a Sanremo, che di Calvino è
stata a tutti gli effetti la città natale, benché fosse nato nel
1923 da genitori sanremesi a Cuba, dove visse i primi anni
d’infanzia.
Dalle relazioni di
Natalino Sapegno e di Franco Croce, sostanzialmente coincidenti, che
aprivano il convegno, è il secondo Calvino, quello dei Nostri
antenati, che via via ha preso corpo, giganteggiando su tutti gli
altri. È dall’alto del Barone rampante — ha detto
perentoriamente Franco Croce — che va letto anche l’ultimo
Calvino, il primo essendo ancora immerso nei minori esiti della sua
fase di formazione. Ma di questo secondo Calvino è stata presentata
un'immagine, che poco ha a che vedere con quella, suscitata a suo
tempo quando uscì la trilogia de I nostri antenati. Ha detto
Sapegno: lo scrittore lucido, immaginoso, divertente, che mette in
scena le allegorie dei nostri antenati scalcagnati o inesistenti, è
uno scrittore il cui tema centrale è la consapevolezza dello sfacelo
che in quegli anni cinquanta e sessanta investe non solo i valori
etico-politici, ma gli stessi valori e strumenti della conoscenza
logico-razionale e di quella estetico-letteraria. Per Calvino,
infatti, gli istituti della grande letteratura novecentesca avevano
ormai chiuso con Thomas Mann, da lui pure amato moltissimo, il loro
ciclo. Di lui — e di sé — disse bene Calvino: Thomas Mann capì
tutto del nostro mondo, ma sporgendosi da una estrema ringhiera delle
nostre case; noi cerchiamo di carpirne qualche immagine precipitando
dalla tromba delle scale.
È il nucleo tematico che
Franco Croce ha definito, con una frase di Calvino, “un’angoscia
simbolica”. La metafora di ogni racconto — il viaggio — diventa
nei romanzi più maturi il percorso in un labirinto, un angosciante
viaggio che non spiega la realtà, ma ne presenta, anche se in forma
comica e divertita, i bui ingorghi, le perplessità, gli smarrimenti.
È, nel Visconte dimezzato, il senso dell’uomo sdoppiato,
irrisolto; è, nel Cavaliere inesistente, la perdita della
realtà, come sarà poi, in Palomar o in Se una notte
d'inverno un viaggiatore, la difficoltà del comunicare tra
uomini, qui in romanzi dove l’umanità si ritrae dietro la maschera
di una fredda intelligenza. Ma sono romanzi — ha precisato Franco
Croce — che prendono le distanze da tutta l’imponente letteratura
novecentesca dell’angoscia. Perché Calvino la racconta
simbolicamente, la traduce in gioco, allegoria, simbolo
logico-matematico, itinerario geometrico, scelta intellettiva. Il
linguaggio che la racconta, oltre che mito, allegoria, palesa anche
la sua natura segnica, di simbolo, di meccanismo combinatorio del
linguaggio. E un sistema bipolare: il perfetto ricamo dei ghiribizzi
linguistici è riferito all’angoscia da esorcizzare. Come II barone
rampante, che «visse sugli alberi, ma amò sempre la terra*; ricamò
il suo percorso terreno di albero in albero, ma per sfuggire
l'angoscia che gli dava la terra amata. Non quindi per gioco, come
disse Pavese, ma per paura. Una paura che si nasconde dietro al
gioco.
Ma questa immagine, cosi
accampata in alto, come una luce che col suo riverbero dà colore a
tutta l’opera di Calvino, è davvero quella da privilegiare su
tutte? E il crescente interesse di Calvino per le scoperte della
scienza e l'immaginario scientifico è davvero cosi pretestuoso, come
da più parti si è detto in questo convegno?
Alberto Oliverio lo ha
invece collocato all'interno dell’atteggiamento di crescente
interscambio tra le due culture, quella umanistica e quella
scientifica, che porta oggi a mutui prestiti dì metafore e tematiche
poi, com’è ovvio, diversamente elaborate. Il rigore linguistico di
Calvino ha un preciso termine di riferimento anche nel linguaggio
della scienza. Le figure di scienziati che Calvino mette in campo non
assomigliano all’astronomo, pieno di fede cieca nella scienza, e
perciò sciocco, su cui Pirandello esercita in una novella il suo
sarcasmo. Sono invece scienziati come Palomar, erudito
settecentesco, che cerca di cogliere, dubbioso e per tentativi, il
significato della realtà, che sa sempre essere relativo.
Altre falle nell'immagine
forte, ma esclusiva, di Calvino come interprete dì una “angoscia
simbolica”, hanno aperto gli interventi di Vittorio Coletti e
Giulio Einaudi. Il primo, con una acuta analisi linguistica, ha messo
a fuoco il linguaggio segreto dell’invenzione letteraria di
Calvino, individuando in esso una duplice matrice. Da un lato il
lessico, scarso di aggettivi, che si modella sul linguaggio delle
attività pratiche, dei vocabolari specialistici, mai però usati —
come spesso oggi è il caso — in funzione gergale. Dall’altro
lato il linguaggio dell’invenzione fantastica, non meno esatto e
preciso, pur nella sua evocazione poetica. Entrambi definiscono
linguisticamente l’illuminismo di Calvino. Certo, il solo oggi
possibile, che sa l’impossibilità di afferrare e trattenere la
realtà.
Da parte sua Giulio
Einaudi ha pure offerto un contributo interessante, specie per
riaprire il discorso sul primo e l’ultimo Calvino. In una serie
inedita di flash giornalistici, pieni di arguzie e malizie, mandati
per lettera da New York — un convegno su Calvino giornalista e in
preparazione per i prossimi mesi a Firenze — il tema della città
che gli si presenta dai suoi grattacieli, grigi nella nebbia come
enormi rovine, è tutto sotteso, anche se non traspare, dalla ricerca
di una città vivibile. Come — ha detto Giulio Einaudi — tredici
anni dopo nelle Città invisibili o come molti anni prima, nel
Sentiero dei nidi di ragno e in Marcovaldo.
l'Unità, 30 novembre
1986
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